64.ma mostra internazionale d'arte cinematografica |
Alexi TAN fuori concorso
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Shangai anni ’30, atmosfere dark e personaggi da gangster-movie che si muovono felpati tra night-club e strade lastricate di piombo. Alexi Tan mette in atto l’ormai frequente transizione dal videoclip al lungometraggio, con la sensibile differenza di essere un protegée di John Woo e imponendosi una discreta castità stilistica (il retaggio si fa sentire solo nell’insistito commento musicale, mancando per fortuna la temuta frenesia del montaggio e il gesto veloce della m.d.p.), che va annoverata tra i sicuri meriti del “regista esordiente”. Per tre anni si ferma e resta in ascolto del verbo wooiano, dimenticando anche il passato remoto come fotografo di moda e sforzandosi di assimilare la lezione di Sergio Leone, del quale riprende, con una certa padronanza del mezzo, i lenti carrelli e, sul piano della definizione dei personaggi, l’inarrestabile vocazione alla totale deriva del male. Due fratelli di sangue e un terzo acquisito si spingono dal piccolo paese e dalle minuzie dei sentimenti domestici fino al teatro all’aperto di Shangai, pronta ad accogliere avventurieri e fantasmi della guerra (contro il Giappone, anno 1937). Un po’ Chicago e un po’ New York, la metropoli offre tutto a basso prezzo: violenza, sesso e perdizione. Il salto dai risciò al Club Paradiso è obbligatorio per chi non ritenga necessario attraversare i passaggi obbligati della scalata sociale, che impongono tempi lunghi. Fong il buono (è Daniel Wo, spesso al fianco di Jackie Chan), sarebbe disposto al sacrificio, insieme a Hu, ma una circostanza fatale ne accelera i tempi d’integrazione al nuovomondo, predisponendolo a un’ulteriore eccezione etica: tradire il boss cui si è affiliato il terzetto cercando di diventare amante della sua donna, la cantante di cabaret Lulu (SHU QI). BLOOD BROTHERS, fratelli di sangue secondo l’accezione coppoliana di saga familiare contenuta nel PADRINO, riprende però l’intreccio di BULLET IN THE HEAD di John WOO, qui in veste di produttore, dal quale peraltro si distanzia immediatamente per la quasi totale assenza di scene d’azione. Non è un vero e proprio remake, poiché rispetto a B.I.T.H. distribuisce un po’ su tutti i personaggi principali (sette) il compito di sviluppare la materia narrativa, sciolta nel dialogo serrato più che nello scavo psicologico. Il film procede quindi tra l’ipertrofia della scrittura e la definizione calligrafica degli ambienti, finendo col tralasciare la consistenza interiore dei personaggi, della quale intuiamo vaghi squarci solo grazie alla qualità complessiva della recitazione, davvero notevole. Una maggiore selezione, in questo senso (al massimo 2 o 3 figure principali sviluppate e portate a compimento) non avrebbe nociuto all’esito finale.
VOTO: 27/30
L'intervista ad Liu Ye, Lulu Li e Chan Cheng
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