I FIGLI DI CORMAN

61.MA MOSTRA CINEMA DI VENEZIA

 

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Storia Segreta

del Cinema Italiano
 

Italian Kings of the Bs

LE OMBRE DELLA PAURA

61ma Mostra: 03.09.04

 

Lo speciale su KMX

quentin tarantino

 

 notte tarantino

03.09.04


ABEL FERRARA

 

notte FERRARA

10.09.04

 
 
INTRODUZIONE A SERGIO MARTINO
di Riccardo FASSONE
“Il tuo vizio è una stanza chiusa dal di dentro e solo io ne ho la chiave” recita il biglietto che Ivan Rassimov manda alla Fenech in questo bel thriller erotico di Sergio Martino che, dunque, si confronta con l’archetipo della porta dietro alla quale si cela un passato da dimenticare, la porta che si vorrebbe tenere sempre chiusa ma di cui si condividono le chiavi con qualcuno. L’intreccio è presto detto: la protagonista, una bella Edwige Fenech, ha chiuso una inquietante relazione sadica con un precedente amante (Rassimov) e cerca ora tranquillità in un matrimonio convenzionale. A darle la caccia, però, ci sono un misterioso assassino ed il vecchio amante. Film chiuso, film della rimozione impedita questo “Lo Strano Vizio Della Signora Wardh”, che inaugura la stagione dei gialli “a-la Martino” e che concorre con “Tutti I Colori Del Buio” ad essere la pellicola migliore del regista Romano. L’impossibilità di trovare appagamento nella “normalità”, il peso dei ricordi e dei sogni dolorosi che tormentano Julie Wardh sono temi cari a Martino (riproposti anche nel meno bello “Il Tuo Vizio E’ Una Stanza Chiusa E Solo Io Ne Ho La Chiave”) che li affronta con discreta padronanza narrativa ed affida ad una prima parte proto-slasher il compito di creare tensione attorno al personaggio della Fenech, riservandosi di condurre in porto la pellicola con un intelligente anti-climax ed un finale di solidissima fattura. Interessanti i flashbacks dal taglio onirico, ottimamente supportati dalla bella colonna sonora di Nora Orlandi e non privi di una certa disturbante incisività (suggestiva, ad esempio, la sequenza dell’amplesso con i cocci di vetro); la coppia Fenech-Hilton, affiancata per l’occasione da snake eyes Ivan Rassimov, funziona come sempre e l’assassino guantato di nero, prerogativa irrinunciabile dei gialli dell’epoca, non si fa odiare come in altri casi. Pellicola esteticamente compiaciuta, raramente grossolana (manca, forse, un po’ di rigore nelle inquadrature) ed interessante se non altro per la volontà di condurre una narrazione non allineata a quella classica del giallo dei primi anni ’70. Il film è dunque nettamente diviso a metà ed in qualche modo la forza espressiva della tranche finale compensa alcune ingenuità dell’intreccio giallo messo in scena nella prima parte, quasi a voler affermare la solidità del lavoro di Martino e la sostanziale unicità del suo tratto, smentendo chi lo vorrebbe fedelmente allineato al canone del nascente giallo argentiano. Riscoperta gradita e probabilmente dovuta per uno dei veri “dimenticati” del cinema italiano.
 
 

LO STRANO VIZIO DEL SIGNOR QUENTIN:

A REAL “MOVIE-GOER”

di Gabriele FRANCIONI
Bob Weinstein, Sergio Martino e Quentin Tarantino monopolizzano la fila a metà Sala Perla ed è difficile stabilire quale sia effettivamente lo “spettacolo” notturno, una delle tante occasioni, in questi giorni, di incontrare Mr. “Q” in veste a metà tra la rock star e il turista americano entusiasta di tutto ciò che vede,
e quindi NON i musei, NON i canali, ma un unico quadro appeso al muro, grande e bianco.
Weinstein commenta sonoramente solo le scene di nudo fenechiano, in “simpatia” con un’idea di carne che gli è propria. Martino presenta l’opera con pensosità autoriale, il che non guasta tra gli schiamazzi sui titoli di testa e il resto dei commenti “in hi-fi”, tutti benevoli ed ecumenicamente diretti dal regista all’attrezzista meno considerato.
Quanto è baritonale Martino e Weinstein è un incredibile “basso” (la poltrona trema a ogni seno di Edwige), tanto tenorile risulta la risata tarantinesca, improvvisa, sparata a intervalli brevi, che esplode a commentare tutti i momenti più particolari, anomali, trash e probabilmente quello è l’attimo in cui la mente del regista fa immediato tesoro di dettagli che sfuggono ai più.
La sorpresa più piacevole di tutto il Festival, a pensarci bene, è stata proprio la dimostrazione in situ e in tempo reale del fatto che i FIGLI DI CORMAN, come ci diceva JOE DANTE durante l ‘intervista, sono tutti effettivamente dei “MOVIE-GOER”, dei frequentatori indefessi delle sale cinematografiche, innamorati della materia proiettata quale che sia, famelici e onnivori, ma poi anche capaci di una durissima “selezione” tutta personale del “visto” ( che vale tanto quanto il “girato” e il “montato” ).
DANTE, anch’egli invisibile al Lido, e QT sono stati da esempio per tutti i Lido-cruisers e hanno rispettato i codici del loro personalissimo Manuale delle Giovani Marmotte: in sala a mezzanotte, alle 3 e alle 9 del mattino…
 
 
INTRODUZIONE A FERNANDO DI LEO
di Riccardo FASSONE
Celebrata con ben cinque pellicole selezionate con intelligenza filologica dalla corposa filmografia del regista pugliese, la saga “scerbanenchiana” di Di Leo trova nella proiezione “seriale” dei film che la compongono un ulteriore motivo di riscoperta e valorizzazione. Se si eccettua “Il Boss”, straordinario mafia-movie, il cui valore assoluto rende possibile una collocazione praticamente ubiqua in una retrospettiva dedicata al regista , il sodalizio a distanza tra Di Leo e Scerbanenco rivela la propria straordinaria efficacia se analizzato come opera unica composta di quattro film, che, pur disgiunti dal punto di vista narrativo, costituiscono l’incastro perfetto tra la poetica amara di Scerbanenco e la selvaggia volontà di mostrazione di Di Leo. Sebbene il solo “I Ragazzi Del Massacro” abbia per soggetto un’opera dello scrittore Milanese, l’intera saga di Di Leo è in realtà popolata di quei personaggi sfortunati e brutali che rappresentano l’ossatura dei migliori romanzi “neri” di Scerbanenco. Il Gastone Moschin di “Milano Calibro 9”, pesce piccolo che cerca pesci più piccoli da sbranare o, nella stessa pellicola, il sadico Mario Adorf, che presta il volto a quella che è una summa dei tanti personaggi “non perdonati” di Scerbanenco, sono uccelli notturni della stessa Milano nebbiosa e crudele di “Traditori di tutti”. Verrebbe da pensare ad una comunione di intenti o, se non altro, di sensibilità tra i due autori, ed invece è dagli attriti che si creano tra la narrazione sottilmente malinconica dello scrittore e quella fieramente violenta del regista che nasce la grandezza delle riletture di Di Leo. Dove Scerbanenco elide, con impareggiabile maestria narrativa, il particolare cruento,  Di Leo sceglie di mostrare, di far prevalere l’immagine negata alla pagina scritta per scoprire il sottinteso, scavando nelle spirali più scure di una Milano corrotta e crudele.
 
 
Cinema Segreto

La Sperimentazione

LA VERIFICA INCERTA

(Alberto Griffi e Gianfranco Baruchello)

di Marco GROSOLI
La verifica incerta è un esperimento parawarholiano, uno dei frutti migliori dell'underground italiano dei '60 e '70, profondamente influenzato da quello, quasi coevo, americano. Grifi e Baruchello montano insieme lacerti di pellicole hollywoodiane di qualche anno prima, andando verso una radicale decostruzione del testo-film, reso oggetto strutturalmente APERTO. Scelgono di non curarsi minimamente di qualsiasi forma di espressività linguistica portata dall'immagine, men che meno di qualsivoglia traccia narrativa iscritta nel testo. Lo sforbiciano senza ritegno, lacerano i dialoghi in una serie di sillabe incomprensibili, conservano fulminei momenti vuoti dove non succede niente, isolano un gesto di un personaggio sottraendone ogni significato, ripetono in loop singoli frammenti, e così via. E' dunque un felice tentativo di frantumazione della sintassi cinematografica. Attraverso la distruzione del linguaggio, si arriva all'astrazione completa degli automatismi del senso portati in sé dall'immagine in quanto tale. Tutto ciò ha un nome preciso: Andy Warhol. Anche lui vedeva nel cinema la Macchina automatica del senso: riprendere l'Empire State Building per ore ed ore significa concentrare l'esperienza visiva nella Durata, la quale cancella l'importanza della cosa vista, del "profilmico", affinché si riveli la Macchina, il cinema, che appunto usa innanzitutto la Durata per produrre senso, la successione di 24 fotogrammi al secondo, senza la quale non può darsi immagine in movimento. Grifi e Baruchello dunque pervengono a questo stesso traguardo, alla rivelazione della Macchina come automatismo del senso (principio al cuore di tutte le astrazioni, gli straniamenti e le iconologie della Pop Art), ma con mezzi differenti: la distruzione del linguaggio, l'esibizione delle sue rovine, la messa in evidenza della funzione primaria del linguaggio, ovvero frantumare il reale. Evidenziando questo, si palesa che il meccanismo linguistico, di per sé è sostanzialmente estraneo al senso; rendendo indipendente il senso dal linguaggio lo si riconsegna all'automatismo, alla macchina, al cinema. Warhol per arrivarci usava l'astrazione del linguaggio, Grifi e Baruchello la sua polverizzazione.
Si tratta di un'intuizione dalla portata teorica straordinaria, non inferiore a quelle dei Maestri underground americani. E soprattutto in prodigioso anticipo sui tempi: Blob, tanto per fare un esempio, non ha mai fatto mistero (tramite esplicite ammissioni dei suoi ideatori, o omaggi di vario genere nel corso stesso della trasmissione, tra i quali intitolare "La verifica incerta" la rubrica interna al programma in cui Ghezzi commenta quotidianamente tutte le giornate dei Festival di Venezia degli ultimi anni) di avere sempre ritenuto tra i propri numi tutelari proprio il film di Grifi e Baruchello. (29/30)
 
 
Blindman (Ferdinando Baldi)

Colpo Rovente (Piero Zuffi)

di Riccardo FASSONE
Accorpati non tanto per contingenza stilistica o tematica, ma piuttosto per il loro far parte di quella nutrita schiera di film weird partoriti dal cinema di genere italiano, Blindman e Colpo Rovente sono episodi certamente minori della lunga stagione dei generi, eppure, per quanto eclissati per qualità dai lavori di Fulci e Di Leo presentati in mostra, rientrano a pieno titolo nella categoria dei film poco o mai visti che avremmo voluto meglio rappresentata nella rassegna dei Kings Of The B’s. Tralasciando le polemiche, peraltro assolutamente bonarie, il primo, Blindman (Ferdinando Baldi-1972) è un tardo western di taglio leoniano, discretamente curato nei dettagli e graziato da un approccio alla sceneggiatura tra l’ironico ed il grottesco che dona inaspettata dinamica alla messa in scena. Tony Anthony (dimenticato ma efficace attore americano dei ’70) è un pistolero cieco che ha promesso ad un gruppo di minatori di procurare loro delle donne da sposare ma che dovrà fare i conti con una banda di criminali senza cuore (tra i più brutti e selvatici mai visti nella storia del western). Film infarcito di trovate interessanti e riuscite, non ultima una scena con serpente velenoso non dissimile da quanto visto in Kill Bill Vol2 di recente, che diventa non di rado vincente grazie alle possibilità narrative offerte dall’escamotage del pistolero menomato. Da notare la presenza di un Ringo Starr clamorosamente fuori parte e nonostante ciò adorabile nei panni del solito cattivo-scemo fratello del cattivo-cattivo.
Non così riuscito ma altrettanto, e forse più, curioso è Colpo Rovente, pellicola del 1969 di Piero Zuffi, che, oltre a vedere il debutto sullo schermo di una incredibilmente corvina Barbara Bouchet, segna l’inizio e la fine della carriera cinematografica del regista ed il debutto dell’imperturbabile Michael Reardon (visto di recente in Cabin Fever) in una parte da protagonista. Costellato di buchi di sceneggiatura praticamente insondabili ed ammorbato da una recitazione ai limiti dell’autismo del buon Reardon, il film di Zuffi ha, però, dei guizzi che lo rendono degno di una visione a posteriori. La storia, a quanto si riesce ad evincere, è quella di un agente di polizia che si mette sulle tracce dell’assassino di un magnate dell’industria farmaceutica e sospetto produttore di droghe allucinogene. Tralasciando la retorica piuttosto grossolana sugli stupefacenti, comune peraltro a moltissimi film dell’epoca, Zuffi mette in scena almeno due sequenze di buon effetto estetico; si pensi all’irruzione della polizia nel locale degli hippies, tanto coreografata che pare anticipare la scena del ballo coi gendarmi di Holy Mountain di Jodorowsky, o ancora alle scenografie deliranti che vogliono la Bouchet rinchiusa in una casa interamente blu e le pareti di un locale alla moda inondate dalle immagini in flashback del film stesso. Segnalazione doverosa anche per la partecipazione al film di un Carmelo Bene/Killer ottimamente doppiato da Amendola.
 
 

Colpo di Stato (Luciano Salce)

di Riccardo FASSONE
Letteralmente tirato fuori dalla tomba dell’irreperibilità, questo bellissimo lavoro di Luciano Salce torna ad essere visibile in un’ottima copia in pellicola grazie alla retrospettiva dedicata ai film di serie B (utilizzo la definizione senza condividerla), confermando tutta la propria amara attualità. Girata alla vigilia delle elezioni del ’72, la commedia fantapolitica di Salce immagina un’Italia nella quale i comunisti riescano a salire al potere facendo tremare i blocchi e “costringendo” gli americani a preparare (cito dal film) un bloodbath sulle nostre sponde. Splendidamente girato in un ottimo bianco e nero, il film di Salce trova i propri punti di forza in un’apertura quasi da docu-fiction ed in alcuni inserti di descrizione corale (con struttura da tragedia greca e dialogo tra coro ed attori) coraggiosamente surreali, arrivando con eleganza ad affrontare uno scenario tutt’altro che impossibile a realizzarsi e spingendosi a ricercarne le eventuali conseguenze con intelligenza. Lontana anni luce dall’essere una noiosa riflessione politica, è proprio grazie all’approccio giocoso del regista che la pellicola decolla e rivela la propria forza dirompente; le grandiose battute (un paio almeno da antologia della commedia italiana), l’abbinamento di immagini belliche e musiche da avanspettacolo (Michael Moore, sei in ascolto?), la straordinaria capacità di prevedere l’esponenziale crescita di importanza dei media nella vita politica sono i segni più evidenti della grandezza di un’opera eclissatasi per più di vent’anni eppure straordinariamente godibile ed estremamente intelligente.
 
 

Colpo di Stato (Luciano Salce)

di Gabriele FRANCIONI
COLPO DI STATO è a tutti gli effetti il DR STRANGELOVE italiano, arrivato con qualche anno di ritardo (il ’70 rispetto al ’65) a trattare il tema della Guerra Fredda col disincanto e la ferocissima ironia di un’intelligenza spesso confinata entro i confini angusti del piccolo schermo o della commedia all’italiana.
Salce è rapsodico nella costruzione del suo lavoro, e questo è forse l’unico limite abbastanza evidente in COLPO DI STATO: appena il coltello affonda, ecco un’improvvisa digressione a portarci altrove, magari sul terreno della facile battuta.
Ma è ben poco rispetto alla quantità di temi appena esposti o lungamente trattati, tenuti insieme dal filo rosso di una storia esilarante, a metà tra docufiction e fantapolitica, che, come anticipato, Kubrick, ma anche Frankenheimer e Lumet, avevano reso realistica, terribilmente plausibile e, anzi, a un passo dal farsi cronaca della distruzione del pianeta.
Al di là del nucleo centrale - il perverso marchingegno conta-voti portato dagli americani, che registra paradossalmente il trionfo dell’allora Partito Comunista Italiano o il suo inventore pazzo, a suo modo un vago ricordo del Peter Sellers tedesco, così come la scelta del Palazzetto delo Sport di Nervi vuole lontanamente rimandare agli spazi “da astronave” del DR STRANAMORE – poco familiare al Salce nostrano, è nel tratteggio del sottobosco di ministri e consiglieri in perenne riunione che il regista dà il meglio. L’attesa del voto, vissuta con crescente panico dal Vaticano e dalla Democrazia Cristiana (memorabile la figura del Papa), crea un’atmosfera da sagra paesana interrotta, che però, col passare delle ore, ingloba e accetta anche il più incredibile dei risultati. Il Paese, in poche ore, per pigrizia e indolenza (cambiare per lasciare tutto come prima, il Grande Gobbo docebat anche all’epoca…), da nazione ostaggio della CIA e anticomunista si trasforma sonnacchiosamente in una repubblica delle banane sovietiche, con i ricchi che si ritirano negli yacht inneggiando al nuovo regime e il popolo che imborghesisce nel giro di una notte.
Assolutamente meravigliosa la cantante sconosciuta, che la Rai manda in onda per nascondere l’onta del sorpasso elettorale, dopo ore di documentari sugli orsi e i tulipani. Salce ci suggerisce con ferocia come i destini dell’uomo qualunque e quelli dell’intero pianeta seguano leggi casuali, quasi una Teoria del Caos (etico, politico, pubblico e privato) che cambia in pochi attimi le carte in tavola: per quieto vivere diventiamo comunisti senza battere ciglio e una ragazzotta di periferia diventa improvvisamente la star del momento, tra ballate della Resistenza, canti popolari e Bandiera Rossa, le nuove “hit” del momento.
Perfetto il finale, con il PCI che preferisce sedersi sull’eterno ruolo di opposizione istituzionale, piuttosto che lanciarsi in un’avventura esaltante e insperata, ma faticosa, imprevedibile e,a conti fatti, non preferibile alla paciosa convivenza coi democristiani e il loro vetusto sistema di potere.
 
 
B'S HORRORS
di Riccardo FASSONE
Giustamente annoverato tra i generi celebrati dalla retrospettiva “Italian Kings Of The B’s”, anche l’horror (o, meglio, il cinema di paura in senso lato, vista la presenza di NON SI SEVIZIA UN PAPERINO) ha avuto la propria parte nelle proiezioni di Sala Volpi. Un film di Margheriti e due di Fulci (con l’eventualità che Tarantino proietti la propria copia personale di 7 NOTE IN NERO durante la serata conclusiva) hanno ben rappresentato le diverse evoluzioni di quel calderone di espressione istintiva ed incontaminata che era il cinema orrorifico italiano. DANZA MACABRA, horror classico con elementi di innovazione rispetto alla tradizione inaugurata da LA MASCHERA DEL DEMONIO, segue di poco l’esordio di Margheriti come regista di horror (LA VERGINE DI NORIMBERGA, firmato come Anthony Dawson) e ne decreta l’unicità autoriale. Permeato di un’atmosfera sottilmente morbosa, DANZA MACABRA costituisce in qualche modo un’anticipazione del filone gore-zombesco che impazzerà per il mondo non meno di quindici anni dopo l’uscita di questo film. Più di Mario Bava (o comunque più del Mario Bava dell’epoca) , Margheriti si serve della violenza e del sangue per creare l’elemento di orrore anticipando in questo senso una lunga schiera di registi italiani che ne seguiranno le orme. Con NON SI SEVIZIA UN PAPERINO e L’ALDILA’…E TU VIVRAI NEL TERRORE, si ha la possibilità di analizzare due delle sfumature del cinema “della crudeltà” di Fulci; l’aspetto realistico, la rappresentazione di una morte feroce ma poco coreografata, poco “cinematica”, sono i punti di maggiore originalità del bellissimo thriller Fulciano, che svetta tra i più originali e riusciti della sua epoca anche grazie alla straordinaria interpretazione di Florinda Bolkan. L’ALDILA’, al contrario, è uno splatter “metafisico”, nel quale l’elemento gore assume un valore simbolico rafforzato dallo sguardo onirico messo in campo dal regista romano. A latere della proiezione dei film si è potuto assistere allo screening dell’ottimo lavoro di documentazione del “nostro” Paolo Fazzini, che con il suo LE OMBRE DELLA PAURA firma il documentario ad oggi più esauriente sull’horror italiano. Le numerosissime interviste (a Sergio Martino, Lamberto Bava, Antonio Margheriti tra gli altri), coniugano ottimamente lo sguardo dell’appassionato e quello dello studioso, dando vita ad un lavoro maturo ed assolutamente indispensabile per chi voglia approfondire la storia di un genere a lungo bistrattato.