“Il tuo vizio è una stanza
chiusa dal di dentro e solo io ne ho la chiave” recita il biglietto che
Ivan Rassimov manda alla Fenech in questo bel thriller erotico di Sergio
Martino che, dunque, si confronta con l’archetipo della porta dietro alla
quale si cela un passato da dimenticare, la porta che si vorrebbe tenere
sempre chiusa ma di cui si condividono le chiavi con qualcuno. L’intreccio
è presto detto: la protagonista, una bella Edwige Fenech, ha chiuso una
inquietante relazione sadica con un precedente amante (Rassimov) e cerca
ora tranquillità in un matrimonio convenzionale. A darle la caccia, però,
ci sono un misterioso assassino ed il vecchio amante. Film chiuso, film
della rimozione impedita questo “Lo Strano Vizio Della Signora Wardh”, che
inaugura la stagione dei gialli “a-la Martino” e che concorre con “Tutti I
Colori Del Buio” ad essere la pellicola migliore del regista Romano.
L’impossibilità di trovare appagamento nella “normalità”, il peso dei
ricordi e dei sogni dolorosi che tormentano Julie Wardh sono temi cari a
Martino (riproposti anche nel meno bello “Il Tuo Vizio E’ Una Stanza
Chiusa E Solo Io Ne Ho La Chiave”) che li affronta con discreta padronanza
narrativa ed affida ad una prima parte proto-slasher il compito di creare
tensione attorno al personaggio della Fenech, riservandosi di condurre in
porto la pellicola con un intelligente anti-climax ed un finale di
solidissima fattura. Interessanti i flashbacks dal taglio onirico,
ottimamente supportati dalla bella colonna sonora di Nora Orlandi e non
privi di una certa disturbante incisività (suggestiva, ad esempio, la
sequenza dell’amplesso con i cocci di vetro); la coppia Fenech-Hilton,
affiancata per l’occasione da snake eyes Ivan Rassimov, funziona come
sempre e l’assassino guantato di nero, prerogativa irrinunciabile dei
gialli dell’epoca, non si fa odiare come in altri casi. Pellicola
esteticamente compiaciuta, raramente grossolana (manca, forse, un po’ di
rigore nelle inquadrature) ed interessante se non altro per la volontà di
condurre una narrazione non allineata a quella classica del giallo dei
primi anni ’70. Il film è dunque nettamente diviso a metà ed in qualche
modo la forza espressiva della tranche finale compensa alcune ingenuità
dell’intreccio giallo messo in scena nella prima parte, quasi a voler
affermare la solidità del lavoro di Martino e la sostanziale unicità del
suo tratto, smentendo chi lo vorrebbe fedelmente allineato al canone del
nascente giallo argentiano. Riscoperta gradita e probabilmente dovuta per
uno dei veri “dimenticati” del cinema italiano.
LO STRANO VIZIO DEL SIGNOR
QUENTIN:
A REAL “MOVIE-GOER”
di Gabriele FRANCIONI
Bob Weinstein, Sergio
Martino e Quentin Tarantino monopolizzano la fila a metà Sala Perla ed è
difficile stabilire quale sia effettivamente lo “spettacolo” notturno, una
delle tante occasioni, in questi giorni, di incontrare Mr. “Q” in veste a
metà tra la rock star e il turista americano entusiasta di tutto ciò che
vede,
e quindi NON i musei, NON i canali, ma un unico quadro appeso al muro,
grande e bianco.
Weinstein commenta sonoramente solo le scene di nudo fenechiano, in
“simpatia” con un’idea di carne che gli è propria. Martino presenta
l’opera con pensosità autoriale, il che non guasta tra gli schiamazzi sui
titoli di testa e il resto dei commenti “in hi-fi”, tutti benevoli ed
ecumenicamente diretti dal regista all’attrezzista meno considerato.
Quanto è baritonale Martino e Weinstein è un incredibile “basso” (la
poltrona trema a ogni seno di Edwige), tanto tenorile risulta la risata
tarantinesca, improvvisa, sparata a intervalli brevi, che esplode a
commentare tutti i momenti più particolari, anomali, trash e probabilmente
quello è l’attimo in cui la mente del regista fa immediato tesoro di
dettagli che sfuggono ai più.
La sorpresa più piacevole di tutto il Festival, a pensarci bene, è stata
proprio la dimostrazione in situ e in tempo reale del fatto che i
FIGLI DI CORMAN, come ci diceva JOE DANTE durante l ‘intervista, sono
tutti effettivamente dei “MOVIE-GOER”, dei frequentatori indefessi delle
sale cinematografiche, innamorati della materia proiettata quale che sia,
famelici e onnivori, ma poi anche capaci di una durissima “selezione”
tutta personale del “visto” ( che vale tanto quanto il “girato” e il
“montato” ).
DANTE, anch’egli invisibile al Lido, e QT sono stati da esempio per tutti
i Lido-cruisers e hanno rispettato i codici del loro personalissimo
Manuale delle Giovani Marmotte: in sala a mezzanotte, alle 3 e alle 9 del
mattino…
INTRODUZIONE A FERNANDO DI LEO
di Riccardo FASSONE
Celebrata
con ben cinque pellicole selezionate con intelligenza filologica dalla
corposa filmografia del regista pugliese, la saga “scerbanenchiana” di Di
Leo trova nella proiezione “seriale” dei film che la compongono un ulteriore
motivo di riscoperta e valorizzazione. Se si eccettua “Il Boss”,
straordinario mafia-movie, il cui valore assoluto rende possibile una
collocazione praticamente ubiqua in una retrospettiva dedicata al regista ,
il sodalizio a distanza tra Di Leo e Scerbanenco rivela la propria
straordinaria efficacia se analizzato come opera unica composta di quattro
film, che, pur disgiunti dal punto di vista narrativo, costituiscono
l’incastro perfetto tra la poetica amara di Scerbanenco e la selvaggia
volontà di mostrazione di Di Leo. Sebbene il solo “I Ragazzi Del Massacro”
abbia per soggetto un’opera dello scrittore Milanese, l’intera saga di Di
Leo è in realtà popolata di quei personaggi sfortunati e brutali che
rappresentano l’ossatura dei migliori romanzi “neri” di Scerbanenco. Il
Gastone Moschin di “Milano Calibro 9”, pesce piccolo che cerca pesci più
piccoli da sbranare o, nella stessa pellicola, il sadico Mario Adorf, che
presta il volto a quella che è una summa dei tanti personaggi “non
perdonati” di Scerbanenco, sono uccelli notturni della stessa Milano
nebbiosa e crudele di “Traditori di tutti”. Verrebbe da pensare ad una
comunione di intenti o, se non altro, di sensibilità tra i due autori, ed
invece è dagli attriti che si creano tra la narrazione sottilmente
malinconica dello scrittore e quella fieramente violenta del regista che
nasce la grandezza delle riletture di Di Leo. Dove Scerbanenco elide, con
impareggiabile maestria narrativa, il particolare cruento, Di Leo sceglie
di mostrare, di far prevalere l’immagine negata alla pagina scritta per
scoprire il sottinteso, scavando nelle spirali più scure di una Milano
corrotta e crudele.
Cinema Segreto
La
Sperimentazione
LA VERIFICA INCERTA
(Alberto Griffi e Gianfranco Baruchello)
di Marco GROSOLI
La verifica incerta è un
esperimento parawarholiano, uno dei frutti migliori dell'underground
italiano dei '60 e '70, profondamente influenzato da quello, quasi coevo,
americano. Grifi e Baruchello montano insieme lacerti di pellicole
hollywoodiane di qualche anno prima, andando verso una radicale
decostruzione del testo-film, reso oggetto strutturalmente APERTO.
Scelgono di non curarsi minimamente di qualsiasi forma di espressività
linguistica portata dall'immagine, men che meno di qualsivoglia traccia
narrativa iscritta nel testo. Lo sforbiciano senza ritegno, lacerano i
dialoghi in una serie di sillabe incomprensibili, conservano fulminei
momenti vuoti dove non succede niente, isolano un gesto di un personaggio
sottraendone ogni significato, ripetono in loop singoli frammenti, e così
via. E' dunque un felice tentativo di frantumazione della sintassi
cinematografica. Attraverso la distruzione del linguaggio, si arriva
all'astrazione completa degli automatismi del senso portati in sé
dall'immagine in quanto tale. Tutto ciò ha un nome preciso: Andy Warhol.
Anche lui vedeva nel cinema la Macchina automatica del senso: riprendere
l'Empire State Building per ore ed ore significa concentrare l'esperienza
visiva nella Durata, la quale cancella l'importanza della cosa vista, del
"profilmico", affinché si riveli la Macchina, il cinema, che appunto usa
innanzitutto la Durata per produrre senso, la successione di 24 fotogrammi
al secondo, senza la quale non può darsi immagine in movimento. Grifi e
Baruchello dunque pervengono a questo stesso traguardo, alla rivelazione
della Macchina come automatismo del senso (principio al cuore di tutte le
astrazioni, gli straniamenti e le iconologie della Pop Art), ma con mezzi
differenti: la distruzione del linguaggio, l'esibizione delle sue rovine,
la messa in evidenza della funzione primaria del linguaggio, ovvero
frantumare il reale. Evidenziando questo, si palesa che il meccanismo
linguistico, di per sé è sostanzialmente estraneo al senso; rendendo
indipendente il senso dal linguaggio lo si riconsegna all'automatismo,
alla macchina, al cinema. Warhol per arrivarci usava l'astrazione del
linguaggio, Grifi e Baruchello la sua polverizzazione.
Si tratta di un'intuizione dalla portata teorica straordinaria, non
inferiore a quelle dei Maestri underground americani. E soprattutto in
prodigioso anticipo sui tempi: Blob, tanto per fare un esempio, non ha mai
fatto mistero (tramite esplicite ammissioni dei suoi ideatori, o omaggi di
vario genere nel corso stesso della trasmissione, tra i quali intitolare
"La verifica incerta" la rubrica interna al programma in cui Ghezzi
commenta quotidianamente tutte le giornate dei Festival di Venezia degli
ultimi anni) di avere sempre ritenuto tra i propri numi tutelari proprio
il film di Grifi e Baruchello. (29/30)
Blindman (Ferdinando
Baldi)
Colpo Rovente (Piero Zuffi)
di Riccardo FASSONE
Accorpati
non tanto per contingenza stilistica o tematica, ma piuttosto per il loro
far parte di quella nutrita schiera di film weird partoriti dal cinema di
genere italiano, Blindman e
Colpo Rovente sono episodi
certamente minori della lunga stagione dei generi, eppure, per quanto
eclissati per qualità dai lavori di Fulci e Di Leo presentati in mostra,
rientrano a pieno titolo nella categoria dei film poco o mai visti che
avremmo voluto meglio rappresentata nella rassegna dei Kings Of The B’s.
Tralasciando le polemiche, peraltro assolutamente bonarie, il primo,
Blindman (Ferdinando
Baldi-1972) è un tardo western di taglio leoniano, discretamente curato nei
dettagli e graziato da un approccio alla sceneggiatura tra l’ironico ed il
grottesco che dona inaspettata dinamica alla messa in scena. Tony Anthony
(dimenticato ma efficace attore americano dei ’70) è un pistolero cieco che
ha promesso ad un gruppo di minatori di procurare loro delle donne da
sposare ma che dovrà fare i conti con una banda di criminali senza cuore
(tra i più brutti e selvatici mai visti nella storia del western). Film
infarcito di trovate interessanti e riuscite, non ultima una scena con
serpente velenoso non dissimile da quanto visto in
Kill Bill Vol2 di recente,
che diventa non di rado vincente grazie alle possibilità narrative offerte
dall’escamotage del pistolero menomato. Da notare la presenza di un Ringo
Starr clamorosamente fuori parte e nonostante ciò adorabile nei panni del
solito cattivo-scemo fratello del cattivo-cattivo.
Non così riuscito ma altrettanto, e forse più, curioso è Colpo
Rovente, pellicola del 1969 di Piero Zuffi, che, oltre a vedere il
debutto sullo schermo di una incredibilmente corvina Barbara Bouchet, segna
l’inizio e la fine della carriera cinematografica del regista ed il debutto
dell’imperturbabile Michael Reardon (visto di recente in
Cabin Fever) in una parte da
protagonista. Costellato di buchi di sceneggiatura praticamente insondabili
ed ammorbato da una recitazione ai limiti dell’autismo del buon Reardon, il
film di Zuffi ha, però, dei guizzi che lo rendono degno di una visione a
posteriori. La storia, a quanto si riesce ad evincere, è quella di un agente
di polizia che si mette sulle tracce dell’assassino di un magnate
dell’industria farmaceutica e sospetto produttore di droghe allucinogene.
Tralasciando la retorica piuttosto grossolana sugli stupefacenti, comune
peraltro a moltissimi film dell’epoca, Zuffi mette in scena almeno due
sequenze di buon effetto estetico; si pensi all’irruzione della polizia nel
locale degli hippies, tanto coreografata che pare anticipare la scena del
ballo coi gendarmi di Holy Mountain
di Jodorowsky, o ancora alle scenografie deliranti che vogliono la Bouchet
rinchiusa in una casa interamente blu e le pareti di un locale alla moda
inondate dalle immagini in flashback del film stesso. Segnalazione doverosa
anche per la partecipazione al film di un Carmelo Bene/Killer ottimamente
doppiato da Amendola.
Colpo di Stato (Luciano
Salce)
di Riccardo FASSONE
Letteralmente tirato fuori dalla tomba dell’irreperibilità, questo
bellissimo lavoro di Luciano Salce torna ad essere visibile in un’ottima
copia in pellicola grazie alla retrospettiva dedicata ai film di serie B
(utilizzo la definizione senza condividerla), confermando tutta la propria
amara attualità. Girata alla vigilia delle elezioni del ’72, la commedia
fantapolitica di Salce immagina un’Italia nella quale i comunisti riescano a
salire al potere facendo tremare i blocchi e “costringendo” gli americani a
preparare (cito dal film) un bloodbath sulle nostre sponde. Splendidamente
girato in un ottimo bianco e nero, il film di Salce trova i propri punti di
forza in un’apertura quasi da docu-fiction ed in alcuni inserti di
descrizione corale (con struttura da tragedia greca e dialogo tra coro ed
attori) coraggiosamente surreali, arrivando con eleganza ad affrontare uno
scenario tutt’altro che impossibile a realizzarsi e spingendosi a ricercarne
le eventuali conseguenze con intelligenza. Lontana anni luce dall’essere una
noiosa riflessione politica, è proprio grazie all’approccio giocoso del
regista che la pellicola decolla e rivela la propria forza dirompente; le
grandiose battute (un paio almeno da antologia della commedia italiana),
l’abbinamento di immagini belliche e musiche da avanspettacolo (Michael
Moore, sei in ascolto?), la straordinaria capacità di prevedere
l’esponenziale crescita di importanza dei media nella vita politica sono i
segni più evidenti della grandezza di un’opera eclissatasi per più di vent’anni
eppure straordinariamente godibile ed estremamente intelligente.
Colpo di Stato (Luciano
Salce)
di Gabriele FRANCIONI
COLPO DI
STATO è a tutti gli effetti il DR STRANGELOVE italiano, arrivato con qualche
anno di ritardo (il ’70 rispetto al ’65) a trattare il tema della Guerra
Fredda col disincanto e la ferocissima ironia di un’intelligenza spesso
confinata entro i confini angusti del piccolo schermo o della commedia
all’italiana.
Salce è rapsodico nella costruzione del suo lavoro, e questo è forse l’unico
limite abbastanza evidente in COLPO DI STATO: appena il coltello affonda,
ecco un’improvvisa digressione a portarci altrove, magari sul terreno della
facile battuta.
Ma è ben poco rispetto alla quantità di temi appena esposti o lungamente
trattati, tenuti insieme dal filo rosso di una storia esilarante, a metà tra
docufiction e fantapolitica, che, come anticipato, Kubrick, ma anche
Frankenheimer e Lumet, avevano reso realistica, terribilmente plausibile e,
anzi, a un passo dal farsi cronaca della distruzione del pianeta.
Al di là del nucleo centrale - il perverso marchingegno conta-voti portato
dagli americani, che registra paradossalmente il trionfo dell’allora Partito
Comunista Italiano o il suo inventore pazzo, a suo modo un vago ricordo del
Peter Sellers tedesco, così come la scelta del Palazzetto delo Sport di
Nervi vuole lontanamente rimandare agli spazi “da astronave” del DR
STRANAMORE – poco familiare al Salce nostrano, è nel tratteggio del
sottobosco di ministri e consiglieri in perenne riunione che il regista dà
il meglio. L’attesa del voto, vissuta con crescente panico dal Vaticano e
dalla Democrazia Cristiana (memorabile la figura del Papa), crea
un’atmosfera da sagra paesana interrotta, che però, col passare delle ore,
ingloba e accetta anche il più incredibile dei risultati. Il Paese, in poche
ore, per pigrizia e indolenza (cambiare per lasciare tutto come prima, il
Grande Gobbo docebat anche all’epoca…), da nazione ostaggio della CIA
e anticomunista si trasforma sonnacchiosamente in una repubblica delle
banane sovietiche, con i ricchi che si ritirano negli yacht inneggiando al
nuovo regime e il popolo che imborghesisce nel giro di una notte.
Assolutamente meravigliosa la cantante sconosciuta, che la Rai manda in onda
per nascondere l’onta del sorpasso elettorale, dopo ore di documentari sugli
orsi e i tulipani. Salce ci suggerisce con ferocia come i destini dell’uomo
qualunque e quelli dell’intero pianeta seguano leggi casuali, quasi una
Teoria del Caos (etico, politico, pubblico e privato) che cambia in pochi
attimi le carte in tavola: per quieto vivere diventiamo comunisti senza
battere ciglio e una ragazzotta di periferia diventa improvvisamente la star
del momento, tra ballate della Resistenza, canti popolari e Bandiera Rossa,
le nuove “hit” del momento.
Perfetto il finale, con il PCI che preferisce sedersi sull’eterno ruolo di
opposizione istituzionale, piuttosto che lanciarsi in un’avventura esaltante
e insperata, ma faticosa, imprevedibile e,a conti fatti, non preferibile
alla paciosa convivenza coi democristiani e il loro vetusto sistema di
potere.
B'S HORRORS
di Riccardo FASSONE
Giustamente annoverato tra i generi celebrati dalla retrospettiva “Italian
Kings Of The B’s”, anche l’horror (o, meglio, il cinema di paura in senso
lato, vista la presenza di NON SI SEVIZIA UN PAPERINO) ha avuto la propria
parte nelle proiezioni di Sala Volpi. Un film di Margheriti e due di Fulci
(con l’eventualità che Tarantino proietti la propria copia personale di 7
NOTE IN NERO durante la serata conclusiva) hanno ben rappresentato le
diverse evoluzioni di quel calderone di espressione istintiva ed
incontaminata che era il cinema orrorifico italiano. DANZA MACABRA, horror
classico con elementi di innovazione rispetto alla tradizione inaugurata da
LA MASCHERA DEL DEMONIO, segue di poco l’esordio di Margheriti come regista
di horror (LA VERGINE DI NORIMBERGA, firmato come Anthony Dawson) e ne
decreta l’unicità autoriale. Permeato di un’atmosfera sottilmente morbosa,
DANZA MACABRA costituisce in qualche modo un’anticipazione del filone
gore-zombesco che impazzerà per il mondo non meno di quindici anni dopo
l’uscita di questo film. Più di Mario Bava (o comunque più del Mario Bava
dell’epoca) , Margheriti si serve della violenza e del sangue per creare
l’elemento di orrore anticipando in questo senso una lunga schiera di
registi italiani che ne seguiranno le orme. Con NON SI SEVIZIA UN PAPERINO e
L’ALDILA’…E TU VIVRAI NEL TERRORE, si ha la possibilità di analizzare due
delle sfumature del cinema “della crudeltà” di Fulci; l’aspetto realistico,
la rappresentazione di una morte feroce ma poco coreografata, poco
“cinematica”, sono i punti di maggiore originalità del bellissimo thriller
Fulciano, che svetta tra i più originali e riusciti della sua epoca anche
grazie alla straordinaria interpretazione di Florinda Bolkan. L’ALDILA’, al
contrario, è uno splatter “metafisico”, nel quale l’elemento gore assume un
valore simbolico rafforzato dallo sguardo onirico messo in campo dal regista
romano. A latere della proiezione dei film si è potuto assistere allo
screening dell’ottimo lavoro di documentazione del “nostro” Paolo Fazzini,
che con il suo LE OMBRE DELLA PAURA firma il documentario ad oggi più
esauriente sull’horror italiano. Le numerosissime interviste (a Sergio
Martino, Lamberto Bava, Antonio Margheriti tra gli altri), coniugano
ottimamente lo sguardo dell’appassionato e quello dello studioso, dando vita
ad un lavoro maturo ed assolutamente indispensabile per chi voglia
approfondire la storia di un genere a lungo bistrattato.