1 – BAD BOYS/ KEEP THE EYE
ENGAGED.
JOE DANTE, che sarà il padrino della seconda “B-Night” alla Mostra del
Cinema, aveva anticipato l’etica del Postmoderno con il leggendario MOVIE
ORGY, del 1966. In pratica un lavoro prodotto dentro e per il circuito dei
college americani da parte di uno studente dotato di caustica ironia,
disincanto e perizia tecnica da precocissimo regista-montatore.
MOVIE ORGY ribaltava il senso degli spezzoni di film rimontati tra loro,
secondo una concezione dell’uso dei materiali della storia del cinema (o
della storia del cinema come materiale) avanti anni luce rispetto al
citazionismo diffuso dei nostri giorni.
Il mix prodotto era destabilizzante e divenne oggetto di culto
nell’ambiente universitario, oltre a suscitare l’ interesse di Roger
Corman, che prese Dante a lavorare per la New World.
Restando fuori dalle stanze del potere produttivo, dopo il fallimento del
pre-blaxploitation THE INTRUDER, Corman aveva capito che era possibile
veicolare messaggi devianti nascondendo il contenuto entro appetibili
involucri da sexy-z-movie, corredati da decòr motoristico. Un Russ Meyer
con padronanza dei mezzi tecnici assolutamente maggiore e, appunto, un
sottotesto.

La palestra della New World (studio e “rimissaggio” dei generi, pratica
veloce e realizzazione a bassissimi costi), oltre a permettere a breve
termine la sopravvivenza della casa di produzione, doveva svezzare talenti
accomunati da una vocazione discretamente sovversiva, poi lasciati liberi
di andare a contaminare il cinema americano “mainstream”.
A proposito di un suo film Demme – altro affiliato - affermerà: “Mixing
genres: I love mixing moods in movies. It’s one of the things that made
SOMETHING WILD so enjoyable to me”. Qualcosa di selvaggio, appunto.
L’“andate e moltiplicatevi” di Corman ebbe una funzione assolutamente
fondamentale nella nascita della New Hollywood di fine anni ’60: se non li
formava direttamente (come Demme e Dante), infatti, finanziava gli esordi
di giovani registi di cui intuiva le capacità e la penuria di mezzi.
E’ il caso di BOXCAR BERTHA, con David Carradine/ Bill-Kill nel cast (!),
tanto per fare un esempio, il primo vero lavoro di Scorsese (di
provenienza A.I.P.) dopo il “film studentesco” WHO’S THAT KNOCKIN’ AT MY
DOOR con Harvey Keitel, 25 e 27 anni rispettivamente.
E in questo senso – vedasi anche il caso di Jack Nicholson, sceneggiatore
e attore per due b-western girati da Monte Hellman, o quello di De Niro –
è curioso notare il travaso momentaneo di enormi talenti della recitazione
dalla coltissima factory newyorkese di Strasberg verso la New World, dove
entravano per la prima volta in contatto con i duri meccanismi di
produzioni low budget: off-Los Angeles dopo essere stati off-Broadway.
Corman dettava regole sacrosante sulle quali costruire sicure carriere da
“alternatives”: fate i vostri film con i 75mila dollari che vi dò, fate in
modo che siano “very thoughtful and intelligent genre movies”, ma anche
“very commercial”.
Nel 1971 Hellman seguì ancora una volta la regola aurea e fece TWO-LANE
BLACKTOP (Strada a doppia corsia)!. |
Il cerchio che lega Corman, Dante, Demme, Tarantino (e quindi anche i
Kings De Noantri) si chiude, “destinalmente”, con il ruolo fondamentale di
Keitel nella realizzazione di RESERVOIR DOGS, addirittura grazie ad un
insegnante di recitazione di Lawrence Bender: la moglie di quello, Lilly
Parker, faceva parte dell’ Actor’s Studio.
Ricevuto il copione de LE IENE dalle mani del timido produttore – allora
solo amico – di Q.T., il docente dell’acting class lo passò a Mrs. Parker,
e quest’ ultima lo diede a “Mr. White”.
C’è un’ identica purezza alla base di carriere così diverse, una comune
consapevolezza che lega fra loro i cormaniani “diretti e indiretti”,
contemporanei o meno all’ esperienza della New World ( mettiamoci in
ordine sparso anche l’ “interno” Monte Hellman – anch’ egli nel
destino-di-Tarantino - e l’ “esterno” John Carpenter, formatosi all’ USC
): non sono mai scesi a reali compromessi con gli Studios, dalla cui
pratica e filosofia li ha sempre distanziati la nobile arte dell’ Art &
Craft opposta a quella del Marketing e dell’ Advertising. Stelle in carne
ed ossa in mezzo a una miriade di sagome di cartone, refrattari a ogni
forma di divismo e gossip, “inattingibili” da parte del Sistema.

Orgogliosi esponenti di una “Resistenza” capace di vivere ai margini e,
ogni tanto, mostrare al mondo quanto i bad boys di Corman siano capaci
come nessun altro di fare cinema concreto – making movies a bottega da un
Maestro – e assolutamente comunicativo, ma irrobustito da sottotesti
ricchi di messaggi variamente polisemici (SILENCE OF THE LAMBS, MATINEE’).
Film la cui densità semantica segue quella della Storia in continuo
mutamento e accumulo, quindi perfettamente postmoderni, ma altrettanto
perfettamente FLUIDI nello stile libero che li contraddistingue. A questo
proposito può servire la definizione che Jonathan Demme dà delle golden
rules cormaniane: “(…) Ci diceva di cercare sempre un modo per MUOVERE LA
CINEPRESA, perché ciò avrebbe costantemente stimolato l’occhio dello
spettatore, ma anche di essere sicuri che quel movimento fosse
assolutamente motivato. E se non si può fisicamente spostare la m.d.p.,
bisogna variare spesso l’angolo di ripresa, in modo da lasciare al
montaggio il compito di mantenere alta l’attenzione visiva (“KEEP THE EYE
ENGAGED”)…”.
Si pensi alla parte finale di TRUTH ABOUT CHARLIE (“ cinema morbido e
sensuale”, dice Guadagnino “ e allo stesso tempo diretto e radicale”) o al
Silenzio degli innocenti, in cui l’ occhio è il centro errante e febbrile
del racconto.
KEEP THE EYE ENGAGED.

La generazione dei cormaniani, tutti nati attorno al cruciale 1945, aveva
l’occhio costantemente occupato, come mai gli adolescenti del passato.
Prima generazione, quella postbellica, la cui mitopoiesi individuale
coincideva con quella di massa (un tesoro appassionatamente condiviso),
capace di costruirsi attraverso una transizione dal sogno adolescenziale –
comune ai teenagers di ogni epoca – ai film, i fumetti, la pubblicità e la
tv in genere, che esordivano allora.
Il “meraviglioso” scoperto nei cinema di provincia (pellicole in 3-D,
caleidoscopio di colori e suoni) marciava insieme all’ angoscia per una
possibile Guerra Nucleare – o per tutte le altre guerre in atto - e questa
convivenza di magia primordiale e precoce consapevolezza filtrate
attraverso l’ occhio della mente, segneranno l’ opera di tutti i registi
di cui si è parlato.
Impossibile, per loro, non avere problemi con gli Studios hollywoodiani;
impossibile rinunciare alla propria inattingibile libertà e anche a una
vita privata spesso lontana dal lavoro.

Basti pensare ai progetti rifiutati da Joe Dante (GODZILLA) in anni in cui
usciva un piccolo capolavoro come SMALL SOLDIERS, “innocuo film per
ragazzini” a sentire i produttori; o le pause di Demme dopo SILENCE OF THE
LAMBS e PHILADELPHIA, veri e propri spazi vitali per dedicarsi a piccole
sconosciute perle ( TRUTH ABOUT CHARLIE e BELOVED), che gli avranno
restituito il senso di libertà dei tempi di CAGED HEAT e CRAZY MAMA. Oltre
ad essere, T.T.A.C., un remake come è adesso MANCHURIAN CANDIDATE.
“Remake, remodel”, (rifai a modo tuo, rimodella, cita) come il motto dei
postmoderni Roxy Music.
I ragazzi postmoderni del Corman College, come a Locarno nel 1999, ci
appaiono giovani adulti capaci di ridere e divertirsi, per niente
invecchiati o frustrati, stretti attorno al Boss, un fantastico signore
anziano che sorride sempre. L’ ingegnere mancato dal portamento nobile,
assoluta icona dell’ Independent Movie Making, è ancora oggi, anche per
quelli della generazione di Tarantino, un punto di riferimento o, a
sentire Demme, “un brillante maestro, sempre pronto a incoraggiarti, e
anche un “honorable guy” . |
2 – BAD BOY APART.
Tarantino cita spudoratamente Nick Hornby (HIGH FIDELITY) quando afferma
che “(…) è la merda di Merchant e Ivory che trovo offensiva”, forse perché
gratificato dalle pagine dedicate in quel libro a RESERVOIR DOGS.
Sia Hornby che T. sono degli accumulatori viventi d’ informazioni
disco-filmografiche ed è questo ciò che conta: l’ amore dell’ uno per
Marvin Gaye è forse pari alla passione dell’ altro per Fernando di Leo.
L’ amore sconfinato per una forma d’ arte genera volontà di recupero,
desiderio di vivere in tutti i tempi del cinema o della musica,
spostandosi con la mente verso zone temporali irraggiungibili (Q.T.
indossò per un certo periodo cappotto e occhiali da sole portati da Chow
Yun Fat in A BETTER TOMORROW): il citazionismo è la forma esteriore di un
amore estremo e richiede applicazione, disciplina, perseveranza.
Tarantino, è noto, crea nel retro del videostore di Manhattan Beach in cui
lavorava la sua personale factory cormaniana, fatta di nulla e all’ inizio
solo cinefila, senza i mezzi per produrre alcunché.
Ha la stessa infantile curiosità onnivora dei ragazzi della New World,
solo che i fumetti sono cambiati dagli anni Sessanta e la guerra fredda è
finita, per cui la Violenza è diventata violenza da videogioco e anche la
pubblicità televisiva e i serial
si sono adeguati.

Il regista di KILL BILL afferma che uno dei suoi sogni adolescenziali,
oltre a probabilissime fantasie con Pam Grier protagonista, era
immaginarsi di fermare Corman (definito “un esteta”) in un parcheggio e
dirgli: “Fammi fare uno di quei film sui carcerati o uno su dei
motociclisti! Sarebbe un onore per me…”.
L’ incontro è sicuramente avvenuto a livello virtuale tutte le volte che
T. ha visto e rivisto le pellicole della New World: avrà sicuramente amato
tutti i film precedentemente citati e, oltre ad essi, COLLINE BLU e STRADA
A DOPPIA CORSIA.
Ciò che rende omogenee esperienze così lontane nel tempo, come quelle di
Corman & adepti e Quentin Tarantino, è ancora una volta l’ assoluta
lucidità e sicurezza d’ intenti nel mettere in scena uno straordinario
cortocircuito tra cultura alta e bassa.
Hellman, a proposito dei suoi due lavori, parla di “presenza di possibili
gaps, buchi” all’ interno della storia, che ogni spettatore avrebbe potuto
riempire. L’esperienza della lavorazione, il trip, come viene definito,
conta però più del “prodotto finito” e la massima aspirazione era quella
di rendere partecipe chiunque di quel viaggio per immagini.
A sua volta, il regista italoamericano non esita a definire “commedie” sia
RESERVOIR DOGS che PULP FICTION, quando pensa alle reazioni del pubblico
in sala, “che ride istericamente, come durante le proiezioni di TAXI
DRIVER, CARRIE e JAWS”, traendo da essi solo quello che gli piace e lo
soddisfa. Come dire: massimo rispetto per gli spettatori di ogni genere,
còlti nell’ atto di costruirsi una personale versione dei film, ma cui
viene somministrata anche una massiccia dose di messaggi subliminali, come
tali assolutamente non invasivi, che rappresentano l’ altra versione dello
stesso prodotto.

L’estetica tarantiniana, insomma, cuce il gap temporale tra Nouvelle Vague
– spesso citata per il ruolo propedeutico di Godard negli anni di
formazione – New World e tempi presenti. E proprio da un film del francese
( BANDE A’ PART ) il Nostro parte per rivelare il manifesto della sua
arte: citando un saggio di Pauline Kael sulla pellicola godardiana – “(…)
è come se due giovani e folli cineasti francesi seduti in un bar
prendessero un banale poliziesco americano e ne traessero un film NON
BASATO SUL TESTO ( “novel” ), MA SULLA POETICA CHE HANNO LETTO TRA LE
RIGHE” – afferma con forza e convinzione che il suo cinema sta tutto lì,
in quell’ interspazio in realtà apertissimo, dove i dialoghi possono
deragliare e parlare la lingua comune di microaccadimenti quotidiani e
casuali inciampi della vita reale, lontana anni luce dal gergo
stereotipato del thriller o del noir convenzionali.
Così nascono i dialoghi di PULP FICTION, per ascoltare i quali “lo
spettatore sarà contento di spendere i 10 dollari del biglietto”, e così
si salda l’ asse insapettato che unisce periodi, registi ed esperienze
caratterizzate da una matrice comune.
“Un film d’ arte contro il cinema d’ arte” fu definito RESERVOIR DOGS da
Peter Biskind (“Down and dirty pictures” ). Il film di un giovane regista
sconosciuto che, trent’ anni dopo, innestava lo stesso onnivoro amore
cinefilo per i generi bassi, che era stato della Nouvelle Vague, su un
talento da straordinario scrittore, potenzialmente al livello degli stessi
Elmore Leonard e Edward Bunker.

3 - CORE DE CORMAN
Batte un cuore cinefilo anche nei registi italiani del cinema
poliziottesco e horror degli anni ’60, ’70 e ’80.
L’ attitudine, però, è meno spensierata perché maggiore è la
consapevolezza di trovarsi ad operare all’ interno di un ambiente
produttivo ancor meno elastico di quello americano, che ti chiede quei
due/ tre ingredienti fissi e una invariabile, massiccia dose di paura e
sangue a innervare storie che vengono (venivano) girate in tempi
ridicolmente compressi e con budget irrisori.
Studiando i volti dei reduci di quella stagione mentre vengono
intervistati da Paolo Fazzini e Marco Cruciani nel fondamentale LE OMBRE
DELLA PAURA, infatti, si scorge una vena di profonda malinconia che
diventa disappunto e rabbia soffocata per le occasioni mancate.
Non è neanche un caso, probabilmente, che quella generazione ( in alcuni
esponenti corrispondente a quella dello stesso Corman ) stia scomparendo e
paradossalmente si stia assistendo ad un horror in diretta che avremmo
evitato volentieri: Bava, Fulci, Margheriti, Crispino se ne sono andati,
alcuni recentissimamente, quasi perseguitati da una maledizione già
esperita in vita.
Lo sdoganamento e la riscoperta attuali aggiungono amarezza al tutto e la
stessa uscita nelle sale del redivivo Sergio Stivaletti con I TRE VOLTI
DEL TERRORE, invece di suonare la carica per nuovi autori, sembra il
rintocco finale per un gruppo di dignitosissimi professionisti e alcuni
talenti frenati dagli eventi avversi.

Chi uccide i registi di horror all’ italiana, verrebbe da dire?
La fatica, i tempi compressi, il disprezzo della critica, l’assenza dai
libri di storia del cinema, l’ emarginazione anche professionale dopo l’
avvento, in sequenza, del Vhs, dei Dvd e degli effetti speciali generati
al computer.
Sembra di assistere ad un BOOGIE NIGHTS dove l’ horror fa la parte dell’
hard core, agonizzante in questi ultimi 15/ 20 anni “digitalizzati” e “home-made”.
Forse qualcuno, ma certo non i sessantenni di cui si parla, dovrebbe
ripartire da BLAIR WITCH PROJECT e, anche qui, seguire il nuovo corso
“light”, quick and cheap dei porno-movie, tagliando i ponti con Roma e
producendo altrove.
Alcuni segnali ( Almost Blue? ) ci sono, basta che poi non diventino
pretesto per operazioni tipo IL CARTAIO, sul quale è meglio tacere.
Se anche Argento naviga a vista, sempre a un passo dall’ abisso, c’è poco
da stare allegri.
Il peccato originale, peraltro, sta forse alla radice, in una cultura,
quella nostrana, che rifiuta stilemi e tematiche “nordiche” e un senso del
gotico che poco ci appartiene ( Romanticismo sì, “Sturm und Drang” no).
Tanto è vero che solo la breve stagione più asciuttamente “thriller” del
nostro cinema ebbe i favori anche della critica, oltre che ottimi incassi
in anni d’ impegno politico, denuncia sociale, scioperi e piombo nelle
strade: come dire, un vero miracolo.

In definitiva, i vari Bido e Soavi, Margheriti e Crispino, Aldo Lado e
Sergio Martino hanno cambiato mestiere, si sono dati alla tv o sono
rimasti anni in pericoloso stand-by.
Mentre il poliziottesco di un Castellari o di un Grieco, o anche di
Sollima e di “Don Siegel Fernando di Leo”, hanno vissuto momenti migliori,
perché più facilmente rapportabili alla realtà nostrana e ad una cronaca
nera che seguiva in tempo reale il dipanarsi di quelle storie.
Argento visse il suo momento d’ oro tra L’ UCCELLO DI PIUME DI CRISTALLO e
PROFONDO ROSSO. Il periodo trascendental-gore, invece, lo vide non a caso
porsi ai margini della scena.
Quentin Tarantino colleziona le pizze di molti dei film di quel periodo e
indica alcuni nomi tra i suoi preferiti in assoluto, scegliendo tra Di Leo
( il numero uno in assoluto ) e Castellari, Sollima e Michele Soavi.
La sua è una passione sincera, piena di ammirazione – anche qui – per l’
art and craft di quei lavori, ma anche per il livello di tensione
narrativa e libertà nel trattamento del genere di riferimento.
Appena sotto Sergio Leone (adorato e benevolmente saccheggiato nella
colonna sonora di KILL BILL) c’ è, appunto, Di Leo e la serata del 3
settembre, dedicata all’ inconsueto connubio, sarà luogo e momento per la
celebrazione definitiva di un genere-oltre-i-generi e, si spera, l’ inizio
di una nuova “dark wave” italiana.
Inutile sottolineare quanta parte, in tutto ciò, abbia avuto il travaso di
contenuti analoghi verso il piccolo schermo, che ha monopolizzato
poliziotti e carabinieri, riproponendoli in una serie di imbarazzanti
declinazioni da “commedia prandiale” ricca di buoni sentimenti, bellezze
afone e tensione azzerata dai processi digestivi in atto durante la
visione: una sinergia perfetta, non c’è che dire.
Riciclare comici, veline, miss italia ed ex-sportivi non paga, se non
nell’ immediato, anche se il nostro “complaint” va a sbattere contro il
muro di ascolti talmente alti da risultare deprimenti.
I bellissimi sceneggiati televisivi di secoli fa hanno subito un morphing
impietoso, che ha trasformato il viso di Rossella Falk in quello di
Martina “?” Colombari, la bellezza acerba di Paola Pitagora in una Canalis
qualunque, la sensualità agée di Lea Massari nei rigonfiamenti coatti di
Ferilli Sabrina De Noantri (meglio, allora, nella versione trash-cul(t) di
VALENTINA del 1989… ).
Auguriamo lunga vita a tutti i registi citati, che non si sono venduti al
ricatto televisivo: la loro etica impedisce i salti quadrupli, ad esempio,
di ex-giovani con più pelo sullo stomaco (Giulio Base…), passati dalle
dure indagini sociali al vuoto pneumatico di raggelanti soap.
Il lavoro di Fazzini, la retrospettiva KINGS OF THE Bs e la generosità
tarantiniana, peraltro, possono veramente mettere un po’ d’ ordine dove
ora regna il disordine più totale e solo Marco Muller e la Fondazione
Prada possono contribuire a rendere giustizia a molte opere di medio e
alto valore stilistico e narrativo.
Fondamentale la presenza alla proiezione de LE OMBRE DELLA PAURA, il 3
settembre in Sala Volpi. |