FORUM SUL CINEMA ITALIANO
1 - a) la critica e i festival Hotel Des Bains - Lido di Venezia Venerdì 8 settembre 2000 a cura di Gabriele Francioni e Andrea De Candido |
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MARCO MULLER: "Occorre innanzitutto fare una premessa. Mai come in questo momento c'è stato bisogno di un ragionamento sui nuovi modi di produzione leggeri, sulla possibilità di affermare la cifra di un cinema che recupera autonomia, proprio perché fa coincidere l'autonomia estetica con quella finanziaria. A questo punto ciò significa cominciare a ragionare sulla circolazione dei film anche attraverso i festival ma anche dopo il primo lancio festivaliero pensando agli spazi autonomie alle sacche di resistenza che ancora possono crearsi. Credo che molte delle recenti polemiche su questa edizione della Mostra di Venezia siano fatte ad arte perché, in fondo, ciò che manca a Venezia sono quei prodotti molto medi che poi, in realtà, finiscono nelle sale e tutti vedranno nei cinema sotto casa. Il problema è quello di capire, e qui generalizzo molto, che da cinque anni a questa parte esiste una divaricazione tra il cinema che si fa a partire da cinque miliardi e il cinema che si fa sotto il miliardo e mezzo; a metà c'è una specie di strana zona grigia dove sono pochi quelli che hanno il coraggio di addentrasi, perché, naturalmente, a fare un film sotto il miliardo e mezzo tra l'articolo 8, un po' di soldi dal fondo di garanzia, la prevendita televisiva ci si può anche pensare; a fare un film sopra i cinque miliardi ci si può ovviamente pensare ma a questo punto assieme ai finanziamenti intervengono anche i condizionamenti, una serie di alleanze, dove giustamente chi investe poi vuole dire la sua, non tanto sul prodotto finito quanto su un certo taglio, sui modi di circolazione e sul "posizionamento" che il film deve avere nell'attuale circolazione commerciale. Ora, i festival sono sempre stati in qualche modo non tanto un surrogato, perché sarebbe veramente infame pensare che i film possano circolare soltanto attraverso i festival, ma sono stati sempre una risposta a quello che non funzionava nel circuito di formazione e circolazione; però sono stati una risposta perché dovevano recuperare centralità, cerare visibilità per ciò che altrimenti sarebbe stato spinto verso la marginalità. Ma questo non è un discorso di oggi: sono vent'anni che discutiamo delle vistosissima censura del mercato, per cui alcuni film non hanno cittadinanza nelle sale; e proprio a questo forse i festival dovrebbero servire, a dimostrare che la raccolta di migliaia di individualità… parlo di migliaia perché io vengo da un festival, Locarno, dove mi sarei sentito male a non ragionare per migliaia di spettatori alle proiezioni per ogni film; quindi, in qualche modo, con questo riaffermavamo la possibilità di trovare… io non credo nel pubblico come cosa astratta… gli strati di spettatori sensibili, giusti per un certo tipo di film, e quindi di sollecitare alcune ipotesi distributive piccole, ragionate, calibrate, messe assieme con grande sforzo e sussidi culturali istituzionali, poi il ventaglio dei possibili è enorme. Però, in questo senso, i festival dovevano proprio avere un'incidenza su quello che succede dopo, perché senza dubbio i festival funzionano soltanto quando sono il punto di partenza di discorsi, fruizioni e visioni che accadranno altrove, in altri tempi e con altri ritmi.
Il problema qual è? E' che noi abbiamo un festival solo che in qualche modo è il festival che automaticamente regala importanza e visibilità, ed è Cannes. E questo semplicemente perché Cannes è la fiera mercato dell'esistente cinematografico, e quindi Cannes in qualche modo ha qualche cosa a che vedere sul come si imbastiscono le regole delle stagioni distributive a ridosso. Uno dei più grossi risultati di Cannes negli ultimi anni… è inutile che ci raccontiamo balle sul fatto che poi Cannes possa davvero guidare le tendenze del mercato, dettare legge a chi, seduto di fronte a qualche schermo di computer, inventa delle strategie di marketing basate soprattutto sulle cifre e sui ricavi, sono quelli che decidono non soltanto delle campagne di informazione di quei film che spesso di colossale hanno solo il budget promozionale a disposizione; sono anche quelli che decisono delle nostre visioni perché occupando militarmente tutti gli schemi poi rendono impossibile l'avere accesso a più cose. Cannes, dicevo, ha avuto un risultato per me notevolissimo negli ultimi cinque anni, ovvero di prolungare la stagione primaverile e di regalare altre due settimane per l'uscita di film grossi dal punto di vista della campagna promozionale e di regalare ancora una settimana alla stagione estiva perlomeno per i film, non dico difficili, ma d'autore che normalmente nessun'altro si sarebbe azzardato a fare uscire d'estate. In queste situazione noi abbiamo molti altri festival che cercano di inserirsi, ma Cannes c'è riuscito perché Cannes fa moda, perché non c'è nessuno che si permette… io lo so perché ho avuto come produttore due film in concorso per due anni di seguito, cioè MOLOCH (di Sukurov, ndr) che avevamo coprodotto e il film di Samirah Machmalbaf (LAVAGNE, ndr) che abbiamo interamente prodotto noi di FABRICA e per il quale abbiamo preparato per due mesi la presenza a Cannes! Tutti gli eventi che lì avrebbero dovuto aver luogo, perché poi ci fosse il meccanismo di continuo rilancio del film e del personaggio. In realtà, per gli altri festival, è difficilissimo: per questo parlavo prima di autonomia e di capacità di calibrare bene quello che è il modo di produzione e quindi anche la diffusione e il lancio da pensare in anticipo, perché è difficile che per un piccolo film si riesca a pensare intanto di andare a Venezia e trovare i contatti giusti per approfittare al massimo di questa situazione, perché i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Io ho lasciato Locarno perché mi vergogno di non potermi occupare come vorrei di tanti film, e io non ho mai fatto vedere a Locarno un numero enorme di film, ho sempre cercato di ridurne il numero fino ad arrivare, quest'anno, ad un totale di cinquanta lungometraggi, intendo quelli in prima mondiale o nazionale, in undici giorni di festival. Qui c'è un qualche cosa di importante da capire: addirittura con quattro o cinque film al giorno, spingendo molti quotidiani a mandare due inviati, non si riesci più a forzare quel blocco per cui uno dei due inviati sia un colorista, che per definizione farà le interviste ai registi che fanno notizia e alle star quando ci sono, mentre l'altro per forza si occuperà in primo luogo dei film che usciranno nel suo paese di provenienza, e solo a lato ricorderà l'eccezionalità, l'unicità o magari la natura di capolavoro di altri film. Io mi sono trovato a Locarno di fronte ad una situazione, per cui, anche triplicando gli sforzi, riuscivano ad avere per alcuni film non più di cinque righe, e oltre non si andava, perché ormai è consegnato alle abitudini dell'esercizio della critica cinematografica e del giornalismo cinematografico che di alcuni film non si debba scrivere, perché tanto quei film non saranno visti da nessuno una volta concluso il festival. A maggior ragione dunque anche durante i festival questi film saranno visti male: e allora come fare perché questi film siano visti? E come fare affinché un festival serva a recuperare questa centralità? Io su questo non ho dubbi: bisogna ragionare ormai in maniera chiara su una tipologia diversa di manifestazione, per cui da una parte ci sono ancora i festival che possono reggersi su una composizione ibrida, vedi Cannes, ma il modello Cannes è in qualche modo inimitabile. Quello che a me è successo a Locarno è stato di capire che con un po' di sforzo potevo dire ad alcuni grossi produttori americani di darci i film più insoliti del loro listino mentre quelli per i quali erano previste date di uscita che in qualche modo potevano usare la nostra presentazione festivaliera avrebbero avuta garantita un'ottima presentazione, sulla Piazza Grande, ecc. Questo è il primo elemento che crea una divaricazione, perché automaticamente, non c'è dubbio che tutti quelli che lavorano attorno alla programmazione del programma del festival si trovino coinvolti in un vortice di questo tipo, perché la carta da spendere è la presenza magari di una prima internazionale del filmone hollywoodiano. Per questo non c'è più nessuno che per due mesi segnali la presenza magari del nuovo film di Fruit Chan: interessa sempre meno a questo punto sottolineare un diverso orizzonte di esperienza. E' chiaro ormai che la storia dei festival ne fa delle manifestazioni con un contorno che non è modificabile. La mostra di Venezia dovrà sempre continuare ad essere in accordo con quello che è sempre stata; la mostra di Locarno dovrà sempre proseguire su quella sorta di ricerca del giovane, non in senso anagrafico, ma dell'inesplorato, della creatività sommersa dei cineasti alla loro prima o seconda prova. Bisogna probabilmente dirsi che servirebbe di più lavorare ad un ipotesi di festival che non sia più il panorama di tutto quanto viene prodotto, per cui si è costretti a mostrate tutto e il contrario di tutto, ma bisogna pensare ad una serie di festival permanenti, ad una serie di eventi dove il lavoro viene fatto prima, dopo e durante la presentazione. Ma allora questo implica senz'altro un'intelligenza da parte dei parternariati possibili: per anni i festival hanno demonizzato le televisioni, fino al punto in cui il rapporto è diventato incestuoso, per cui non è più chiaro a che cosa di particolarissimo l'aiuto di una televisione può servire; si sa confusamente che adesso non si può fare un festival senza l'appoggio mediatico che una televisione può dare. Ma a questo punto pensiamo che i palinsesti televisivi sono ancora comunque abbastanza ricchi da permettere di isolare delle linee che mettano in evidenza delle singolarità, e allora i festival hanno una loro…
...mi
rendo conto che continuare a parlare di "festival", che è una parola ormai
talmente abusata che non c'è dubbio che festival vuol dire senz'altro
una vetrina di grosse anteprime che tutti vogliono vedere, e poi l'osservatorio
su una creatività in qualche modo dissidente rispetto a quella. E' chiaro
che c'è una contraddizione: io vengo da una stagione di manifestazioni
che avevano un po' vergogna di essere "festival", quando ho cominciato
a lavorare nei festival ho lavorato ad una manifestazione che si chiamata
la "Mostra" del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1978; poi sono andato ad inventare
una cosa che non voleva chiamarsi festival, a Torino, per cui dal 79 all'81
lo abbiamo chiamato Ombre Elettriche, perché non c'era altro modo; poi
sono tornato alla "mostra" dei Pesaro e, in qualche modo, allora lo spazio
dei festival era uno spazio continentale dove non c'erano frontiere, dove
la circolazione delle idee, delle opere e delle persone avveniva senza
bisogno di passaporto e dove eravamo uniti dalla necessità di una difesa
di opzioni e di idee di cinema che avevano bisogno di quel tipo di sostegno.
Sto parlando di una situazione che è durata ancora forse fino alla fine
degli anni Ottanta, ma che poi è definitivamente defunta, anche perché,
bisogna dirlo, chi ha fatto i festival in quel modo lì, chi ha cercato
di cambiare la macchina-festival, chi ha cercato di mettersi al servizio…
anche per questo io ho lasciato Locarno… rischia la salute e la vita:
i miei più cari amici e complici che hanno fatto questo mestiere sono
morti, sono morti d'infarto! Huub Bals, il fondatore di Rotterdam, dal
quale ho ereditato il festival, è morto d'infarto; Enzo Ungari si è consumato
nel fare questo lavoro in prima linea; Giovanni Buttafava è morto d'infarto
pure lui buttandosi dentro dei progetti ambiziosissimi di cinema sovietico
che poi magari io, nel mio piccolo, ho potuto realizzare soltanto a dieci
anni di distanza, perché dieci anni ci sono voluti per riprendere il coraggio
di sfidare così tante cattive abitudini. In qualche modo questa è stata
una stagione che si è chiusa, e allora non si può dire che la soluzione
si trova nel ridare vita a qualcosa che è morto: bisogna ripensare il
nuovo, bisogna cercare l'altro ma non l'altro per l'altro e per la spettacolarizzazione
dell'alterità, ma l'altro una volta per tutte, perché si definiscano delle
coordinate che sono diverse rispetto a quello che si è fatto finora". |
KMX: Ma allora quale deve essere il ruolo di Venezia, magari già dal terzo anno di Barbera? Quale la differenziazione che possa
MARCO MULLER: "Io credo che Alberto stia facendo più che egregiamente il suo mestiere di direttore di Venezia, come lo faceva quando era fabbricante di festival di tipo diverso. Adesso, per forza, deve inserirsi in un solco tracciato dai suoi predecessori. Venezia non può non rispondere a quelle caratteristiche segnate dalla sua storia, quindi non è possibile pensare che Venezia possa rinunciare a quei film che tutti aspettano. Il problema è che non è più possibile continuare a lavorare seriamente su un numero così elevato di film: quest'anno, e io non ho problemi a dirlo, ci sono troppi film a Venezia, senza contare che così si fa del male ai film! Io rimango allibito quando vedo fino a che punto la stampa quotidiana buca costantemente una media di due o tre lungometraggi di "Cinema del Presente" o di "Nuovi Territori", senza parlare dei formati fuori norma. C'è chiaramente una contraddizione in termini nel cercare di offrire un osservatorio sulle nuove tendenze quando nessuno ne parla e soprattutto nessuno riesce a ragionare sulle dinamiche del nuovo quando ci sono contenitori così enormi, senza la possibilità di confrontare i film fra di loro, o quando ci si riscese ne vede uno e lo si confronta per forza magari con quelli più grossi. Io credo che Venezia debba ridurre il numero dei film, combinando gli elementi bene proprio come sta effettivamente facendo Alberto Barbera con grande professionalità. Ormai, e lo sappiamo da tanto tempo, chi decide davvero non sono più i registi, e questo è noto perché sono vent'anni che i registi non vanno più ai festival con le pizze sotto al braccio, ma sono sempre di meno i produttori e sempre di più naturalmente gli specialisti preposti al marketing, quindi i venditori. La scelta di un festival viene fatta a seconda delle esigenze, ma non di quel film in particolare, ma di un pacchetto di film: se infatti andate a leggervi trasversalmente i cataloghi di tanti festival, vi accorgerete che un film che quel festival voleva in concorso ha una coda di altri tre o quattro film. Perché sono i venditori stessi che per primi ammazzano il film, perché si pongono questa domanda: "ma quanto mi costa andare a Venezia? Centocinquanta milioni? Allora perché non buttarcene dietro altri tre, per fare il lavoro completo?". Naturalmente se invece loro stessero a scegliere il film giusto per Venezia, quello per Locarno o Torino, verrebbero a spendere magari duecentoventi o duecentocinquanta milioni, per cui fanno proprio un ragionamento in soldoni, ma chi ne fa le spese sono alla fine quei film condannati a non essere più ben visti, perché sono stati mal visti in occasione della prima mondiale, quindi non possono più trovarsi in concorso altrove. Io non credo naturalmente nei concorsi, anche se sono stato costretto a fare un concorso dopo aver lavorato dodici anni nei festival senza concorso, e mi rendo conto che si tratta di una costruzione artificiosissima, di cui però si ha bisogno per alzare la reputazione del film, per cui se è inserito in concorso automaticamente viene ritenuto più interessante, facendo crescere la voglia di vederlo. Ci vorrebbe dunque un discorso a monte fatto con i capipagina dei quotidiani o con i responsabili dell'informazione radiotelevisiva, per capire quanto possono coprire, ad esempio, di quanto non uscirebbe dal festival a due settimane nelle sale. Offrire in cambio qualcosa che sicuramente verrebbe richiesto per ottenere un minimo di attenzione per quello cui, normalmente, non verrebbe regalata quell'attenzione".
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MARIO SESTI: "Questo è vero. Il caso di Soldini però lo conosco abbastanza bene avendo partecipato attivamente almeno al suo film precedente: forse quello che dici tu effettivamente non è successo, ma è singolare come sia sempre il pubblico a scegliere; il pubblico capisce subito quali siano i film che gli interessano veramente. Anche se questo può sembrare un po' romantico, succede più volte di quanto uno possa credere. Io faccio questo caso anche per autori che ci sono lontani, ma che probabilmente se ce ne fossero di più, almeno sul piano commerciale avremmo più sorrisi: penso a Pieraccioni. Io ricorderò sempre che chi ha prodotto e distribuito il primo film di Pieraccioni lo ha fatto uscire a Firenze poco prima di Natale nella convinzione che sarebbe durato pochi giorni; è stato buttato lì proprio come si abbandonano i film delle piccole distribuzioni. Il pubblico lo ha scelto, è andato a cercarlo!v E' su questa schizofrenia dei due atteggiamenti che dobbiamo ragionare: o lo rifiuta completamente perché pensa che sia una cosa proprio non lo riguarda, come proporre della poesia a chi non ha alcun interesse, oppure ad un certo punto capisce che quello è il film che gli piace, è quella che, con un termine usato solitamente dai giornali, si chiama l'intercettazione. L'intercettazione, che è casuale, caotica, isterica, è il movimento che genera qualcosa, e questo si raggiunge solamente a partire da un'infinità di tentativi, dietro i quali ci sono un'infinità di energie sprecate, frustrazioni. Il caso di Soldini è esemplare, o anche quello di Piccioni, un regista che in parte è stato appoggiato, in parte la critica lo ha maltrattato, il pubblico all'inizio gli ha dato qualcosa e poi lo ha completamente rifiutato; però lui ha insistito, e anche questa è una concezione romantica, ma è l'unica di cui disponiamo, ma se per qualcuno il cinema è una cosa necessaria, per cui ho si fa o si finisce nel dimenticatoio della propria esistenza, nella più totale frustrazione, è proprio questa tensione che garantisce che dietro una serie di tentativi, dopo i quali magari io e te probabilmente avremmo rinunciato, ci sia qualcosa. Essere rifiutati tre volte dal pubblico è tanto, è tantissimo! E poi significa sottoporre la propria identità e il proprio equilibrio ad un giudizio molto severo. Il caso di Piccioni in questo senso è proprio esemplare: il suo è un cinema meno elitario, che si apre di più, e il fatto di essere rifiutato proprio quando volevi aprirti a più persone è ancora peggio. Ad un certo punto lui, con la sua soggettività che ha bisogno di comunicare con qualcun altro e che ha i giusti mezzi per farlo perché dice delle cose che interessano, si è trovato di fronte a questo martirio, però ha continuato. Ed è anche questo il bello, perché non facciamo tutto questo perché dobbiamo contribuire ad un'industria dell'economia italiana, lo facciamo perché siamo convinti che ci sia qualcosa che ci attrae al di là dei numeri, del destino individuale, è questo che ci piace, è questa la bellezza".
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PAOLO D'AGOSTINI: "Vorrei però aggiungere
una considerazione solo apparentemente negativa a proposito del buon esito,
imprevisto, di PANE E TULIPANI. Naturalmente ci ha riempiti di gioia, ma
è comunque un fenomeno in qualche misura allarmante. Provo a spiegarmi.
Chi, tra coloro che coltivano gusti più sofisticati o più esigenti, si rallegra,
si compiace, ad esempio, della caduta di appeal del cinema dei Vanzina,
sbaglia, commette un atto, un gesto irresponsabile, secondo me. Il caso
di Soldini è particolarmente evidente, rilevante, clamoroso, ma il fatto
che su di lui o su di altre personalità più o meno affini, come Calopresti
o come lo stesso Piccioni, sia finito per gravare la responsabilità che,
appunto, grava su chi occupa il centro della situazione, insomma, è, in
un certo senso, una cosa un po' allarmante… voglio dire: Soldini…
va benissimo, siamo felicissimi che abbia avuto quest'esito il suo film
più recente, però Soldini deve poter continuare a fare l'Autore, deve poter
continuare ad occupare una zona di frontiera, come vogliamo chiamarla,
di ricerca, di superamento dei limiti di ciò che è già consolidato, perché
lui è, appunto, un Autore. Il fatto che il cinema italiano, oggi, si fondi
principalmente su figure come lui, e manchino invece le due sponde opposte
di chi in modo duraturo è il punto di riferimento dei gusti di massa (è
vero, esistono anche fenomeni come Pieraccioni, ma che si rivelano passeggeri)
e di chi, sul versante opposto, si assume la responsabilità, il compito
minoritario, sul versante opposto, di tentare liberamente, senza finalità
immediatamente rivolte al botteghino, mi sembra una distorsione, una cosa
abbastanza negativa, pericolosa…"
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MARIO SESTI: "Guarda, però, che di passi avanti verso il pubblico è lastricato l'Inferno degli Autori… io penso che siano più documentabili i tentativi falliti di passi avanti verso il pubblico che… anche i Vanzina ne hanno fatti infiniti, hanno tentati vari generi, nella convinzione che, magari, invece della loro commediaccia di Natale, potessero fare qualcos'altro e spesso, invece, sono stati duramente puniti. In generale, il passo avanti verso il pubblico non è mai quello che uno pensa di poter identificare con la commedia o… in definitiva, come tentavo di dire prima, non sai mai qual è il passo avanti verso il pubblico, fin quando non lo fai e fin quando non capisci che ha una qualità che il pubblico è in grado di apprezzare e non coincide mai, soprattutto, con quelli che vengono considerati passai avanti, in maniera un po' convenzionale, da parte della critica, come per esempio la scelta della commedia. Commedia, in Italia, significa sempre lanciare un cenno d'intesa verso il pubblico popolare. Ma non è detto. Il film di Piccioni, ad esempio, è drammaticissimo, senza riscatto, senza speranza, di un'amarezza abissale. Eppure quello è stato un passo avanti verso il pubblico, senza che prima si capisse che fosse quello. In generale, il discorso di Paolo è decisivo, ma non soltanto oggi. Un paio di stagioni fa, ma anche di recente, c'è stata questa polemica che io ritengo veramente offensiva e che la dice lunga sul grado di conoscenza delle cose del cinema: alcuni esponenti politici, in particolar modo della destra, hanno rimproverato allo Stato di finanziare opere che, in realtà, non producevano degli esiti. Basterebbe dire che quelle opere vengono prodotte proprio perché non c'è un mercato in grado di sostenerle, altrimenti che le si finanzia a fare! Però, l'anno di LADRI DI BICICLETTE c'è stato un film di Macario che fece molto di più di quanto, in proporzione, ha fatto Pieraccioni, anche mille volte di più, ma se lo chiedi al pubblico, non c'è chi se lo ricordi. Secondo questi criteri un LADRI DI BICICLETTE non lo si dovrebbe fare e la dimenticanza di questo è veramente un segno di gravità. Questo fatto che se lo Stato finanzia opere commerciali, allora che le finanzia a fare, o, se le finanzia e poi non prendono soldi allora perché le ha finanziate… lo Stato deve finanziare tutto ciò che, forse, deve essere fatto proprio perché non incontra un pubblico in quel momento, no? E questo lo dico anche da un punto di vista imprenditoriale. Una volta Coppola disse che i profitti di un film non si calcolano solo in base ai profitti che fa quando esce, ma si calcolano come si fa con i profitti di un palazzo: quante volte nel tempo riesci a sfruttarlo. LADRI DI BICICLETTE… o il più grosso disastro economico del cinema italiano, il GATTOPARDO, in realtà ha prodotto, sì, il fallimento del suo produttore, ma la banca che ha acquisito i diritti, ancora ci campa! Questo è fondamentale capire: il vero profitto di un film si calcola sui tempi lunghissimi, molto di più adesso che allora, perché gli sfruttamenti si sono moltiplicati."
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PAOLO D'AGOSTINI: "Scusa, vorrei aggiungere una cosa. Sempre a proposito di passi avanti verso il pubblico, in realtà distinguerei i casi di Soldini, Mazzacurati di quello di Virzì che tu richiamavi. La cosa molto interessante e bella dell'ottimo esito di PANE E TULIPANI e, spero, anche de LA LINGUA DEL SANTO, è che si tratta, è vero, di due scoperte di un atteggiamento più sorridente da parte di due autori che siamo invece abituati a conoscere sotto una luce diversa, però direi che in nessuno dei due casi c'è stata una ricerca deliberata di avvicinamento al pubblico. La cosa molto bella del film di Soldini è che, anche nell'accostarsi ad un atteggiamento più sorridente e quindi più accessibile, è rimasto assolutamente se stesso. Qualcosa simile, almeno nelle intenzioni, succede nel film di Mazzacurati, quanto all'esito vedremo. Il versante invece di Virzì, sappiamo benissimo che i codici della commedia fanno parte del DNA del cinema italiano del dopoguerra, e Virzì è fisiologicamente parte di questa corrente, è forse oggi l'erede più accreditato della tradizione che sta tra Monicelli e Scola. E' importante distinguere le identità diverse". MARIO SESTI: "Un attimo… sempre rispetto a questi passi avanti, parlo per averne conosciuto la vicenda nel caso di Soldini; nel caso di Mazzacurati, posso immaginarmelo: si tratta di due casi di sceneggiature che arrivano sul tavolo dei produttori sostenute lungo l'intero tragitto da una voce fuori campo. E questo viene ritenuto un atto di straordinario intellettualismo, quindi sono film che poi, nel momento produttivo, non vengono concepiti come passi verso il pubblico. Un passo verso il pubblico è VACANZE DI NATALE. Tutto ciò che sta tra VACANZE DI NATALE e Tarkovskij non è considerato popolare: la percezione è questa. Si tratta in realtà di due sceneggiature molto ambizione, per cui quello che voi chiamate "passo verso il pubblico", in realtà è qualcos'altro."
PAOLO D'AGOSTINI: "Non solo: è anche abbastanza buffo. Nel senso che ad un'analisi nemmeno troppo approfondita, si fa presto ad accorgersi che il percorso artistico di Soldini è caratterizzato dall'aver rifatto sempre lo stesso film, con il nodo centrale costituito, a partire da L'ARIA SERENA DELL'OVEST al LE ACROBATE e forse soprattutto in UN'ANIMA DIVISA IN DUE, sempre dall'idea della scoperta e della tentazione di un'altra vita, come proprio in PANE E TULIPANI".
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PAOLO D'AGOSTINI: "Vorrei aggiungere un piccolo
contributo di vita vissuta, sperimentata: mi è capitato a più riprese, nel
corso della mia attività, di veder nascere i rapporti più interessanti con
gli autori con coloro con in quali il rapporto era iniziato anche in modo
violentemente conflittuale. Per rapporti migliori intendo dire non di amicizia,
ma più produttivi e proficui sul piano critico, reciprocamente stimolanti
e utili. Si sono fondati con registi con in quali ho avuto dei rapporti
difficili, di confronto dialettico serrato, di critica molto negativa: non
è naturalmente che la mia biografia valga più di tanto, ma concretamente
è importante assumersi, anche correndo il rischio di sbagliare, delle responsabilità,
magari sfidando l'impopolarità ma stabilendo il confronto ognuno dalla propria
postazione. Sono i casi in cui ho proprio avuto la sensazione di toccare
con mano la produttività di un conflitto o di un confronto".
PAOLO D'AGOSTINI: "Quello delle istituzioni, naturalmente, è un tema importante, ed è probabile che siano insufficienti. Detto questo non bisogna dimenticare che nessuna efficienza istituzionale potrà mai sostituire quello che è il talento, ma anche semplicemente la spinta e la passione che ciascuno deve avere, e coltivare, per fare il cinema. Riprendendo un argomento che prima usava Mario, nel caso di chi vuol fare il regista è assolutamente necessaria una grandissima autostima, per cui nessuna istituzione può sostituire tutto ciò. Per quanto riguarda la questione dei finanziamenti, credo sia un po' facile ragionare a posteriori, perché ci sono delle commissioni formate da persone con i loro gusti, la loro onestà, per cui gli esiti dipendono molto dalle persone che hanno questa responsabilità. E poi non dimentichiamo che si deve valutare sulla base di un elemento scritto, di una sceneggiatura, per cui non è facile valutare e si può sbagliare. Trovo che spesso, su questo, si facciano delle polemiche assolutamente pretestuose. Resta naturalmente il problema di avere le idee chiare su un principio: se sia giusto o meno investire a fondo perduto nella ricerca di nuovi talenti; quello che io trovo insopportabile è che si mischino le carte, cioè che riemerga periodicamente un argomento assolutamente pretestuoso a proposito del fatto che i film finanziati dallo Stato non abbiano poi esiti commerciali. Si tratta di intendersi su qual è la vocazione, la natura di questo meccanismo".
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MARIO SESTI: "La penso
anch'io nello stesso modo, e ci sono due discorsi diversi nella vostra domanda,
ovvero uno è formare uno spettatore o qualcuno in grado di trarre beneficio,
informazione o semplicemente divertimento dalla maggiore conoscenza del
cinema, mentre l'altra concerne il reclutamento di talenti che, per definizione,
è molto affidata a caso. Negli ultimi due anni
io ho avuto la possibilità di frequentare in maniera casuale ma abbastanza
da vicino la New York Film Universiity, che è un posto da cui sono usciti
talenti come Spike Lee o Shyamalan, il regista de IL SESTO SENSO, e la percentuale
del talento non è che sia diverso. Per riprendere il parallelo
che fai tu, nel cinema grava questa cosa per cui approfondisce chi il cinema
deve diventare regista, ma non è detto che chi impara la musica diventi
per forza un grande esecutore. Anche per ragioni di natura del mezzo e di
tecnologia, uno potrebbe imparare le regole della sintassi e della grammatica
cinematografica per fare meglio i filmetti familiari; perché bisogna per
forza fare del cinema per mandare la gente al cinema o fare miliardi? Invece
novantanove volte su cento chi va alla Scuola Nazionale di Cinema lo fa
perché vuole diventare un grande regista, o un grande sceneggiatore o un
grande attore. Dunque il discorso sulla formazione è assolutamente legittimo,
per cui certo la scuola italiana non mi sembra all'avanguardia, ma più importante
per quanto concerne l'idea generale della formazione: è un po' come l'alimentazione,
se dai ad un adolescente la possibilità di non assaggiare sempre le stesse
cose, perché dovrebbe avere la curiosità di mangiare qualcos'altro. Lo
stesso discorso dovrebbe fare la scuola: tutti escono avendo letto il Manzoni
ma solo per qualcuno è un'esperienza diciamo decisiva, e va bene lo stesso.
E' grave che moltissimi escano senza aver mai visto un film di Rossellini
o De Sica, ma questo è un discorso diverso rispetto a quello
della formazione professionale".
KMX: E' vero, ma molti di questi ragazzi ci hanno fatto capire che se nella loro città o nelle vicinanze avessero trovato una scuola, anche privata, in grado di dar loro la possibilità di intraprendere, esattamente come accade per l'università, una scelta alternativa, anche senza diventare per forza registi, magari l'avrebbero scelta. Il problema è che non c'è proprio questa possibilità… MARIO SESTI: "Sì, su questo sono d'accordo, e ciò d'altra parte nasconde una chance di approccio e di aggiramento al problema del cinema italiano: tutte le persone che magari vi hanno detto che non vanno a vedere film italiani perché magari non ci pensano o non la considerano un'esperienza eccitante, sono tutte persone che, secondo la mia esperienza, se gli venisse data la possibilità di trascorrere alcune ore sul set di un film italiano correrebbero. E' tutta gente interessata al mestiere del cinema in assoluto, vorrebbe parteciparvi, magari facendo il regista ma che tra il più modesto dei film americani e un film italiano di qualità sceglierebbero quasi sempre il primo: questa dunque è un particolare percorso di aggiramento che andrebbe approfondito, e per il quale forse la scuola sarebbe il luogo ideale; naturalmente tutto ciò dovrebbe implicare l'esistenza di una classe politica particolarmente disponibile e intraprendente e molte altre componenti perché, comunque, non si tratta di una cosa organizzabile solo a tavolino. Esiste comunque da diversi anni un movimento, soprattutto all'interno del sindacato dei critici, anche se con delle proposte un po' troppo schematiche e scolastiche legate all'inserimento, ad esempio, dello studio della storia del cinema, che per me sarebbe sbagliato, perché non è questa che serve ma qualcosa che potesse essere definito magari comunicazione per immagini e suoni". |
MARIO SESTI: "Io trovo che la selezione italiana non sia felicissima, e questo non dipende soltanto dalla selezione ma dal giudizio sui film presi singolarmente che, per il mio gusto, non sono molto positivi. La selezione, comunque, è una selezione, cioè un atto assolutamente passivo: se il festival si fosse tenuto a gennaio, probabilmente Barbera avrebbe preso PANE E TULIPANI, PREFERISCO IL RUMORE DEL MARE o SANGUE VIVO, che credo sia un film straordinario, e dunque anche il mio giudizio sarebbe stato molto diverso. Dunque responsabile della qualità non è la selezione, che deve lavorare sul materiale disponibile; io comunque avrei preferito un maggior rigore, perché credo che sul cinema italiano la direzione sia stata un po' troppo disponibile al compromesso".
MARIO SESTI: "Una graduzione all'interno della selezione è inevitabile poi, per il mio gusto, io avrei preferito Scimeca in concorso e Giordana fuori, ma delle scelte devono comunque essere fatte. Il problema della promozione può essere affrontato solo in minima parte dal festival, perché riguarda invece chi il film lo produce op lo mette in commercio. Guardate che lo spazio che la stampa ha dedicato a questi film non è stato ingeneroso. L'unica cosa che si può dire in questi caso riguarda lo spazio che gli si dedica nel processo dell'informazione, e in questo senso non penso che su questi film sia stato scritto poco. Il film di Garrone è un film che molto probabilmente non è stato concepito nemmeno per uscire nelle sale, perché ha una struttura di appunti notazioni diaristiche, ma nonostante questo i giornalisti ne hanno parlato, se ne sono occupati, e noi di Kataweb, ad esempio, lo abbiamo fatto anche in maniera moto approfondita e articolata. Non si deve addossare al festival la responsabilità del destino che un film avrà successivamente, questo non è giusto". PAOLO D'AGOSTINI: "Io penso che i selezionatori del festival di Venezia siano un po' troppo di manica larga con i film italiani, con il numero di film italiani invitati a vario titolo. Mi compiaccio che quest'anno non si sia rinnovata la gaffe, la provocazione o l'errore di valutazione dell'anno scorso, quando nella selezione competitiva la presenza italiana era data da due film, quello di Zanasi e quello di Tonino De Bernardi che, per un verso per ragioni di immaturità, e per l'altro a causa dell'appartenenza ad un cinema di nicchia, assolutamente impresentabili in quell'occasione e con quella responsabilità; cosa che ha creato un risultato negativo sul complesso del cinema italiano. Trovo comunque che, vero i film italiani, la Mostra di Venezia sia rimasta un po' troppo generosa nei confronti della cinematografia italiana".
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KMX: Chiediamo anche a Stefano Della Casa
se ritiene anche lui che i festival maggiori possano diventare un'occasione
per far incontrare gli operatori del settore e farli interrogare sulla possibilità
di mettere in atto delle sinergie volte non a difendere aprioristicamente
il cinema italiano, bensì a riaccendere un dibattito altrimenti carente,
sulla base del quale riuscire, almeno, a ritrovare una possibile linea comune
del nostro cinema. Gabriele Salvatores si è detto entusiasta dell'ipotesi
di poter tornare, in futuro, a lavorare all'interno di una "tribù" artistico-creativa;
Mimmo Calopresti, invece, preferisce una strada da percorrere in solitudine... |
STEFANO DELLA CASA: "Guarda,
io penso che, innanzitutto, si debba capire in generale che cosa sono
i festival: sono tantissimi e sempre più
inutili, essenzialmente
per un motivo, e cioè che sono schiavi della mediatizzazione.
Mi spiego: la maggior parte dei miei colleghi e delle volte anch'io, per
quanto inconsciamente, ci preoccupiamo troppo di far sì che l'evento sia
tale e che i giornali si occupino della manifestazione, che non di fare
qualcosa che sia veramente utile ai film. Il presupposto, infatti, dovrebbe
essere che i festival servano i film e non il contrario. Allora, se
tu ti limiti a fare delle anteprime dei film che stanno uscendo e a prendere,
di conseguenza, l'attore che è in tournée in Europa per fare il giro di
presentazione del film, fai una cosa poco utile, perché io,
da buon provinciale, quando sono andato a Roma, sono rimasto colpito soprattutto
dal fatto che, questi divi, in realtà li vedi tutti: da John Travolta
a Richard Gere a Robert De Niro, io li ho conosciuti tutti. Se i festival
devono servire a questo, allora servono veramente a poco. I
festival, col fatto che ormai sono così tanti, fungono da distribuzione
alternativa dei film che si sa non usciranno poi in sala. Finalizziamoli,
allora, a dare visibilità a quelle opere che altrimenti non potrebbero
averla: film che non hanno casting, che hanno problemi commerciali, o
perché troppo lunghi o troppo corti o perché non sono prodotti di "finzione".
E' necessario quindi che i festival agiscano
nelle pieghe del mercato, anche perché in queste pieghe ci sono le cose
più interessanti del cinema italiano. Un'altra forma scorretta
è quella di pensare, tra l'altro, che il cinema si identifichi con il
lungometraggio distribuito nelle sale: quello è un formato che è destinato
a diventare desueto. Secondo me la percentuale di cinema americano che
gira per le sale (adesso siamo al 70%), e che non si combatte col protezionismo,
diminuirà progressivamente in futuro. Perché non ci si chiede come mai
i documentari girati da registi italiani affermati sono sempre molto interessanti,
o perché i cortometraggi presentati nelle varie rassegne specifiche dicono
cose che i lungometraggi non dicono o, ancora, perché gli sceneggiati
italiani hanno regolarmente un successo maggiore rispetto a quelli americani?
Perché "Commesse" o "La piovra" vanno molto meglio, dati alla mano, dei
loro corrispondenti americani? Allora, se
noi guardiamo al cinema come ad un fenomeno "espanso", che si occupi di
varie cose e in mille forme, ecco, quello credo sia il "posto" in cui
fare i festival. Inoltre, fare cinema è un mestiere che, alla
base, ha le pubbliche relazioni, nel senso che l'uso corretto che un regista,
oltre che un critico, deve fare dei festival è, oltre a quello di vedere
film e di confrontarsi con altre realtà, quello di conoscere, di entrare
in sintonia, di capire che cosa si chiede, che cosa può fare lui per entrare
in contatto con quelli che possono farlo lavorare. Tu parlavi di Mimmo
Calopresti, che, tra l'altro è un mio amico d'infanzia: lui veniva da
una lunghissima esperienza di cortometraggi e documentari, ha conosciuto
Nanni Moretti a Torino, quando era in giuria, e da qui è nato il fatto
di poterlo avere nel suo primo film come protagonista (LA SECONDA VOLTA,
ndr). Giustamente, secondo me, Calopresti adesso dice "faccio quello che
voglio io": ha avuto al primo film il regista italiano più famoso all'estero!
Quest'anno, a Torino, io vorrei che quelli che seguono per la RAI o MEDIASET
le opere prime e seconde, venissero e, invece di usare le piantane o i
riflettori, facessero qualcosa di molto semplice: un incontro con questi
autori agli esordi per dire loro "io sono quello, ad esempio, che si occupa
di opere prime e seconde per RAICINEMA, e voglio questo tipo di prodotto"
rivolti, quindi, non alle telecamere, ma a gente che vuole fare realmente
i film. Ecco a cosa devono servire i festival: smetterla di essere qualcosa
per cui fai di tutto per avere sedici ore la presenza di Val Kilmer!!!
Ma qualcosa che serva in tutti i modi a difendere i film che proponi:
una struttura di servizio. Infatti il festival migliore è quello che non
si propone come tale, al limite senza una forte identità come tale, ma
nel quale anche un prodotto che duri dieci secondi o sei ore è difeso,
viene portato avanti, se ne parla. Anche questa figura del caporedattore
che censura se le cose di cui si parla non sono glamour, sono balle! Se
uno punta i piedi, alla fine la cosa la fa uscire e ci sono mille modi
per farlo. Anche perché è molto più facile intervistare Brad Pitt, che
parlare di un documentario di cui non si sa niente. E poi la curiosità
intellettuale della critica è ridotta quasi a zero e questo fa sì che
la critica scomparirà senza lasciare traccia. Quando si ritireranno gli
ultimi tre o quattro grandi quotidianisti, che comunque sono avanti negli
anni, scomparirà la critica, così come è scomparsa già quella teatrale.
Ormai sono solo interviste ed anticipazioni. Quando accadrà, nessuno piangerà.
Voglio dire, non vedo mobilitazioni…" |
STEFANO DELLA CASA: "…sai, i festival sono comunque una struttura temporanea e in questo senso non è che possano fare poi tanto. C'è, però, un altro punto al quale indirettamente i festival possono servire. Ad esempio, Torino incassa 140 milioni di biglietti staccati nel corso di nove giorni e di film dotati del famoso glamour non ne presenta praticamente nessuno: io mi domando perché durante i festival la gente fa la fila, si scanna per vedere film sconosciuti e poi in sala non li va a vedere nessuno. Allora, in questa ottica quello che possono fare i festival è avviare un discorso di collaborazione con tutta una serie di piccole sale di nicchia nelle varie città e cercare, in qualche modo, di veicolare un po' le cose, di creare un cartello per cui il prodotto sconosciuto viene protetto, lanciato, anzi, annunciando già durante i festival che il film tale sarà presentato nel tal posto o nel tal altro. Non è certo un'impresa facile, anche perché io stesso, se fossi esercente, non so quanto prenderei certi film! Voglio dire, la cialtroneria che c'è nella critica c'è anche tra i direttori dei festival! Detto questo, però, qualcosa si potrebbe fare su questo piano". |
KMX: Sempre in quest'ottica, come dovrebbero
differenziarsi o, addirittura, specializzarsi le varie manifestazioni italiane?
Voglio dire: quale la specificità di Venezia, Torino… |
STEFANO DELLA CASA: "A Torino, quest'anno
noi facciamo un grande investimento sui documentari e io ho tolto anche
il discorso dell'inedito, anche perché, diciamocelo, con le uscite a ridosso
delle anteprime festivaliere, ormai l'inedito non è più tale, per cui rinunciare
a materiale già presentato era un sacrificio senza senso. Quindi anche se
sono già passati, visto che sono le tematiche ad attirare il pubblico, noi
investiamo su documentari e cortometraggi. Come differenziarsi… quello
che secondo me non ha senso qui a Venezia sono i "Nuovi territori": è una
sezione che rimane schiacciata in mezzo a mille altre cose. Anch'io
sono riuscito a vederne solamente uno, trovando anche molta difficoltà nel
riuscire a raggiungere la sala in orario… Non hanno molto senso queste proposte,
dal momento che qui a Venezia ci si aspetta altre cose. Devono esserci molti
meno film, perché è inutile essere tutti generalisti in un momento in cui
le televisioni, ad esempio, tendono tutte a diventare di nicchia, di settore,
tematiche. Anche i festival devono diventare tematici e ragionare in modo
tale da far sì che gli altri sappiano di trovare a Venezia una certa cosa
e a Torino un'altra… A me sembra assurdo dare film come THE CELL, che esce
il giorno dopo in tutte le sale…" KMX: …forse anche i cortometraggi… STEFANO DELLA CASA: "…certo, anche i cortometraggi. E' come se in un Gran Premio di Formula 1 tu facessi correre Schumacher, Hakkinen e poi ci mettessi anche Pantani!!! Cioè, ci sono più cose, la pista è più piena, ma insomma…." |
KMX: A questo punto ti chiediamo un giudizio sulle selezioni italiane degli ultimi due anni, le quali, come ha detto Marco Muller, lo fanno assomigliare un po' ad una sorta di Sundance nostrano, con film come quelli di Zanasi, Di Majo, Maderna, Garrone, vincitori, magari, di festival di cortometraggi l'anno prima, e poi un po' mandati allo sbaraglio all'interno di una selezione (quella in concorso), che mai aveva visto prima prodotti così atipici e, al limite, "vulnerabili"… STEFANO DELLA CASA: "Guarda, Venezia del mio amico Alberto ha puntato molto su cose come l'organizzazione, e penso che abbia vinto la scommessa. Per il resto risente molto della stagione, nel senso che quest'anno c'erano in uscita molti film di una certa rilevanza e lui li ha presi. Più di tanto non potrà non risentire di quello che passa il convento. Ripeto, quello che mi trova meno d'accordo è l'insistenza nella presentazione di film americani che uscirebbero comunque, giusto per far fare la passerella ad Harrison Ford. C'è anche da dire che viene messo in atto una sorta di ricatto, perché poi i giornali parlano a partire da quello… ma, come diceva Alessandro Magno, i circoli viziosi la cosa più bella è tagliarli con la spada! Secondo me, in questi casi, uno prende una decisione e decide di non fare più una certa cosa, anche se è facile parlarne senza esserne coinvolti… La selezione in concorso è comunque sempre un grande minestrone…" KMX: E cosa sarà dei film di Scimeca, De Bernardi, Rocca, ancora più vulnerabili di quelli appena citati? STEFANO DELLA CASA: "Mah, guarda, lì bisogna lavorare sapientemente ad un mercato di nicchia, puntando su di un tessuto connettivo che pochi conoscono ma che è fondamentale ed è quello dei cineforum. Io sono nato andando a fare i dibattiti nei cineforum… e posso dire che in questi posti si ricrea l'atmosfera dei festival. Stessa cosa nel circuito dell'"associazionismo", biblioteche e simili. Adesso non esiste più nulla di questo tipo. Il fatto è che io andavo al cinema 4/5 volte alla settimana e 6/7 volte a teatro…" |
STEFANO DELLA CASA: "Certo, però va anche detto che le nicchie bisogna andarsele a cercare, con operazioni tipo la pubblicità mirata e cose simili… Se dovessi suggerire una strada suggerirei quella. E' un lavoro molto duro…una specie di occupazione progressiva del territorio, come i Vietcong." KMX: Il problema è che anni fa parlare di letteratura, andare al cinema o a teatro era tutt'uno con la vita sociale, con l'aggregazione tra i giovani, che non avevano bisogno di spinte per trovare interesse in una serata "culturale". Non pensi che oggi questa spinta debba essere data dalla scuola, dall'istruzione, a partire anche dai licei, come accade in alcuni paesi europei? STEFANO DELLA CASA: "Attenzione: questo è sicuramente auspicabile, ma dobbiamo evitare il rischio che i ragazzi abbiano l'approccio sbagliato a queste cose, come è capitato a me, che ho cominciato ad amare Orazio e Ovidio dopo la fine dell'università. Sul cinema bisogna fare la stessa cosa. Ovvio fare in modo che non sia palloso. Un bel concetto base sarebbe quello di far vedere le cose e non solo di parlarle e di puntare molto sulla quantità, nel senso di abituarli a molti film alla volta, invece del temino subito dopo la proiezione, facendo una specie di pesca a strascico, per cui solo alla fine puoi raccogliere. Però, sai, questo dovete chiederlo ad uno che sappia davvero di didattica, dal momento che , a parte una occasione, io non ho mai insegnato. Da spettatore, ai tempi della scuola, mi hanno fatto vedere due film (!): VINCITORI E VINTI e GUERRA E PACE, e durante la proiezione facevamo solo casino! Poi, però, ero il tipo che saltava la scuola per andare a vedere TOUT VA BIEN (CREPA PADRONE, TUTTO VA BENE, un titolo allucinante…) di Godard. Bisogna trovare il sistema per presentare in modo meno paludato e accademico possibile la cultura, e questo dipende tanto dalla scuola come dall'iniziativa e dalla carica personale di chi lo fa, che ha bisogno di grandi motivazioni personali…".
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