Science + fiction

festival della fantascienza

9.na edizione

Trieste, 11 - 16 Novembre 2008

 

A cura di

Sarah Gherbitz, Stefano COCCIA

Collegamenti rapidi:

- Conferenze stampa dei film recensiti

- “Voyage Fantastique”

- Premi

- Speciale Harryhausen

TRES DÌAS

di F. Javier Gutiérrez

Spagna 2008, 93’

Il film che ha vinto il PREMIO ASTEROIDE in questa edizione di Science + Fiction possiede senz’altro un pregio, quello di lanciarsi nella rivisitazione di un tema classico della fantascienza cinematografica, affrontato però da una angolazione atipica e sottilmente spiazzante. La molla che in TRES DÌAS accende il racconto corrisponde all’annuncio di una imminente catastrofe: radio e televisioni di tutto il mondo, dopo che le principali autorità politiche hanno taciuto per non creare panico tra la gente, cominciano a diffondere la notizia che la Terra sta per essere colpita da un meteorite di eccezionali dimensioni. I notiziari si affrettano ad aggiungere che una missione congiunta delle potenze mondiali, intenzionate come da copione ad intercettare il bolide nello spazio per disintegrarlo o deviarne almeno la traiettoria, ha miseramente fallito. Della serie: ormai non c’è più scampo! Già, perché il meteorite ha una circonferenza tale da rendere pressoché scontata, secondo i calcoli degli scienziati, l’estinzione della vita umana sul pianeta Terra. Il panico e la disperazione a lungo rimandati cominciano così a far breccia nella popolazione.
La premessa iniziale trova riscontro, a ben vedere, in una pletora di pellicole che nel corso di vari decenni hanno illustrato, con dovizia di effetti speciali e fantasiose soluzioni narrative, la possibilità che la Terra venga colpita da meteoriti o altri corpi celesti. Si va dall’iperbolico QUANDO I MONDI SI SCONTRANO diretto da Rudolph Maté nel 1951, divenuto giustamente un classico, a quel DEEP IMPACT (prodotto da Steven Spielberg nel 1998, per la regia di Mimi Leder) che del precedente riprendeva parecchi spunti, con una componente effettistica aggiornata all’era della computer grafica. Senza tralasciare, volendo, il caro vecchio METEOR realizzato da Ronald Neame nel 1979, con un cast stellare (termine quanto mai appropriato, visto il soggetto) di cui facevano parte Sean Connery, Henry Fonda, Martin Landau e Natalie Wood; ad ulteriore testimonianza di come il “disaster movie” calamitasse attenzioni e risorse produttive di tutto rispetto, nei turbolenti anni ’70.
Ecco, a dispetto di quanto detto finora su questo filone della science fiction improntato a drammi collettivi e spettacolarità, la pellicola dello spagnolo F. Javier Gutierrez prende tutta un’altra direzione. Dopo aver introdotto a mo’ di cornice le coordinate tipiche del genere, TRES DÌAS isola un microcosmo, la cittadina iberica di Laguna, raccontando le ultime 72 ore dell’umanità attraverso un punto di vista indubbiamente parziale: le reazioni all’interno della famiglia di Ale, chiamata a confrontarsi non solo col clima di angoscia collettiva, ma anche con l’inaspettato ritorno di un pericoloso criminale evaso di prigione approfittando della confusione generale, come tanti altri; il soggetto in questione, Lucio, era uno spietato serial killer, consegnato alla polizia anche grazie al coraggio dimostrato dal fratello di Ale, i cui famigliari debbono ora guardarsi da una crudele vendetta. È un po’ come se si scavasse nel “non detto” del genere di riferimento, mettendo in evidenza reazioni più o meno malate a un disastro di proporzioni cosmiche, tratteggiando la psicologia di chi sa che la fine è inevitabile da una prospettiva inusuale, distorta; ed è comunque una prospettiva connotata dall’approccio sanguigno e realistico alla messa in scena, che trae slancio dai colori caldi e dalle stradine polverose della Spagna meridionale. Astraendosi progressivamente dalla quotidianità di fondo delle prime scene, il film di F. Javier Gutierrez mostra quanto il cinema di genere spagnolo sia ancora in grado di sorprendere, mescolando nel caso specifico le convenzioni del thriller, del racconto fantascientifico e persino del western, qualora ci si soffermi sulle modalità del ritorno di Lucio, lo “straniero misterioso” che il protagonista dovrà affrontare nell’ormai ineluttabile duello. In questo processo di ibridazione dei generi si avverte qualche piccola sconnessione, ma nell’insieme la pellicola regge e regala momenti forti, sia dal punto di vista dell’approfondimento psicologico che relativamente alla costruzione della suspance.
E ad ogni modo l’attribuzione del PREMIO ASTEROIDE risulta difficile da contestare, dato che l’arrivo di un meteorite è già previsto nel film. Detto questo ci si può anche congedare, lasciando il lettore alle prese con la profondità di tale pensiero.
(SC)

27/30

NIGHTMARE DETECTIVE 2

(AKUMU TANTEI 2)

di Tsukamoto Shinya

Giappone 2008, 90’

C’era grande attesa per il ritorno dietro la macchina da presa del grande Tsukamoto Shinya, che è ora impegnato in un nuovo progetto (THE BULLET MAN), ma che prima ha voluto regalare un seguito alle allucinanti avventure del suo investigatore onirico. Rispetto al primo, folgorante NIGHTMARE DETECTIVE, il sequel presenta una novità da tenere nella giusta considerazione: la sceneggiatura di NIGHTMARE DETECTIVE 2 non è più opera del solo Tsukamoto, che per l’occasione si è appoggiato a quel Kuroki Hisakatsu, già apparso come attore in BULLET BALLET.
Fatta questa precisazione, c’è da dire che pur non raggiungendo i picchi di terrore e angoscia del capostipite, NIGHTMARE DETECTIVE 2 conserva le atmosfere da incubo metropolitano che ci avevano profondamente segnato nel precedente episodio, riallacciandosi a quelle zone oscure dell’inconscio che in parte divergono. In entrambi i casi le esperienze vissute in sogno hanno conseguenze concrete e terribili sul piano della realtà. Ma in NIGHTMARE DETECTIVE la catena di morti orrende traeva origine da una latente pulsione auto-distruttiva, presente nella psiche dei soggetti coinvolti. Mentre NIGHTMARE DETECTIVE 2 pone al centro la questione del rimorso, affrontata attraverso vari risvolti psicanalitici, e con indubbia asprezza. Il protagonista è come sempre l’indagatore dell’incubo (ci perdoni Dylan Dog, per l’espressione da noi presa in prestito) interpretato con fare perennemente angustiato e modi scontrosi da Matsuda Ryuhei, il bell’ombroso del cinema giapponese. Stavolta, però, il caso cui vorrebbe sottrarsi presenta immediate analogie col suo sconvolgente passato. La richiesta di aiuto da parte di una studentessa che, dopo essersi presa gioco delle paure di una compagna con serie turbe psichiche, viene da lei perseguitata in sogni sempre più terrificanti e reali, viene inizialmente respinta. Ma l’inquieto e inquietante investigatore è infine costretto a cedere, di fronte alle pressioni della ragazza, anche perché l’episodio ha risvegliato in lui il ricordo opprimente della madre, una giovane schizofrenica che lui e il padre non avevano saputo proteggere dal proprio istinto suicida (un argomento, questo, che ritorna con forza dal precedente capitolo). Tra la spettrale figura della madre e la ragazza che ossessiona le compagne di classe vi è un collegamento così forte, da far scattare quel transfert psicologico che scuote lo stralunato detective dal suo torpore, spingendolo ad affrontare di nuovo le proprie paure e quelle di chi gli si trova vicino.
L’immaginazione malata di Tsukamoto Shinya non brilla forse come in passato, esprimendosi a singhiozzo nelle pur spaventose sequenze oniriche. Più in particolare, gli inseguimenti montati con stile iper-cinetico e gli effetti sonori disturbanti del primo NIGHTMARE DETECTIVE lasciano qui il posto a visioni sì orribili, ma non altrettanto destabilizzanti. Questo leggero calo di ispirazione, compensato a livello visivo da qualche valida intuizione, non inficia però una struttura narrativa ugualmente densa e satura di angosce profonde, autentiche, che ancora una volta si annidano nelle fredde e impenetrabili geometrie della metropoli giapponese, trovando nell’ambiente urbano la cornice ideale per creare turbamento.
(SC)

27/30

CHEMICAL WEDDING

di Julian Doyle

Regno Unito 2008, 106’

Collegamenti rapidi:

Conferenza stampa

Rosse naturali, o, come più spesso avviene, per scelta, non possiamo non uscire profondamente turbate dalla visione di questo CHEMICAL WEDDING, pellicola ispirata alla misteriosa quanto inquietante leggenda creata intorno alla figura di Aleister Crowley, peggio conosciuto come “l’uomo più cattivo del mondo”. Occultista, mistico, poeta, artista e critico della società, Crowley è stato per molti anni l’idolo di Bruce Dickinson, frontman degli Iron Maiden qui nella veste di sceneggiatore: il titolo inizialmente previsto (THE NUMBER OF THE BEAST) riprendeva del resto quello del sesto album da solista di Dickinson, concept oscuro e cupo sulla vita e sull’arte del pittore inglese William Blake. Nella storia, scritta dallo stesso Dickinson, Crowley diventa il punto di partenza per una thriller-comedy di ambientazione universitaria, con la Cambridge University a fare da cornice. Lia, studentessa dalla rossa chioma, è alla ricerca di uno scoop per il giornale della scuola quando viene a sapere di una riunione interessante: un incontro scientifico per portare a Cambridge l’ultima creazione del California Institute of Technology, una tuta da realtà virtuale il cui utilizzo avrà una serie di effetti collaterali, alcuni dei quali di assoluto rilievo; riporterà infatti tra i comuni mortali l’occultista più amato e temuto nel vispo ambiente accademico della cittadina inglese, con le conseguenze che è facile prevedere: morti misteriose, orge sfrenate, portali destinati ad aprirsi su dimensioni parallele alla nostra, malvagità assortite. Ma affinché il rito sia completo e la reincarnazione di Crowley acquisti carattere definitivo, occorrerebbe il sacrificio di una fanciulla dai capelli rossi, per cui il tentativo di salvare Lia da una brutta fine coinvolgerà chi la ama al pari di chi si preoccupa per il destino del mondo, senz’altro minacciato dal riapparire di una così sinistra figura. Tra un paradosso spazio-temporale e l’altro la faccenda sembrerebbe destinata a risolversi, ma il dubbio permane.

Il vulcanico Julian Doyle, spinto da una sincera passione per l’argomento, si è impegnato al massimo per sviluppare il soggetto in maniera avvincente e godibile, riuscendoci solo in parte. L’impressione è che ci sia troppa carne al fuoco, con un sub-plot fantascientifico (l’esperimento relativo alla realtà virtuale) che si riallaccia un po’ artificiosamente al côté esoterico dominante, anche se determinati spunti si fanno apprezzare. Certo, non ci si avvicina neanche un po’ all’eleganza formale e alla ricchezza iconografica di LESSON FAUST (1994), ambientato in una Praga veramente magica da Jan Svankmajer, eppure lo sguardo esperto di Doyle riesce nei momenti migliori a guidare lo spettatore in un universo di simboli alchemici, cerimoniali della Massoneria, ed altre passioni effettivamente care ad Aleister Crowley (il gioco degli scacchi, ad esempio), facendo sì che alla cura dei dettagli e alle intuizioni scenografiche si attribuisca qui un ruolo fondamentale. CHEMICAL WEDDING, film votato per natura all’eccesso, perde quota quando si prende troppo sul serio, mentre l’autore dimostra di saper intrattenere il pubblico calcando la mano sul grottesco e tirando fuori il potenziale umoristico di situazioni già al limite. Le ironie rivolte al match elettorale tra George W. Bush e Al Gore, soggetto anch’esso a strani flussi temporali derivanti dal ritorno di Crowley, sono un esempio di come Julian Doyle dia il meglio di sé, quando l’irriverenza e i tempi comici affinati durante la lunga permanenza con Terry Gilliam e i Monty Python fanno breccia nel racconto.(SG)

25/30

TEARS FOR SALE

(ĈARLSTON ZA OGNJENKU)

di Uroš Stojanovic

Serbia 2008, 86’

Quello di Uroš Stojanovic ci è stato presentato come il film più costoso realizzato fino ad oggi in Serbia. Il dato, di per sé rilevante, assume sfumature più pregnanti se si pensa alle tematiche esplorate, con la visionarietà e il sofferto lirismo tipici delle cinematografie balcaniche, in TEARS FOR SALE. In primo piano la guerra. Ed il modo in cui ci si accosta alle lotte che per secoli hanno insanguinato i Balcani fa pensare subito a un fantasma da esorcizzare, a un elemento la cui presenza nell’immaginario collettivo è fortissima, tanto da giustificare una mega-produzione in grado di divertire e suscitare commozione al tempo stesso. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, considerando quanto le rappresentazioni fantastiche e il taglio ironico del film di Stojanovic siano debitori del miglior Kusturica, quello di UNDERGROUND, per intenderci. Ma per quanto TEARS FOR SALE possa essere opera di un epigono, impegnato per giunta nella realizzazione del suo primo lungometraggio, la genuinità di storia e personaggi arriva dritta al cuore.
L’azione si svolge negli anni ’20 del secolo scorso, in una Serbia sconquassata dalla Prima Guerra Mondiale. Sin dall’inizio viene introdotto un antecedente mitico, giacché l’immaginario villaggio di Pokrp, epicentro del racconto, sorge proprio sulle rive del lago formatosi dalle lacrime di una donna, che in un’altra epoca piangeva soldati morti in battaglia. Destino vuole che le sue discendenti, due bellissime sorelle i cui nomi sono rispettivamente Ognjenka e Boginja, si guadagnino da vivere intonando prefiche ai funerali, sebbene i tragici avvenimenti di quegli anni abbiano tolto loro gran parte della materia prima: quasi tutti gli uomini, infatti, non sono più tornati dal fronte. Uno dei pochi sopravvissuti, per giunta, aveva pensato bene di minare quel vigneto che è anche l’unica fonte di sostentamento dello sperduto paese, per difenderlo da chissà quali nemici. Col risultato di saltarci in aria lui per primo, costringendo così le donne rimaste a immolarsi una alla volta, previa estrazione del bastoncino più corto, per tentare di riportare al villaggio il raccolto. Ma quando Ognjenka e Boginja verranno costrette a partire per riportare indietro qualche uomo, dopo aver causato involontariamente la definitiva sparizione dei maschi dal villaggio, un vortice di incontri e cambiamenti investirà le loro vite, a ridosso di un surreale road movie con sullo sfondo il miraggio di una Belgrado precocemente mitizzata.
Avvalendosi in modo intelligente e creativo degli effetti in digitale, Uroš Stojanovic sa rapportarsi a questa fiaba cupa, ma scoppiettante di vitalità, con una inventiva che dà luogo a scene mirabolanti: su tutte la sarabanda che si scatena quando mariti e fratelli scomparsi si manifestano alle donne del villaggio, in una allucinazione collettiva dovuta all’abuso della temibile grappa del ragno. In simili frangenti l’ombra di Kusturica sembra stendersi con decisione sulla pellicola. Allo stesso modo è facile osservare come anche in TEARS FOR SALE la musica abbia un ruolo determinante, nel costruire l’atmosfera giusta. Qui il merito è addirittura di un compositore nipponico, Umebayashi Shigeru, già apprezzato in numerosi film tra cui TOKAREFU e ÔTE di Sakamoto Junji, IN THE MOOD FOR LOVE di Wong Kar-wai e FEARLESS di Ronny Yu. Piccola nota a margine: tra gli elementi di richiamo della pellicola non si può dimenticare la felice scelta delle protagoniste, con la bellezza esplosiva della bruna Katarina Radivojević in grande evidenza.
(SC)

27/30

DARK FLOORS : THE LORDI MOTION PICTURE

di Pete Riski

Finlandia/Islanda 2008, 87’

DARK FLOORS è un horror che non nasconde affatto la propria impronta derivativa (un limite, senza alcun dubbio), ma che grazie a una regia incalzante e curata riesce a proiettare lo spettatore in una dimensione oscura, la cui coerenza di fondo testimonia ulteriormente i progressi compiuti in Finlandia dal cinema di genere. A motivare la nostra osservazione non vi è soltanto la giovane età del regista Pete Riski, classe ’74, ma vi è anche il sospetto che altri della sua generazione stiano agendo in direzione di uno svecchiamento delle tematiche e delle modalità produttive, all’interno di una cinematografia sempre molto vitale. Il sospetto diviene certezza nel caso di Anti-Jussi Annila, autore a suo volta di due pellicole che rischiano di diventare autentici cult, in virtù dell’originalità di racconto e messa in scena: JADE WARRIOR e SAUNA. Nel caso di JADE WARRIOR il nostro AJ Annila, di tre anni più giovane del collega Riski, ha dato vita a un esperimento creativo di tutto rispetto, innestando scene d'azione mutuate dal wuxiapian hongkongese in un contesto ispirato al tradizionale poema epico, il Kalevala. SAUNA scava invece nel passato della Finlandia retrodatando l'azione alla fine del sedicesimo secolo, lungo il confine tra il paese scandinavo e la Russia, così da collocare una storia di maledizioni e vendette soprannaturali vagamente ispirata ai maestri dell'horror orientale (in particolare il Nakata Hideo di RINGU e DARK WATER) in un contesto storico sostanzialmente inedito, caratterizzato dalle annose dispute territoriali tra lo Zar e il Re di Svezia.
Tornando al film di Pete Riski, il cui titolo completo è DARK FLOORS : THE LORDI MOTION PICTURE, va appunto specificato che il soggetto nasce un’idea alla quale hanno lavorato insieme il regista, lo sceneggiatore Pekka Lehtosaari, e il leader dei Lordi, rock band finnica che va per la maggiore. I Lordi, che a quanto pare condividono con i Kiss il gusto per un abbigliamento esagerato e pittoresco, fanno a turno la loro comparsata nel film contribuendo a quell’estetica metal che non dispiacerebbe certo a Rob Zombie. Ma sono svariati gli elementi che confluiscono nel film, dalle entità che infestano l’ospedale in cui si trovano i protagonisti, a metà strada tra le sinistre apparizioni degli horror orientali e quelle generalmente più prosaiche dei corrispettivi americani, fino alla deambulazione in location diroccate e fatiscenti che può ricordare il cinema di Balagueró e di altri cineasti iberici. La storia, come accennavamo poc’anzi, si svolge nell’ospedale dove il protagonista ha portato la figlia, una bambina artistica, per le cure del caso. Ma dopo un inspiegabile fenomeno rilevato nell’ascensore la bambina attira l’attenzione di orrende creature, che prendono di mira lei e il gruppo di persone che le si trova accanto. Con l’intero ospedale ormai proiettato in una dimensione spazio-temporale traboccante di paure e pericoli, inizia la loro fuga disperata verso una salvezza sempre più difficile.
Nella descrizione di un ambiente maledetto e tagliato fuori dal mondo si avvertono persino, a livello visivo, suggestioni ricollegabili all’albergo dei suicidi rappresentato in 1408, il film con John Cusack ispirato al racconto di Stephen King. Del resto abbiamo già fatto presente che non è l’originalità il tratto peculiare di DARK FLOORS, quanto piuttosto la capacità di descrivere il panico dei protagonisti dosando in maniera opportuna effetti in digitale, location di sicuro effetto come quelle ospedaliere, ed altri trucchi del mestiere qui usati in scioltezza.
(SC)

26/30

20th CENTURY BOYS

(20-SEIKI SHÔNEN)

di Yukihiko Tsutsumi

Giappone 2008, 142’

To be continued. Pare che quello diretto da Yukihiko Tsutsumi sia solo il primo, tra gli adattamenti cinematografici del manga di Urasawa Naoki previsti in Giappone, dove l’autore beneficia da anni di un seguito enorme. Il fumettista asiatico, che ama le trame particolarmente elaborate e complesse, dopo aver lavorato nel periodo tra il 1999 e il 2006 a 20th CENTURY BOYS ha già sdoganato la seconda serie, 21th CENTURY BOYS, ed è quindi facile prevedere che le avventure di Kenji e compagni riprenderanno presto la via del grande schermo, un’eventualità a noi gradita, che trova poi conferma nel finale aperto e nella didascalia con cui termina questo primo, emozionante appuntamento.
Nonostante la durata ragguardevole, i centoquarantadue minuti di 20th CENTURY BOYS sembrano volare in un lampo, inscatolati dentro una struttura a flashback che crea grande curiosità riguardo al destino dei singoli personaggi. L’azione ruota attorno ai ricordi d’infanzia del gruppetto di ex compagni di scuola capeggiato un tempo da Kenji, che da bambino ebbe l’idea di mettere a punto, per gioco, un “Libro delle Profezie” in cui loro tentavano di salvare il Giappone da spaventose minacce. Ma c’è qualcuno che gravitava intorno al gruppo e che gli altri faticano ora a identificare, che ha voluto prendere il gioco troppo sul serio, trasformando quell’incubo in realtà: con diabolico ingegno il misterioso individuo ha fondato una setta senza scrupoli che adora il capo come un dio e organizza attentati terrificanti in tutto il Giappone, riuscendo inoltre a far ricadere la colpa su Kenji e i suoi amici, presto additati come pericolosi terroristi. Lo scontro più feroce, ma ovviamente non definitivo, avverrà all’alba del ventunesimo secolo, con l’apparire di un gigantesco e letale robot in una Tokio pronta, secondo la miglior tradizione del cinema nipponico, per essere rasa al suolo.
La trama labirintica di 20th CENTURY BOYS è per Yukihiko Tsutsumi il valido pretesto di una ricognizione della società giapponese che, non potendo certo infrangere le linee di confine sottese alla matrice fumettistica, riesce comunque a inglobare forti motivi di inquietudine. Non ultimo il pericolo rappresentato da gruppi inclini al fanatismo, col ricordo della metropolitana di Tokio attaccata nel 1995 con il temibile gas sarin da esponenti della setta Aum ShinRykio (“della suprema verità”, stando al delirante conio del leader Asahara Shoko), ancora presente nell’immaginario collettivo. Una regia solida, per niente priva di slanci creativi, sa fondere in maniera ottimale gli elementi tipici della detection e scenette di alleggerimento che risultano anche piuttosto gustose, quando è di scena la strampalata famiglia di Kenji. In questo rincorrersi di istanze grottesche e momenti di puro amarcord, con l’infanzia dei protagonisti ben tratteggiata nei vivaci anni ’70, l’arrivo dell’imponente robottone in un sotto-finale davvero adrenalinico rappresenta la classica ciliegina sulla torta.
(SC)

28/30

LES MILLE MERVEILLES DE L’UNIVERS

di Jean Michel Roux

Francia 1997, 90’

Subito dopo la proiezione di LES MILLE MERVEILLES DE L’UNIVERS ci siamo fermati a chiacchierare un po’ con l’autore, Jean Michel Roux, chiedendogli tra l’altro in che modo avesse accalappiato due attrici di razza come Julie Delpy e Maria de Medeiros, all’epoca lanciatissime e non così inclini a interpretare pellicole di genere. Lui, oltre a ricordarci che l’attrice portoghese prima di incontrarlo era già apparsa nel tarantiniano PULP FICTION, ci ha rivelato che entrambe accettarono senza problemi, dopo aver letto il copione, perché divertite dai rispettivi ruoli; ed ha anche aggiunto, sorridendo in maniera ammiccante, che sono tanti gli attori abituati a parti serie che si divertono un mondo, quando viene chiesto loro di indossare qualche buffo costume e lanciarsi in progetti un po’ più leggeri, orientati magari verso il fantastico.
Ragionamento ineccepibile. Ed il divertimento riscontrato nel cast, di cui faceva parte anche Tcheky Karyo nei panni del tostissimo protagonista, il Professor Larsen, si è trasmesso facilmente a noi, come spettatori. LES MILLE MERVEILLES DE L’UNIVERS è una chicca degli anni ’90 che in Francia ha riscosso un discreto successo, considerando anche la produzione a budget non elevatissimo, mentre da noi ha avuto visibilità prossima allo zero, non essendoci stata una regolare distribuzione in sala. Davvero un peccato, perché il film con la sua irriverenza di fondo, le scenografie kitsch, l’estetica da atipico e picaresco B-movie, risulta assai godibile e sa compensare certe leggerezze a livello di scrittura. Il protagonista, lo ricordavamo poco fa, è un noto astrofisico di nome Larsen che si era trovato a captare per primo un messaggio in codice dallo spazio profondo, tentando poi di decifrarlo. Il caso in cui viene coinvolto qualche anno dopo ha qualcosa di ancora più incredibile: in seguito al comparire di misteriosi fenomeni elettromagnetici i 12.000 abitanti di Sepulveda, piccola città che funge da porto franco per contrabbandieri e rinnegati di vario genere, sono svaniti nel nulla. Si sospetta che siano stati rapiti o addirittura eliminati da una impalpabile presenza aliena. Al Professor Larsen viene chiesto di guidare una commissione composta da militari e civili altamente qualificati nella zona contaminata, già posta sotto quarantena. L’esito della spedizione appare compromesso più di una volta, tant’è che è la Presidentessa in persona (una fantastica Maria de Medeiros con i poteri di una medium e coraggio da vendere) ad intervenire in soccorso del gruppo. Ma neanche lei può immaginare quanto sia torbido il mistero che sono chiamati a svelare.
Nel suo piccolo il film di Jean Michel Roux ha l’andamento scanzonato, l’aura cinica, la volontà di collocare l’azione in ambienti sordidi, ostili, per nulla ospitali, che è facile riscontrare nel cinema di Carpenter; ed è questo un possibile retaggio, da accomunare al gusto per l’azione di molte pellicole anni ’70, che emerge soprattutto nell’esplorazione della zona contaminata, condotta a livello registico con buon senso del ritmo e valorizzando il più possibile le location. Il racconto, in compenso, non sempre brilla per originalità, ma ci ha fatto comunque piacere recuperare questa avvincente pellicola, selezionata insieme a quelle di autori più noti a livello internazionale (IL PATTO DEI LUPI di Christophe Gans, LA CITTÀ DEI BAMBINI PERDUTI di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, L’ARTE DEL SOGNO di Michel Gondry, eccetera) per la retrospettiva “Voyage Fantastique”: un affascinante viaggio nei territori in continua espansione del cinema di genere prodotto, con utilizzo sempre più maturo del digitale e delle nuove tecnologie, in una Francia anche qui all’avanguardia.
(SC)

26/30

ARTEFACTS

di Gilles Daoust e Emmanuel Jespers

Belgio 2007, 75’

Girato in soli 12 giorni, il film dei belgi Daoust e Jespers presenta qualche elemento di fascino non disprezzabile, affogato però nei contorni fin troppo spartani di una realizzazione che, relativamente a certi passaggi chiave della sceneggiatura, poteva essere studiata con maggior attenzione. Ma, prima di parlare del film, può essere utile spendere due parole su uno dei registi, Gilles Daoust, che ha trascorsi biografici quantomeno particolari: il film-maker belga, stando a ciò che ci è stato riferito, sarebbe figlio del patron di una delle agenzie di lavoro interinale più gettonate del paese, la Daoust Interim, soltanto che a un certo punto avrebbe scelto di staccarsi dal modello paterno, mettendo in primo piano la propria passione per il cinema. Con esiti anche piuttosto felici, considerando che il suo debutto alla regia datato 2004, LAST NIGHT ON EARTH, è stato accolto con giudizi lusinghieri in svariati festival.
Tornando ad ARTEFACTS, diretto come dicevamo con la collaborazione di Emmanuele Jespers, l’inizio è senz’altro promettente. In un clima fortemente ansiogeno la vicenda della giovane Kate Warner, che si è appena lasciata col suo ragazzo, si tinge subito di sfumate kafkiane, allorché le persone a lei più vicine cominciano a sparire in modo violento, eliminate dai loro sosia; sono questi figure gelide e dallo sguardo imperscrutabile, che amano palesarsi all’improvviso, inseguendo le vittime nelle proprie abitazioni o in luoghi isolati. Ad annunciarli un sinistro rumore meccanico, ma il più delle volte quando l’interessato se ne accorge è già troppo tardi. Le cose non vanno così per Kate, che si salva una prima volta ed ha pure il tempo di mettere in guardia il suo ex ragazzo, Mike, dal pericolo che incombe sulla coppia e sui pochi amici sopravvissuti. L’inseguimento diviene ancora più feroce, mentre un misterioso personaggio riesce a contattare i due ragazzi, per avvisarli che quanto sta accadendo a loro e ad altri nel mondo è la conseguenza di un folle esperimento, con i sosia attratti da un marchingegno elettronico installato di nascosto nel loro corpo, un artefatto di cui farebbero bene a liberarsi il prima possibile.
Ricavato da suggestioni che mostrano qualche debito nei confronti delle paranoie letterarie e (personali) di Philip K. Dick, ARTEFACTS è una claustrofobica variazione sul tema del doppio che risulta avvincente nella prima parte, complice una appropriata scelta delle location, per poi perdersi quando arrivano, incomplete, le spiegazioni. Il background dell’esperimento appare fin troppo nebuloso, l’apparizione del misterioso alleato non genera l’inquietudine che dovrebbe, lo stesso epilogo va incontro, nel caso della protagonista, a soluzioni affrettate. Magari questo incubo metropolitano, girato in tempi strettissimi, con altre risorse a disposizione e con qualche intervento sugli elementi più vaghi dello script avrebbe acquisito uno spessore diverso. Così si limita a suscitare un’impressione di incompletezza.
(SC)

20/30

TERRA NOVA

(NOVAYA ZEMLYA)

di Alexander Melnik

Russia 2008, 130’

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Conferenza stampa

La proiezione di TERRA NOVA, pellicola russa di notevole impatto, sta per cominciare, quand’ecco che due incauti spettatori si accingono a prendere posto, carichi di pop corn. La persona che in quel momento sta traducendo gli interventi di regista e produttore, convocati di fronte allo schermo per il saluto d’ordinanza al pubblico di Trieste, sembra assistere divertita alla scenetta, ma quell’espressione stampata sul volto va al di là del puro divertimento, ricorda più che altro un ghigno satanico. Ed infatti la traduttrice offre subito un consiglio ai due ignari divoratori di pop corn, invitandoli a consumare quel loro acquisto, tradizionalmente più salato per le tasche che per lo stesso palato, nei minuti iniziali del film, perché dopo potrebbe risultare assai indigesto. Non solo. A questa battuta scherzosa ne segue subito un’altra, che andrebbe però verificata statistiche alla mano: pare che in Russia gli esercenti si siano lamentati per il consistente calo delle vendite di cibo e bevande, proprio nelle sale dove viene proiettato TERRA NOVA. Che sia anche questo un effetto del passaparola?
Non sappiamo se sia il caso di approfondire, ad ogni modo il film diretto da Alexander Melnik è una vera bomba, in quanto alla violenza fisica e psicologica di cui si fa carico, una violenza che però non risulta mai particolarmente compiaciuta o fine a se stessa. TERRA NOVA è un “prison movie” atipico, estremamente duro, che ricolloca in uno scenario fantapolitico dell’immediato futuro tensioni di svariata provenienza; molte di queste sono però riconducibili all’inesauribile filone dell’antiutopia, ben rappresentato anche nella cultura russa, ed al doloroso retaggio dei gulag di staliniana memoria. Da “Arcipelago Gulag” all’arcipelago delle Svalbard, verrebbe da dire, considerando che proprio in quelle terre inospitali, perse nel Mar Glaciale Artico, ha avuto luogo una parte delle riprese. In un simile scenario di desolazione si snoda la fosca avventura di alcuni detenuti, selezionati come cavie di un terrificante esperimento sociologico che, a livello cinematografico, può ricordare DAS EXPERIMENT di Oliver Hirschbiegel, ma con dosi di cinismo e cattiveria finanche maggiori. Siamo nell’anno 2013. La pena di morte è stata ovunque abolita, ma le carceri traboccano di prigionieri e perciò le potenze mondiali hanno trovato, di comune accordo, un’alternativa da mettere alla prova il prima possibile: liberare un certo numero di criminali, a partire da quelli condannati all’ergastolo, in lande isolate dal resto del mondo, assicurando loro lo statuto di coloni e quei rifornimenti, in realtà assai limitati, necessari a sopravvivere in condizioni così estreme. Scortato da militari russi e da qualche osservatore dell’ONU, il primo carico di detenuti sbarca in un’isola remota della regione artica, ma la situazione è destinata ben presto a degenerare. Alcuni uomini cominciano a scannarsi già sulle navi che li trasportano, gli altri si dividono in fazioni dopo lo sbarco, creando nuove gerarchie, ammazzando i più deboli e arrivando persino a mangiarsi tra loro, allorché le provviste scarseggeranno. Eppure, qualcuno riuscirà a tenere vivo un briciolo di dignità e di coraggio anche in questa società caricaturale.
Quella forgiata nel ghiaccio e nel sangue da Alexander Melnik è una parabola molto amara, che pone l’accento sulla difficoltà di una convivenza pacifica agli albori del ventunesimo secolo, lanciando al contempo strali velenosi contro l’ipocrisia e la sostanziale impotenza delle istituzioni preposte a vigilare sugli equilibri mondiali: se gran parte dei criminali deportati sull’isola ci mette poco a regredire allo stadio tribale, la brutalità delle soluzioni adottate dai funzionari che vigilano sull’esperimento fa a gara, in determinati frangenti, col terrorismo di stato rappresentato iperbolicamente da Fukasaku Kinji in BATTLE ROYAL. Le allegorie di natura politica presenti nello script traggono poi veridicità dall’asprezza della messa in scena, ed anche se il cineasta russo ha come produttore un passato di tutto rispetto (la “Andreevki Flag”, che gestisce in condominio col figlio Anton, ha all’attivo la coproduzione dell’acclamato MONGOL di Sergei Bodrov), la consapevolezza che TERRA NOVA rappresenti comunque un lungometraggio d’esordio lascia di stucco, in virtù della tensione interna espressa dalle sequenze più crude. Tra queste spicca senz’altro l’iniziale battaglia in spiaggia, con alcuni detenuti ancora ammanettati che già lottano per la sopravvivenza. Accennavamo all’elemento politico. La dice lunga il fatto che il gruppo di prigionieri ceceni e quello russo tentino sin dall’inizio di annientarsi a vicenda, e che al prevalere di quest’ultimo i russi comincino a farsi fuori tra loro, scegliendosi come capo l’individuo più spietato del lotto; per ritrovare in seguito un minimo di solidarietà e compattezza, ma solo all’arrivo dei carcerati americani, non meno agguerriti dei loro predecessori. Nonostante la brutalità di fondo non mancano spazi di libertà, testimoniati dal vertiginoso lirismo dell’epilogo, confermati infine dalla deliziosa invenzione fotografica che accompagna lo scorrere dei titoli di coda. Melnik ha così dimostrato di saper trasfigurare gli umori del presente con nero disincanto, assicurando intensità a una pellicola che farà senz’altro perdere l’appetito ai consumatori di pop corn, lasciando in compenso qualche motivo di riflessione e di turbamento da non sottovalutare.
(SC)

29/30

DEATH RACE

di Paul W.S. Anderson

Stati Uniti 2007, 105’

Dopo averci salutato l’anno scorso sulle note arrabbiate di Death Proof, il Festival Science+Fiction ritorna con l’accoppiata motori/cattive ragazze, questa volta promossa in serata d’apertura. Jensen Aimes (Jason Statham) è un ex-campione della classe automobilistica Nascar caduto in disgrazia. Qualcuno lo ha incastrato, facendogli cadere addosso la colpa della morte di sua moglie. Incarcerato, ha un'unica speranza: accettare la proposta del direttore della prigione in cui è stato rinchiuso (Joan Allen) e correre in una competizione suicida. Le regole di questa gara sono solo tre: 1) non ci sono regole, 2) vince chi sopravvive, 3) chi vince esce di prigione. Il guaio è che Jensen non è l'unico a voler vincere: una serie di criminali, brutali e spietati, è disposta a rendergli la vita particolarmente dura. Come se non bastasse, scoprirà che gli organizzatori della macchinazione di cui è rimasto vittima, forse si celano proprio entro le mura del suo stesso carcere. Basato su Death Race 2000, classico del ’75 prodotto dal guru del cinema indipendente americano Roger Corman e diretto da Paul Bartel, DEATH RACE si presenta con una splendida fotografia e ricco di effetti speciali, con un paio di scene divertenti che sembrano buttate lì per caso - l’uccisione della moglie del protagonista in montaggio alternato sul soffritto di cipolla e lo ‘sbarco’ delle navigatrici - e dialoghi fin troppo impegnati per l’alto tasso di adrenalina: come se il regista Paul W.S. Anderson (RESIDENT EVIL, ALIEN VS. PREDATOR) avesse voluto imboccare troppe strade diverse in una volta sola, e la critica rivolta al sistema carcerario e alla disoccupazione ne esce un po’ appannata. Resta da segnalare la colonna sonora, firmata da Paul Haslinger, compositore austriaco di Linz trapiantato a Hollywood, ex componente dei Tangerine Dream.(SG)

26/30

THE ORPHANAGE

(EL ORFANATO)

di Juan Antonio Bayona
Messico/Spagna 2007, 105’

Collegamenti rapidi:

Conferenza stampa

Dalla Spagna un ghost-movie tinto di melò che ha segnato il record d’incassi con 25 milioni di euro e si è aggiudicato ben sette Premi Goya. La pellicola narra del ritorno di Laura (Belén Rueda) all’orfanotrofio dove è cresciuta, con il sogno di riaprirlo e farne un centro per bambini disabili. La misteriosa sparizione del figlio adottivo durante una festa innescherà una ricerca nel passato, sulle tracce di un bambino, annegato trent’anni prima in circostanze misteriose.
Prodotto dal messicano Guillermo del Toro (Il Labirinto del Fauno), EL ORFANATO segna l’esordio nel lungometraggio di Juan Antonio Bayona, trentaduenne regista catalano e va ad aggiungere così un prezioso tassello alla lunga lista del cinema horror spagnolo, a partire dall’affine The Others. Come in ogni fiaba che si rispetti - il riferimento qui è il "Peter Pan" di Sir James Matthew Barrie - la violenza e l’orrore quotidiani restano invisibili sullo schermo per lasciare spazio al mondo interiore della sua protagonista, interpretata dall’attrice Belén Rueda (MARE DENTRO) davvero convincente nel ruolo di madre ambigua, in alcuni momenti dolce e comprensiva, in altri già completamente ‘invasa’ dai propri fantasmi interiori.
(SG)

27/30

PUFFBALL

di Nicolas Roeg

Canada 2007, 120’

Prolifico di iniziative, Science + Fiction ha voluto omaggiare quest’anno il cineasta britannico Nicolas Roeg, di cui è stato proiettato un “evergreen” come DON’T LOOK NOW (1974), che all’epoca venne distribuito in Italia con l’ormai leggendario titolo A VENEZIA… UN DICEMBRE ROSSO SHOCKING. Se invece il più recente PUFFBALL, prodotto in Canada nel 2007, non dovesse approdare nelle sale italiane, la nostra meraviglia sarebbe ridotta al minimo, giacché la stessa ispirazione di Roeg sembra essersi parecchio ridimensionata.
Concepito con passo stanco, PUFFBALL tenta di approfondire il divario tra modernità e retaggi tradizionali, localizzando in una zona rurale della verde Irlanda la storia di invidie femminili e magia nera che ha per protagonista Lizzy, un’esperta di architettura e arredamento che proprio lì ha deciso di porre in atto alcuni progetti, all’ombra di una solo apparentemente stabile relazione amorosa. L’ambiente, però, è quanto mai restio ad accettare l’ingombrante presenza della coppia formata da lei e dal fidanzato Richard, sicché la situazione precipita proprio quando la giovane rimane incinta, destando la gelosia di una donna del villaggio, che ha già delle figlie ma vorrebbe ancora mettere al mondo un maschio.
Per vivacizzare un thriller psicologico come questo, giocato prevalentemente sul fascino ancestrale dei luoghi, Nicolas Roeg prova a compensare la staticità dell’intreccio con rocambolesche soluzioni di regia: esemplari, in tal senso, le inquadrature ginecologiche di penetrazioni e fecondazioni rappresentate “in sezione”, ricorrendo al digitale. Ma ciò che dovrebbe puntellare i risvolti di una sensualità torbida, estremizzando poi l’ossessione della maternità e della continuità famigliare presente in alcuni personaggi femminili, finisce soltanto per risultare pacchiano, mancando il bersaglio laddove si tratti di stemperare una noia dovuta anche alla lunghezza francamente eccessiva della pellicola.
(SC)

19/30

 

Science + fiction

festival della fantascienza

9.na edizione

Trieste, 11 - 16 Novembre 2008