STANLEY KWAN AL FICTION FESTIVAL
Il grande regista hong-konghese Stanley Kwan (CENTER STAGE, RED ROSE WHITE
ROSE, LAN YU), forse il più sottovalutato tra i nomi scoperti o riscoperti
nell’ ultimo decennio di estrema attenzione verso il cinema
Estremorientale, ha presentato la serie-Tv " Huo Yuna Jia" al Fiction
Festival, in veste di produttore.
Come altri autori la cui attività ha assunto connotazioni multiverse
dopo il passaggio alla Cina del 1997, anche Kwan ha parlato di un nuovo
orgoglio patriottico (“di noi cinesi…”, come testualmente affermato
in conferenza stampa), che è sembrato sincero e non dettato da esigenze in
qualche modo diplomatiche e in nessun modo coatto.
"Huo Yuna Jia" (con la splendida Zhou Muyin, presente a Roma, e il
protagonista Ekin Cheng) narra l’epopea di un eroe nazionale, già messa in
scena più di vent’anni fa dalla tv cinese e recentemente celebrata in
patria, per cui si tratta a tutti gli effetti di un poderoso remake
costruttore di identità e di autostima popolare, molto apprezzato
negli anni ’80, quando uscì la prima versione.
L’idea, un po’ come per lo ZATOICHI giapponese, è quella di mettere in atto
un’exploitation di alto livello, dove le arti marziali - si veda
chiaramente anche la recente trilogia di Zhang Yimou - incarnano la forza
d’urto potenziale, quasi il deterrente cultural-bellico di una nazione
in fase di grandiosa espansione economica che si presenta al mondo
occidentale.
Da noi interrogato sul suo prossimo lavoro televisivo (BRUCE, ispirato al
grande Lee, di cui la DNC ha ristampato in Dvd tutti i film arrivati
all’epoca in Italia), Kwan ha approfondito la questione del neo-patriottismo
cino-hong-konghese.
Kinematrix ha chiesto al regista come si spiega il ritorno d'interesse da
parte di Pechino, che trent’anni fa l’ostaggiò apertamente, verso un eroe
popolare, ma fortemente destabilizzante, dotato di alcune peculiarità ancora
adesso inattingibili da parte degli studios cinesi.
Kwan ha risposto articolando il discorso su più piani: da una parte ha
raccontato di un eroe più sfumato rispetto alla netta stilizzazione degli
anni ’70, più vicino a una realtà anche privata, poco evidente nei
testi e sottotesti di quel periodo (si veda THE BIG BOSS); dall’ altra ha
ribadito, in proiezione Olimpiadi di Pechino del 2008, il ruolo simbolico,
ma anche politico, delle arti marziali come specchio fedele di un
popolo-monstre in grado di dominare, innanzitutto economicamente, il mondo.
“Bruce Lee rappresenta la capacità della Cina di dimostrarsi superiore
attraverso l’uso delle arti marziali”.
(Assai graditi i complimenti dello stesso Kwan nei nostri confronti, per la
domanda che gli era stata appena posta).
Roma, 06 luglio 2007
Anthony La Paglia
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