27.mo torino
film festival
Torino, 13 / 21 novembre 2009
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di Marco GROSOLI
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In questa edizione, di A.
Ferrentino |
retrospettiva OSHIMA,
di
M. Grosoli |
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HAYAT VAR di Reha Erdem
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CALL ME IF YOU NEED ME di James Lee
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TORSO
di Yutaka Yamazaki
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LE ROI DE L’EVASION di Alain Guiraudie
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HAYAT VAR
di Reha Erdem
Turchia 2009, 121’
Festa mobile
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27/30 |
Tredicenne, Hayat vive nelle
acque del Bosforo vicino ad Istanbul. Vive in una dimessa catapecchia
insieme al padre (un po’ pescatore e un po’ puttaniere e trafficone con le
navi straniere che passano di lì) e al nonno, che benché moribondo e ormai
incapace di respirare, continua imperterrito a fumare di nascosto.
“Tu sei come me”, le dice il nonno. E un po’ è vero. E non solo perché, come
le dice lui, tutti e due fanno fatica a respirare. Ma soprattutto perché la
sospensione tra la vita e la morte del nonno, sospensione cui reagisce con
penose tendenze regressive (ovvero: non si stacca mai dalla sigaretta) è
parente stretta con la sospensione tra l’infanzia e l’età adulta di Hayat.
Tutto il film si regge su
questa oscillazione, così come Hayat oscilla tra la metropoli (in cui va a
scuola) e la capanna, e alcuni altri luoghi che ritornano ossessivamente,
come la casa della madre, separata e riaccompagnata con un poliziotto, o il
prato in cui si diverte a rincorrere e malmenare periodicamente un tacchino.
E tra una riva e l’altra di questa oscillazione, non ci sono mezzi termini.
O bianco o nero. Un attimo prima ruba la cioccolata in negozio, un attimo
dopo si ritrova sulle spalle il peso di una disastrata e monca famiglia. Un
attimo prima viene stuprata, e un attimo dopo si mette il dito in bocca come
una neonata. Tutto avviene di colpo, tutto avviene troppo in fretta: tutto
il film è un seguito di scene brevissime che sferrano il loro fendente in
medias res, spesso senza neanche lasciare il tempo alle parole di formarsi,
e passano ad altro. Hayat, travolta dall’età adulta, non può fare altro,
prima della risoluzione finale, di ondeggiare istericamente un po’ di qua e
un po’ di là dalla soglia.
Il film è pieno di quelle letterarissime simbologie che, sulla carta,
avrebbero anche potuto affossarlo (compreso un insopportabile pupazzo
meccanico che dovrebbe rappresentare le tendenze in extremis regressive
della protagonista). E invece non è così. Il film è pieno di quelle
ambizioni plastiche, pittoriche e figurative di tanto cinema turco, che
sulla carta avrebbero potuto renderlo un oggetto inerte, ricercato ma
stucchevole. E invece non è così. Non è così perché la macchina da presa di
Reha Erdem rifiuta l’effetto-dipinto, rifiuta le alchimie algide della
composizione dell’inquadratura. Non è che l’inquadratura non sia curata,
anzi, c’è un equilibrio visivo spesso impeccabile. Il fatto è che Reha Erdem
sta sempre molto vicino alle cose che vede: non se ne distanzia per farne un
quadro, ma le sistema figurativamente senza rinunciare alla prossimità. Il
risultato è sorprendentemente fresco, vitale: basti pensare alle moltissime
scene con la barca (del padre) in mezzo al mare, in cui si gioca il
contrasto, tutto plastico, di dimensioni con le enorme navi che si
avvicinano al porto. Oppure alle altrettanto frequenti riprese di Steadycam
a marcare stretto la protagonista da dietro, mentre cammina o corre.
Insomma: c’è una strana tensione polare tra l’imbalsamato e il dinamico,
così come tutto il film si dibatte tra l’interno della coscienza in cui la
protagonista non smette mai di rifugiarsi pavidamente “bloccando” il tempo,
e l’esterno di un mondo ripreso con vivida immediatezza, quasi selvaggia per
come afferra le sue luci e i suoi colori. È sempre per restituire questa
medesima tensione polare (tensione che salva il film dalle secche in cui
cadeva l’esordio “A Ay” del 1989, che giocava su corde molto simili) che
Reha Erdem utilizza il sonoro: i mugolii canticchiati di Hayat (che per il
resto è quasi muta) formano un pressoché ininterrotto tessuto vocale che
rimanda direttamente all’”interno” della coscienza, al suo caldo rifugio
regressivo, al mondo di solitudine della quasi-non-più-bambina. Un tessuto
vocale peraltro non di rado impastato da altri rumori usati con sfacciati
intenti simbolici: incongrui aerei che si sentono sfrecciare chissà dove,
uccellini che cinguettano in stereofonia a tutto volume, e altro.
Dentro e fuori, dentro e fuori, da bambina a donna a bambina a donna. Più
che di doppi e di opposizioni tematiche, è questione di elettricità, di
scariche improvvise e continue che tengono il film, un po’ a sorpresa, in
piedi, e non senza onore. |
CALL ME IF YOU NEED ME
di James Lee
Malesia 2009, 105’
Onde
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25/30 |
Non molto di nuovo sul piano
narrativo: un cuoco appena arrivato in città, e che sta da amici, viene
preso sotto l’ala di una gang di usurai. Entrerà nella banda e, obbligato
dalle circostanze e dall’inarrestabilità della sua ascesa, farà le scarpe
anche al cugino, che lo aveva fino ad allora accompagnato e amorevolmente
protetto ed educato.
Non molto di nuovo nemmeno sul piano formale: trattasi di un tipicissimo
prodotto della scena indipendente malese: Tan Chui Mui, Liew Sang Tat
eccetera. Cineasti che, con tutti i loro difetti e le loro autoindulgenze,
c’è da dire che sono molto compatti: si producono a vicenda, collaborano tra
loro, recitano l’uno per l’altro eccetera.
Insomma, anche qui, la formula di quel cinema è pienamente rispettata:
scienza del piano perlopiù fisso e tenuto lungamente e senza stacchi,
ricerca dell’inquadratura non tanto virtuosa visivamente quanto efficace
“economicamente”, cioè in termini di informazioni convogliate nel modo più
trasparente possibile e quanto più possibile “tutte insieme” col minor
sforzo, in modo da evitare i “tratti di pennello” registici che
sbilancerebbero il posato minimalismo dell’insieme. Funzionalità compositiva
rispetto ai personaggi, magari “condita” con minimi giochi scenografici,
rare e minime ricognizioni “mute” sui luoghi giusto quando serve
narrativamente (come quando un personaggio esplora un palazzo che avrà una
funzione chiave nello sviluppo degli eventi), qua e là scene parentetiche
tanto più cruciali quanto più “pesa” l’assenza dell’altrimenti onnipresente
protagonista che non vi compare. L’azione, insomma, costituita soprattutto
da dialoghi, scorre senza fretta, ma scorre.
Il punto è in che modo scorre. Ho Yuhang, nel suo bellissimo
Rain Dogs a Venezia nel 2006
(la cui trama peraltro ricorda in modo quantomeno sospetto questo film)
aveva trovato forse la quadratura del cerchio, la pietra filosofale capace
di tramutare la pausa, la temporanea inazione, l’impotenza ad agire, in
emozione pura. James Lee (che è fra l’altro assai meno dotato
figurativamente di Ho, e più monotono) non la trova, anzi arranca parecchio
risucchiato nell’ultraconvenzionalità di una storia di cui vorrebbe farci
sentire un pathos che non c’è. E per questo arranca, sbuffa lungo le
volute di una trama che non riesce a non essere meccanica, anello dopo
anello. Spinge senza troppa convinzione i suoi attori sopra le righe, prova
ad avvicinarceli, ma non sono che scialbi cliché. |
TORSO
di Yutaka Yamazaki
Giappone 2009, 104’
Concorso
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24/30 |
Due sorelle, una giovane e
ingenua (si lascia mettere incinta da un ragazzo che se ne disinteressa
subito dopo) e una meno giovane, disillusa e immersa nella propria
solitudine. A dividerle è soprattutto un busto maschile gonfiabile, grazie
al quale la sorella meno giovane allevia alla meno peggio la propria
solitudine.
Yamazaki è stato direttore della fotografia per, fra gli altri, il grande
Hirokazu Koreeda. Il suo debutto alla regia (alla non più tenera età di 69
anni) è, quantomeno, impacciato. Gran lavoro di camera a mano, addosso ai
personaggi, di cui cerca di captare le vibrazioni espresse da un pesante
gioco allusivo di gesti, e soprattutto di uso degli oggetti. In teoria,
mondi interi dovrebbero dischiudersi da come un personaggio apre uno yogurt
o giocherella con un nastro per capelli. Yamazaki abusa un po’ di questo
espediente, e alla lunga gli esiti diventano controproducenti, forzati.
Come forzata ed esile è l’idea che si vorrebbe portante, quella del busto
gonfiabile come correlativo oggettivo della solitudine della protagonista (e
come mezzo, nel finale, di un inaspettato dialogo indiretto tra le due
sorelle). È nulla più che zavorra psicologica, ma il sospetto purtroppo è
che tutto il film lo sia, prigioniero di caratterizzazioni stanche e senza
inventiva. |
LE ROI DE L’EVASION
di Alain Guiraudie
Francia 2009, 97’
Concorso
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29/30 |
Armand è un rappresentante
quarantenne di trattori, ben piantato (in tutti i sensi) nella provincia
francese. È gay, ma a un certo punto si butta in una fuga d’amore insieme a
una ragazzina sedicenne che per caso ha salvato da dei teppistelli. Solo che
lui fugge, fugge sempre, fisiologicamente, e in maniera pressoché
inversamente proporzionale al suo aspetto così, come dire, “stanziale”. E
quindi la fuga non durerà, meno per l’immane dispiegamento di forze di
polizia alle loro calcagna che perché Armand è fieramente incostante.
Armand, sistemato con una donna tra quattro mura non ci si vede proprio:
ritornerà dunque con spensieratezza a scopacchiare in giro.
Alain Guiraudie è senz’altro tra i registi più interessanti della Francia di
oggi. Al terzo lungometraggio, mantiene intatto il suo tocco di
inconfondibile “surrealtà rurale” (del Massiccio Centrale, specificamente),
anche alle prese con un progetto che sembrerebbe avvicinarlo al mainstream,
con una trama riconoscibile, attori famosi (Hafsia Herzi, già vista in
Le grain et la moulet di
Kechiche) eccetera. L’understatement totale, quasi scandinavo della
recitazione degli attori e della costruzione dell’inquadratura (pulitissima,
scarna, nitida, quasi ingessata; più che da sfondo, serve da pretesto per lo
stagliarsi rigido della figura umana) costruisce un’atmosfera stranissima,
spiazzante. Un’atmosfera che con la sua omogeneità pressoché onirica
permette che si passi in un lampo ma senza strappi dal più ordinario degli
scenari (i luoghi e le facce più terra-terra che si possano immaginare) a
impagabili invenzioni surreali (una radice afrodisiaca in mezzo ai boschi,
un commissario di polizia comicamente onnipresente). Guiraudie gira in modo
tale che, dietro l’angolo, c’è sempre una fuga, una gag, una deviazione, ma
tutto poi rimane uguale, tutto rimane fisso, statico (vedi le corse in bici,
e a piedi, con l’inquadratura che si muove in modo tale da far sembrare
immobile il movimento di quella bici o di quel corpo). Ma poi c’è ancora
un’altra fuga… e così via.
Insomma: Guiraudie salta, continuamente, dal registro “normale” a quello
dell’inverosimiglianza, e/o di un umorismo misuratissimo, studiatissimo, ma
imprendibilmente strampalato e impassibile. Non si produce nessun “fragore”,
nessuna chiassosità dell’effetto comico. Guiraudie salta, ma salta sul
posto. In questo lo aiuta anche Ludovic Berthillot, grande protagonista di
efficacissima, “tarchiata” opacità – e uno pensa a che magnifiche cose
sarebbe stato capace di fare Guiraudie con un Renato Pozzetto, un altro che
sulla tarchiata opacità del suo corpo di attore ci ha costruito una (grande)
carriera comica. Tutto è fermo, tutto è bloccato, composto, ordinato, eppure
una valanga di cose sono fuori posto: conversazioni lunghissime sul colore
dei trattori, improvvise dichiarazioni d’amore (con pompino) a un direttore
di filiale, inseguimenti insensati nei boschi, vecchi satiri biascicanti che
spuntano dappertutto e dove meno li si aspetta: l’effetto è, davvero,
esilarante. Tanto che, nel finale, convince e rimane impresso persino il
pistolotto conclusivo sulle gioie dell’epicureismo ruspante.
E del resto, a pensarci bene, quella gustosa “moralina” finale si affianca
bene all’assetto visivo di tutto il film. Anche per via dell’abbondanza di
inquadrature perfettamente geometriche con dentro gente che corre scomposta,
il movimento è solo una scossa fugace che non scuote una perenne immobilità,
ma va bene così, si gode anche così, e forse si gode anche meglio, perché
più irresponsabilmente. |
SITO UFFICIALE |
27.mo torino film
festival
Torino 13 - 21 Novembre
2009
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