Non saranno certo queste
poche righe a poter dare un’idea della grandezza smisurata di una figura
come quella di Oshima. Sì, certo, lo si conosceva già, si conoscevano già i
suoi capolavori riconosciuti, si sapeva già che l’etichetta un po’ generica
di capofila del cinema nipponico “ribelle” degli anni ’60 gli andava (assai)
stretta.
Forse però non si sospettava che dall’integralità dell’opera venisse fuori
una statura così alta. E così varia. Il lato semplicemente “ribelle” è
probabilmente liquidato nei primi 2-3 film (Seishun
zankoku monogatari, Racconto
crudele della giovinezza, 1960, e, nello stesso anno,
Taiyo no hakaba, Il cimitero del
sole), cioè quando Oshima risponde alla richiesta della major
giapponese Shochiku di “modernizzare” il loro catalogo prendendoli
drasticamente in parola: un’intera e robusta tradizione cinematografica
locale, quella che si attacca morbosamente e moralisticamente ad adolescenti
teneri e sbandati, magari fratello e sorella, viene polverizzata
dall’interno. Lo sguardo si fa crudele, iperrealistico, ravvicinato, fa
piazza pulita di ogni perbenismo ipocrita con la franchezza impietosa con
cui viene ritratta l’immoralità secca dei personaggi. Il melodramma non è
più lacrima facile consumata a distanza ma è intensità scatenata, che non ha
più paura né dell’audacia registica né della violenza pressoché
onnipresente, tanto fisica quanto mentale. La Shochiku lo mollerà l’anno
seguente, quando con Nihon no yoru
to kiri (Notte e nebbia del giappone) Oshima metterà a fuoco, a forza
di movimenti di macchina oscillatori, calcolati vicoli ciechi di uno stile
sovraccarico e raffiche di flashback, il fallimento di un’intera generazione
di lotte giovanili (nel 1960!).
Col senno di poi, il film apparirà una sorta di prova generale (perché ne
condivide in larga parte la struttura a flashback) di quello che sarà
Gishiki (La cerimonia, 1971),
stupendo apologo post-teatrale su che cosa significhi essere giapponese dopo
la fine del sogno imperiale. È il film che precisa quanto Oshima non sia un
dozzinale “trasgressore” (certo, lui odia dichiaratamente tutto il cinema
giapponese prima di lui, ma non è solo questo il punto), bensì uno che è
incazzato perché anziché ricevere in eredità la tradizione (come invece il
fratellastro sempre invidiato) si vede recapitare un pugno di mosche. Uno
che, come il protagonista di Gishiki, è costretto dal nonno
ultra-tradizionalista a sposare una donna che non esiste e a consumare lo
stesso la cerimonia, andando all’altare letteralmente con un fantasma
invisibile. E che quindi non ha di meglio da fare che stringere a sé la
non-sposa inesistente nella prima notte di nozze sussurrandole “Ah! La mia
pura, purissima ragazza giapponese”, abbracciando niente più che il cuscino.
Sì: il nazionalismo efferato che fu nipponico è ora ridotto a un principio
vuoto, come vuota è la ritualità che è rimasta. E rito, naturalmente,
significa soprattutto: “teatro”. Ed è questo che si ostinerà a fare Oshima:
il cinema non gli serve banalmente a “ribellarsi” inventando forme anche
magnifiche: gli serve da pretesto per continuare una scena (nel senso
proprio di “scena teatrale”) che non c’è e non ci può più essere, come non
può più esserci mito, come non può più esserci nazione. Se davvero non
rimane che un principio di negatività pura, di infinita divisione che passa
tra le storie, le situazioni, i personaggi, tagliandoli e sezionandoli senza
posa, allora non rimane che celebrare formalisticamente il funerale del
nonno, non rimane che sfinire la scena teatrale (sulla quale vengono
modellate molte scene di questo e altri suoi film, coi loro interni chiusi,
compattissimi ed esplosi allo stesso tempo) a colpi di fendente, a colpi di
movimenti di macchina e di taglienti sezionamenti trasversali di uno spazio
che, a livello profilmico, rimane unitario, come un palco.
Non rimane insomma che essere in prima persona questo “rifiuto”, questa
rimanenza opaca che resta lì dopo la furibonda dissezione nichilistica di
tutto e tutti. Fino a constatare, attoniti, l’estraneità dal sesso (il
“fondamento”) e la perdita totale dell’identità, anche nazionale: fino
addirittura a specchiarsi nel volto spaurito dello straniero. Costante
ossessiva, questa, in tutto Oshima, e che ritorna innanzitutto in
Koshikei (L’impiccagione,
1968), dove un condannato a morte coreano si scontra con la macchina
burocratica giapponese, che si inceppa, blocca l’esecuzione e non riesce più
a trovare il modo di eseguire il condannato perché strada facendo la Legge
stessa si è autodissolta. È lei, la legge, ad essere “eseguita”, ma proprio
nel doppio senso e di messa in pratica e di “esecuzione capitale”. Un
inarrestabile crescendo brechtian-kafkiano, un altro impressionante
capolavoro sul principio logico infinito di sezionamento e divisione (la
Legge…), che a forza di esasperare il dispositivo scenico-teatrale è
costretto, insieme al condannato e alla cricca di burocrati che lo
perseguita, a balzare fuori dal “palco” (qui: l’angusta camera
dell’esecuzione) in spazi sempre più aperti, fino a dover scorazzare per le
strade e constatare amaramente che quel maledetto principio logico negativo
di divisione infinita è dappertutto. E fino a dover constatare amaramente
che un resto irriducibile a quel principio di eterno e onnipresente
sezionamento negativo rimane sempre, ed è, anche qui, quell’imperscrutabile
“straniero” in cui è costretto a specchiarsi il giapponese ormai
riconsegnato all’orfananza senza più approdo. In questo ed altri sensi, si
tratta certamente di una versione filosofico-metafisica de La cerimonia,
ripulita (ma non troppo, perché non lo può essere mai del tutto) delle
implicazioni politiche.
Muri shinju: nihon no natsu
(Japanese summer: double suicide, 1967) vedrà un americano (foriero
di geniali implicazioni sull’assassinio di JFK e i riverberi che avrà avuto
nell’arcipelago), pluriomicida circondato da un’intera nazione e
precariamente barricato, a fare la parte dell’irredimibile straniero. Con
lui si allea una strana banda armata clandestina, a cui si aggiunge una
ragazzetta diciottenne graffitara. Un altro gioco al massacro e ad
eliminazione, scandito da una struttura ancora più riconoscibilmente
teatrale (teatro dell’assurdo, soprattutto), che trasforma in palchi e scene
anche gli esterni accuratamente svuotati e resi astratti. Film che conferma
che la allucinante inventiva formale di Oshima non è (mai) capriccio
estetizzante, ma sono le rovine dolorose di una irrefrenabile tensione a
costruire una scena, nel senso teatrale. Lo sforzo indefesso di mettere in
piedi (cioè mettere in scena) uno spazio compatto, sforzo che crolla ogni
momento e in ogni momento cade a pezzi. Ma appunto, questi cocci non
finiscono mai di dividersi, non cessano mai di riprodurre sempre nuove forme
spaziali. Come il teatro fosse un virus che non si riesce né a compattare in
identità, né a estirpare.
È vero: il suo cinema è straordinariamente variegato: si pensi a
Shonen (Boy, 1969), le
adamantine peripezie di un bambino costretto a simulare incidenti in giro
per il Giappone affinché i genitori possano intascare l’assicurazione,
tranches de vie di quotidianità rasoterra appena attraversate da insistenti
intermezzi in cui il bambino si scava una lirica “ora d’aria”, fuggendo
provvisoriamente. Shonen inanella località dopo località, continue
ricognizioni paesaggistiche su una nazione in cui la carica melodrammatica
del soggetto viene quietamente scavalcata dallo stupore gelido dello sguardo
infantile, della tranquilla resa di uno spazio così com’è. Qui il teatro
(eccettuate alcune parentesi quando il bambino fugge via momentaneamente)
non c’è; ma è comunque innegabile che è lui, il teatro, a informare la
carriera di Oshima da più vicino. Anche quando tenta la forma del romanzo,
come in Shinjuku dorobo nikki
(Diario di un ladro di Shinjuku, 1969), tratto peraltro da un altro
romanzo (di Jean Genet), il teatro c’è, nella guisa di continue interruzioni
del film da parte del teatro-situazione di Juro Kara imperversante nel
Giappone di quegli anni – ma appunto, essendo un film-romanzo, si ritrova ad
essere solo una tessera di quell’intricato mosaico che ogni romanzo è (qui
c’è davvero dentro tutto: l’oppressione economica, l’impossibile
emancipazione sessuale, il voyeurismo…). E ci sarà anche quando, dalla
seconda metà dei ’70 in poi, Oshima deciderà di diventare finalmente lui
stesso straniero, consegnandosi in prima persona all’autorialismo patinato
internazionale: i meravigliosi imperi dei sensi e della passione,
Merry Christmas Mr. Lawrence (Furyo,
1973), Max mon amour (1986)
segnano le tappe di una progressiva depurazione (sempre attraverso ciò che
resta del teatro) che porterà alla quadratura del cerchio, a quel
Gohatto (Tabù, 2000) con cui
ritornerà in Giappone fingendo forme addirittura classiche, ma di un
classico tremolante, sempre sul punto di franare come il desiderio (quello
di un intero manipolo di samurai per un giovane efebo appena arrivato) si
sente franare la terra sotto i piedi sentendosi non tensione verso un
oggetto, ma a propria volta catturato in una rete inestricabile di
relazioni. Niente più ribellismo, né opposizione alla patria, perché è
l’istituzione stessa che è colta nella sua commovente fragilità, così come
quasi ogni inquadratura, peraltro perfettamente equilibrata, trema di un
movimento già in sé perturbante.
Lungo la via, decine di capolavori (senza contare ciò che Oshima ha diretto
per la televisione, prodotti spesso interessanti). Ma ce n’è uno, forse, che
davvero si impone violentemente all’attenzione, e anche al ricordo. Si
tratta dello sconvolgente Shiiku
(The Catch, 1961), tratto da un romanzo di Kenzaburo Oe, in cui un
prigioniero di guerra di colore viene, sul finire della seconda guerra
mondiale, trasferito in un villaggio montano dell’entroterra giapponese. Un
ricco possidente fa il bello e il cattivo tempo da sempre (anche
sessualmente), e i suoi interessi finiranno inevitabilmente col dipendere
dall’eliminazione del negro. Ma questo è, tutto sommato, solo un dettaglio:
Oshima si getta fisicamente in un groviglio inumano di interessi incrociati
e di appiccicosi rapporti che stringono insieme gli abitanti di un ambiente
chiuso, gretto, asfissiante anche in esterni. Occhio però: ancora prima che
di xenofobia, è questione di avidità. Oshima abbandona l’usuale distanza, si
getta nella mischia e lancia la sua macchina da presa in una serie di
acrobazie (spesso in pianosequenza) assolutamente incredibili, in ogni
possibile direzione. In un crescendo drammatico di spaventosa efficacia,
tutti sono in guerra contro tutti (compresa la macchina da presa), ma poi
l’ammazzamento sacrificale del negro ristabilisce la pace. Pace che però
grida subito vendetta: il film finisce sullo sguardo furente dell’unico
giovane che si è avvicinato al prigioniero. Mai continui pianisequenza
furono così splendidamente padroneggiati e allo stesso tempo così poco
olimpici, così contorti, oscuri, rabbiosi, intoppati.
“L’inferno sulla terra”:
frase che ritorna spesso nei dialoghi, e che viene anche allusa piazzando la
macchina da presa appena dietro a un cadavere che brucia, nel sottofinale,
tra le fiamme. |