27.mo torino film festival
Torino, 13 / 21 novembre 2009
 

retrospettiva nagashi oshima

di  Marco GROSOLI

In questa edizione, di A. Ferrentino
RECENSIONI, di M. Grosoli

Non saranno certo queste poche righe a poter dare un’idea della grandezza smisurata di una figura come quella di Oshima. Sì, certo, lo si conosceva già, si conoscevano già i suoi capolavori riconosciuti, si sapeva già che l’etichetta un po’ generica di capofila del cinema nipponico “ribelle” degli anni ’60 gli andava (assai) stretta.
Forse però non si sospettava che dall’integralità dell’opera venisse fuori una statura così alta. E così varia. Il lato semplicemente “ribelle” è probabilmente liquidato nei primi 2-3 film (Seishun zankoku monogatari, Racconto crudele della giovinezza, 1960, e, nello stesso anno, Taiyo no hakaba, Il cimitero del sole), cioè quando Oshima risponde alla richiesta della major giapponese Shochiku di “modernizzare” il loro catalogo prendendoli drasticamente in parola: un’intera e robusta tradizione cinematografica locale, quella che si attacca morbosamente e moralisticamente ad adolescenti teneri e sbandati, magari fratello e sorella, viene polverizzata dall’interno. Lo sguardo si fa crudele, iperrealistico, ravvicinato, fa piazza pulita di ogni perbenismo ipocrita con la franchezza impietosa con cui viene ritratta l’immoralità secca dei personaggi. Il melodramma non è più lacrima facile consumata a distanza ma è intensità scatenata, che non ha più paura né dell’audacia registica né della violenza pressoché onnipresente, tanto fisica quanto mentale. La Shochiku lo mollerà l’anno seguente, quando con Nihon no yoru to kiri (Notte e nebbia del giappone) Oshima metterà a fuoco, a forza di movimenti di macchina oscillatori, calcolati vicoli ciechi di uno stile sovraccarico e raffiche di flashback, il fallimento di un’intera generazione di lotte giovanili (nel 1960!).
Col senno di poi, il film apparirà una sorta di prova generale (perché ne condivide in larga parte la struttura a flashback) di quello che sarà Gishiki (La cerimonia, 1971), stupendo apologo post-teatrale su che cosa significhi essere giapponese dopo la fine del sogno imperiale. È il film che precisa quanto Oshima non sia un dozzinale “trasgressore” (certo, lui odia dichiaratamente tutto il cinema giapponese prima di lui, ma non è solo questo il punto), bensì uno che è incazzato perché anziché ricevere in eredità la tradizione (come invece il fratellastro sempre invidiato) si vede recapitare un pugno di mosche. Uno che, come il protagonista di Gishiki, è costretto dal nonno ultra-tradizionalista a sposare una donna che non esiste e a consumare lo stesso la cerimonia, andando all’altare letteralmente con un fantasma invisibile. E che quindi non ha di meglio da fare che stringere a sé la non-sposa inesistente nella prima notte di nozze sussurrandole “Ah! La mia pura, purissima ragazza giapponese”, abbracciando niente più che il cuscino. Sì: il nazionalismo efferato che fu nipponico è ora ridotto a un principio vuoto, come vuota è la ritualità che è rimasta. E rito, naturalmente, significa soprattutto: “teatro”. Ed è questo che si ostinerà a fare Oshima: il cinema non gli serve banalmente a “ribellarsi” inventando forme anche magnifiche: gli serve da pretesto per continuare una scena (nel senso proprio di “scena teatrale”) che non c’è e non ci può più essere, come non può più esserci mito, come non può più esserci nazione. Se davvero non rimane che un principio di negatività pura, di infinita divisione che passa tra le storie, le situazioni, i personaggi, tagliandoli e sezionandoli senza posa, allora non rimane che celebrare formalisticamente il funerale del nonno, non rimane che sfinire la scena teatrale (sulla quale vengono modellate molte scene di questo e altri suoi film, coi loro interni chiusi, compattissimi ed esplosi allo stesso tempo) a colpi di fendente, a colpi di movimenti di macchina e di taglienti sezionamenti trasversali di uno spazio che, a livello profilmico, rimane unitario, come un palco.
Non rimane insomma che essere in prima persona questo “rifiuto”, questa rimanenza opaca che resta lì dopo la furibonda dissezione nichilistica di tutto e tutti. Fino a constatare, attoniti, l’estraneità dal sesso (il “fondamento”) e la perdita totale dell’identità, anche nazionale: fino addirittura a specchiarsi nel volto spaurito dello straniero. Costante ossessiva, questa, in tutto Oshima, e che ritorna innanzitutto in Koshikei (L’impiccagione, 1968), dove un condannato a morte coreano si scontra con la macchina burocratica giapponese, che si inceppa, blocca l’esecuzione e non riesce più a trovare il modo di eseguire il condannato perché strada facendo la Legge stessa si è autodissolta. È lei, la legge, ad essere “eseguita”, ma proprio nel doppio senso e di messa in pratica e di “esecuzione capitale”. Un inarrestabile crescendo brechtian-kafkiano, un altro impressionante capolavoro sul principio logico infinito di sezionamento e divisione (la Legge…), che a forza di esasperare il dispositivo scenico-teatrale è costretto, insieme al condannato e alla cricca di burocrati che lo perseguita, a balzare fuori dal “palco” (qui: l’angusta camera dell’esecuzione) in spazi sempre più aperti, fino a dover scorazzare per le strade e constatare amaramente che quel maledetto principio logico negativo di divisione infinita è dappertutto. E fino a dover constatare amaramente che un resto irriducibile a quel principio di eterno e onnipresente sezionamento negativo rimane sempre, ed è, anche qui, quell’imperscrutabile “straniero” in cui è costretto a specchiarsi il giapponese ormai riconsegnato all’orfananza senza più approdo. In questo ed altri sensi, si tratta certamente di una versione filosofico-metafisica de La cerimonia, ripulita (ma non troppo, perché non lo può essere mai del tutto) delle implicazioni politiche.
Muri shinju: nihon no natsu (Japanese summer: double suicide, 1967) vedrà un americano (foriero di geniali implicazioni sull’assassinio di JFK e i riverberi che avrà avuto nell’arcipelago), pluriomicida circondato da un’intera nazione e precariamente barricato, a fare la parte dell’irredimibile straniero. Con lui si allea una strana banda armata clandestina, a cui si aggiunge una ragazzetta diciottenne graffitara. Un altro gioco al massacro e ad eliminazione, scandito da una struttura ancora più riconoscibilmente teatrale (teatro dell’assurdo, soprattutto), che trasforma in palchi e scene anche gli esterni accuratamente svuotati e resi astratti. Film che conferma che la allucinante inventiva formale di Oshima non è (mai) capriccio estetizzante, ma sono le rovine dolorose di una irrefrenabile tensione a costruire una scena, nel senso teatrale. Lo sforzo indefesso di mettere in piedi (cioè mettere in scena) uno spazio compatto, sforzo che crolla ogni momento e in ogni momento cade a pezzi. Ma appunto, questi cocci non finiscono mai di dividersi, non cessano mai di riprodurre sempre nuove forme spaziali. Come il teatro fosse un virus che non si riesce né a compattare in identità, né a estirpare.
È vero: il suo cinema è straordinariamente variegato: si pensi a Shonen (Boy, 1969), le adamantine peripezie di un bambino costretto a simulare incidenti in giro per il Giappone affinché i genitori possano intascare l’assicurazione, tranches de vie di quotidianità rasoterra appena attraversate da insistenti intermezzi in cui il bambino si scava una lirica “ora d’aria”, fuggendo provvisoriamente. Shonen inanella località dopo località, continue ricognizioni paesaggistiche su una nazione in cui la carica melodrammatica del soggetto viene quietamente scavalcata dallo stupore gelido dello sguardo infantile, della tranquilla resa di uno spazio così com’è. Qui il teatro (eccettuate alcune parentesi quando il bambino fugge via momentaneamente) non c’è; ma è comunque innegabile che è lui, il teatro, a informare la carriera di Oshima da più vicino. Anche quando tenta la forma del romanzo, come in Shinjuku dorobo nikki (Diario di un ladro di Shinjuku, 1969), tratto peraltro da un altro romanzo (di Jean Genet), il teatro c’è, nella guisa di continue interruzioni del film da parte del teatro-situazione di Juro Kara imperversante nel Giappone di quegli anni – ma appunto, essendo un film-romanzo, si ritrova ad essere solo una tessera di quell’intricato mosaico che ogni romanzo è (qui c’è davvero dentro tutto: l’oppressione economica, l’impossibile emancipazione sessuale, il voyeurismo…). E ci sarà anche quando, dalla seconda metà dei ’70 in poi, Oshima deciderà di diventare finalmente lui stesso straniero, consegnandosi in prima persona all’autorialismo patinato internazionale: i meravigliosi imperi dei sensi e della passione, Merry Christmas Mr. Lawrence (Furyo, 1973), Max mon amour (1986) segnano le tappe di una progressiva depurazione (sempre attraverso ciò che resta del teatro) che porterà alla quadratura del cerchio, a quel Gohatto (Tabù, 2000) con cui ritornerà in Giappone fingendo forme addirittura classiche, ma di un classico tremolante, sempre sul punto di franare come il desiderio (quello di un intero manipolo di samurai per un giovane efebo appena arrivato) si sente franare la terra sotto i piedi sentendosi non tensione verso un oggetto, ma a propria volta catturato in una rete inestricabile di relazioni. Niente più ribellismo, né opposizione alla patria, perché è l’istituzione stessa che è colta nella sua commovente fragilità, così come quasi ogni inquadratura, peraltro perfettamente equilibrata, trema di un movimento già in sé perturbante.
Lungo la via, decine di capolavori (senza contare ciò che Oshima ha diretto per la televisione, prodotti spesso interessanti). Ma ce n’è uno, forse, che davvero si impone violentemente all’attenzione, e anche al ricordo. Si tratta dello sconvolgente Shiiku (The Catch, 1961), tratto da un romanzo di Kenzaburo Oe, in cui un prigioniero di guerra di colore viene, sul finire della seconda guerra mondiale, trasferito in un villaggio montano dell’entroterra giapponese. Un ricco possidente fa il bello e il cattivo tempo da sempre (anche sessualmente), e i suoi interessi finiranno inevitabilmente col dipendere dall’eliminazione del negro. Ma questo è, tutto sommato, solo un dettaglio: Oshima si getta fisicamente in un groviglio inumano di interessi incrociati e di appiccicosi rapporti che stringono insieme gli abitanti di un ambiente chiuso, gretto, asfissiante anche in esterni. Occhio però: ancora prima che di xenofobia, è questione di avidità. Oshima abbandona l’usuale distanza, si getta nella mischia e lancia la sua macchina da presa in una serie di acrobazie (spesso in pianosequenza) assolutamente incredibili, in ogni possibile direzione. In un crescendo drammatico di spaventosa efficacia, tutti sono in guerra contro tutti (compresa la macchina da presa), ma poi l’ammazzamento sacrificale del negro ristabilisce la pace. Pace che però grida subito vendetta: il film finisce sullo sguardo furente dell’unico giovane che si è avvicinato al prigioniero. Mai continui pianisequenza furono così splendidamente padroneggiati e allo stesso tempo così poco olimpici, così contorti, oscuri, rabbiosi, intoppati.

“L’inferno sulla terra”: frase che ritorna spesso nei dialoghi, e che viene anche allusa piazzando la macchina da presa appena dietro a un cadavere che brucia, nel sottofinale, tra le fiamme.

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Torino 13 - 21 Novembre 2009