KINEMATRIX incontra
Laura MORANTE
protagonista de LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti
intervista raccolta da Gabriele FRANCIONI
e Sabrina PISU
Roma, 19 marzo 2001
- leggi A
SCHERMO INTERO -
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GABRIELE FRANCIONI: Come si sono incastrati i periodi di
lavorazione de LA
STANZA DEL FIGLIO e di VAJONT, se si sono incastrati?
LAURA MORANTE: "Si sono incastrati soltanto nella
ripresa, perché abbiamo girato di seguito, anche se con varie interruzioni,
dovute a motivi che ormai tutti sanno, vale a dire: in un primo momento
Nanni ha avuto problemi di insonnia, era molto stanco, per cui abbiamo
interrotto per due o tre settimane, poi ci sono stati gli scioperi, poi
Natale. Insomma, compatibilmente con queste molteplici interruzioni, abbiamo
girato, mi pare, per sei mesi, poi ci siamo separati. Qualche mese più
tardi, non mi ricordo precisamente quanto, io ho cominciato a girare VAJONT,
e mi rimaneva ancora una scena de LA
STANZA DEL FIGLIO. Era quella del mercatino, che non avevamo potuto
fare perché c'era un problema di clima: Nanni voleva una giornata di sole,
che però non era arrivata. Quindi in un primo momento aveva pensato di
sopprimere la sequenza; poi però, dopo aver cominciato il montaggio, credo
si fosse reso conto che gli era necessaria. Quindi, da dove mi trovavo,
in Friuli, sono andata per un giorno ad Ancona, ho girato la notte fino
all'una del mattino la scena del mercatino e poi il giorno dopo sono tornata
a girare VAJONT. Questo è stato l'unico incastro".
GF: Come e quanto varia, dal punto di vista della tecnica
di recitazione l'approccio, a due opere così antitetiche, cioè: grandi
spazi naturali, anche se ricreati in parte al computer nel caso di VAJONT
e tragedia collettiva; spazi compressi e domestici e tragedia privata
nel caso de LA
STANZA DEL FIGLIO. Credo che un film come VAJONT rimpicciolisca l'attore
rispetto all'importanza che lo spazio naturale ha avuto ne LA
STANZA DEL FIGLIO…
LM: "E' una domanda interessante ma difficile… non
lo so: non ci ho pensato, non mi sono mai posta il problema. Ogni film
è un'esperienza diversa e tutto concorre a farne un'esperienza diversa:
gli spazi, le persone con cui lavori, la storia, gli attori, il regista,
tutto. Quindi, effettivamente, gli spazi sono uno di questi elementi,
ma non l'ho pensato in questi termini. VAJONT è un film effettivamente
collettivo, con moltissimi personaggi; io sono stata molto più esterna
al film di quanto non lo fossi in quello di Nanni perché, se vogliamo
definire una percentuale, avrò partecipato al VAJONT per un 25%, mentre
nel caso del film di Nanni la partecipazione è stata al 100%. Quindi sono
due esperienze anche da questo punto di vista molto diverse. Non ho visto
nulla di tutta la parte post produttiva del VAJONT, e non ho nemmeno assistito
a questo tipo di lavoro, di cui d'altronde ero molto curiosa: avevo chiesto
di assistervi, ma poi, non ricordo per quale motivo, non potevo esserci.
Essendo un film collettivo, come ho già detto, ero presente solo in parte.
Avevo un ruolo che mi ha molto appassionata perché non conoscevo nulla
di Tina Merlin; però sapevo qualcosa della tragedia del Vajont, e quando
Martinelli mi ha proposto il film mi sono fatta dare dei libri: quello
che Tina Merlin ha scritto della tragedia, una sua autobiografia, una
biografia della madre… E mi sono un po' innamorata del personaggio, ho
provato una grande simpatia e quindi un desiderio di incarnarla, perché
era un personaggio reale. Mi è capitato raramente in un film di interpretare
delle persone, erano sempre dei personaggi di finzione. Però, ovviamente,
non si possono paragonare le esperienze, perché l'esperienza con Nanni
è stata totale, di immersione, e quindi è radicalmente diversa per moltissime
ragioni. Poi con Nanni io ho un rapporto che è il tipo di rapporto che
Nanni sempre stabilisce con la sua equipe, un rapporto che non è soltanto
professionale, un rapporto che è anche umano. Con gli altri ho un'esperienza
più professionale…
GF: più distaccata…
LM: "Più distaccata non so, perché non faccio mai
il mio lavoro in maniera distaccata, però più professionale. Nanni è una
persona che conosco da quando ero ragazzina e con la quale avevo già girato
due film. E c'era un clima di famiglia sul set che non esisteva su quello
di VAJONT".
SABRINA PISU: Comunque si nota questo clima di famiglia
una volta visto il film, questa partecipazione autentica, che ha un sostrato
umano…
LM: "Questo è tipo di il lavoro che fa Nanni, e in
questo un po' ci assomigliamo, perché io ho sempre un po' di difficoltà
ad essere una professionista. Porto sempre qualcos'altro sui set e qualche
volta è qualcosa che nessuno desidera condividere e allora sono un po'
in difficoltà; ma io sono incapace di lasciare me stessa a casa e di essere
una professionista. E Nanni è un po' come me e quindi uno dei vantaggi
di lavorare con lui è che c'è questo clima affettuoso, che per quanto
mi riguarda mi è di grande aiuto".
SP: Credo sia importante che in fase di lavorazione di
un film si stabilisca tra gli attori un rapporto che vada al di là del
lavoro, che sia un rapporto anche affettivo, di scambio…
LM: "Presumo che alcuni attori non ne sentano il bisogno:
non siamo tutti uguali. Io in questo senso sono forse un po' infantile;
ho bisogno di sentire la famiglia e lavoro con molto più piacere, con
molta più gioia quando c'è questo clima. In questo caso di gioia non si
può proprio parlare, ma io lavoro meglio quando mi sento ben voluta, mi
è più facile".
GF: Da SOGNI D'ORO è passata una ventina d'anni, ed il
cinema di Nanni Moretti è cambiato sostanzialmente. In particolar modo
il salto che è stato fatto con l'ultimo film ha segnato l'abbandono di
alcuni tic recitativi e soprattutto di motivi contenutistici, l'abbandono
dell'aspetto pubblico e la concentrazione su una dimensione decisamente
privata. Come ha sentito questo cambiamento del cinema di Nanni Moretti
da SOGNI D'ORO ad oggi, se lo ha seguito anche se non partecipava ai suoi
film? Vede riflesso in questo cambiamento anche un cambiamento più generale
del cinema italiano negli ultimi vent'anni?
LM: "I film di Nanni li ho visti tutti… Non mi sento
assolutamente in grado di dare un giudizio generale sul cinema italiano
degli ultimi vent'anni, perché per alcuni anni non l'ho seguito per niente:
in Francia usciva poco o niente. Sono tornata due anni fa in Italia e
non so assolutamente che cosa sia successo durante quel periodo. Mi sembra
di poter dire (ma devo ancora vedere alcuni film importanti che sono usciti
in questo periodo) che ci siano parecchi buoni film ultimamente, e registi
interessanti, sia della vecchia che della nuova generazione, che qualche
volta incontrano il favore del pubblico. Sono dati confortanti. Anche
se, non tutti lo sono, in realtà: mi hanno detto che il film della Archibugi,
che non ho ancora visto, è molto bello. E lo credo, perché Francesca è
una regista molto dotata, ma il suo film non è andato bene. D'altra parte
ci sono dei film apparentemente di valore, che sono andati bene; ci sono
invece delle commedie fatte per piacere che sono andate male. Mi dispiace
dirlo, ma in qualche caso questo è confortante, perché forse così ci metteremo
a produrre film con un po' più di spessore. Io non ho nulla contro la
commedia, ma anche la commedia può avere uno spessore. Ne è la prova Virzì.
Il problema non è soltanto produrre questi film, ma distribuirli correttamente.
Avendo vissuto molto in Francia, per esempio, ho avuto modo di rendermene
conto. Questa è una delle differenze sostanziali a svantaggio del nostro
cinema: in Francia i film di produzione francese (non quelli stranieri)
vengono seguiti anche nella fase distributiva: vengono distribuiti in
funzione del tipo di film che sono e del tipo di pubblico che possono
interessare. Viene data loro non solo una, ma una seconda ed una terza
chance; alcuni film possono funzionare anche dopo alcune settimane. Questo
è successo anche con alcuni miei film. La distribuzione in Francia è infinitamente
più attenta, più "affettuosa"; è un atteggiamento anche più astuto. Il
nostro invece è un atteggiamento autodistruttivo, i film vengono abbandonati
a se stessi: se funzionano, bene, altrimenti, in due settimane, scompaiono.
Questa è una cosa terribile, spero che qualcuno si deciderà ad operare
una modifica sostanziale a questo comportamento: il film va seguito in
tutte le sue fasi, dall'inizio fino alla sua distribuzione".
GF: E dal punto di vista delle scelte dei registri a monte:
per esempio vedere il cambiamento di registro di Piccioni, e anche di
Soldini. Perché non possiamo negare che Piccioni con FUORI DAL MONDO abbia
fatto veramente una scelta di campo molto coraggiosa che, non dico rinnega,
ma quantomeno cambia moltissimo rispetto ai film precedenti. E alla stessa
maniera Soldini utilizza un registro più vicino alla commedia…
LM: "…un altro film che ha funzionato molto bene pur
non essendo una commedia classica…"
GF: … infatti, oltre all'affetto nei confronti dei film,
come diceva lei prima, c'è anche la necessità che i registi italiani si
confrontino con tematiche decisamente diverse…
LM: "Una frase mi è rimasta impressa, credo che sia
di Šklovskij: "Il talento è la forza di resistenza che l'artista è in
grado di opporre alla domanda del committente". Ora, io credo che questo
sia ancora vero: un artista non è soltanto una persona creativa, ma è
una persona in qualche modo anche ostinata, senza essere però ottusa.
Una delle doti di Nanni, che è quello che io conosco più da vicino tra
i registi di talento, è che lui è sempre stato estremamente ostinato.
Quando ad esempio fece BIANCA, girò tutta l'Italia per trovare un produttore,
e alla fine ne trovò uno. Cercarono di imporgli un cast, e lui non se
lo lasciò imporre, cercarono di imporre un altro finale e lui non se lo
fece imporre, cercarono di dirgli di andare verso la commedia e lui rifiutò
la commedia. E io, che in quel periodo lo frequentavo, e non sapevo ancora
che avrei fatto parte del cast del film, sentivo tanta gente che diceva
"questo film è un suicidio per Nanni Moretti"; "come gli è venuto in mente
di fare una storia così tetra, così cupa; non funzionerà mai". E il film
funzionò benissimo. Io, se dovessi dare un consiglio ai registi di talento
- perché gli altri, poi, faranno a modo loro - direi: siate ostinati,
in tutto, anche nel cast. È importante: se uno ha qualcosa da dire deve
dirla. Con ostinazione, che non vuol dire con ottusità: si possono seguire
delle indicazioni, dei consigli utili".
GF: Per quanto riguarda il film di Moretti, pensa che sia
un film che ha effettivamente la capacità di scavare, di indagare il dolore,
oppure è più che altro - come ha detto qualcuno - un'esposizione degli
effetti immediati del dolore e, al limite, con un intento ricattatorio
nei confronti del pubblico dal punto di vista emotivo? Cioè, intende portare
chiunque, non nella meditazione post film, ma addirittura durante la visione
stessa, ad una condizione di totale simpatia?
LM: "Non perché Nanni è il mio regista e mio amico…
ma nel film non vedo alcun atteggiamento ricattatorio. Non c'è nemmeno
contraddizione tra l'esposizione e la profondità: è entrambe le cose:
il film è profondo ed è anche un'esposizione estremamente semplice dei
fatti, senza messaggi e giudizi. E proprio per questo è un film onesto.
Non credo che ci sia niente di ricattatorio, perché non ci sono forzature:
i personaggi sono credibili, le loro reazioni sono credibili, e dove non
c'è forzatura non c'è ricatto. Certo, è un film sul dolore e, come ha
detto lui stesso in conferenza stampa, sul dolore che non sempre, come
si ritiene, unisce, ma spesso divide".
SP: A proposito di questo, si vede emergere dal film il
modo diverso di affrontare la perdita del figlio da parte sua, di Giovanni
e della ragazza. Giovanni trasforma il dolore in rabbia e non riesce a
farsene una ragione vera, mentre lei ha un atteggiamento più irrazionale,
si abbandona quasi al dolore e lascia che questo prenda una sua propria
forma…
LM: "Sì, prende una sua forma, e dal dolore emerge
la prima scintilla vitale, - con Arianna - e lei la accoglie. I personaggi
reagiscono in maniera diversa, e quello che secondo me è bello, è che
le loro reazioni sono coerenti rispetto a quello che i personaggi sono
fin dall'inizio. Si sente che sono diversi: nel breve tempo senza dolore
si impara a conoscerli e quando loro reagiscono in quel modo risultano
veri, senza forzature".
SP: Ma è stato difficile per lei, come madre, nella vita,
non lasciarsi coinvolgere troppo da questa storia?
LM: "Non è una storia che si può interpretare con
indifferenza, ovviamente è una storia che ti tocca. Ognuno scaricava la
tensione a modo suo: Nanni ha organizzato un torneo di ping-pong, io andavo
in palestra… c'era certamente una grande tensione, ci sono state delle
giornate veramente difficili".
GF: Mi pare di aver letto in un'intervista sua che lei
ha iscritto sua figlia ad una scuola di Ancona. In quel periodo lei vedeva
un cambiamento del suo atteggiamento in termini di protezione di sua figlia
che procedeva di pari passo con la tematica del film? Il film influenzava
il suo rapporto con sua figlia, diventava più protettiva?
LM: "No, per fortuna no. È difficile spiegare che
cos'è il mestiere di un attore: è fatto di passione ma anche di controllo,
perché altrimenti non ti potresti fermare nel punto che ha stabilito il
regista ed il direttore della macchina, non potresti ricordarti le battute.
Evidentemente esiste sempre anche nell'emozione e nella passione una forma
di controllo. Il che non vuol dire che un attore debba avere controllo
su tutto: deve avere per forza controllo sulla parte tecnica (deve ricordarsi
le battute, deve fermarsi dove gli hanno detto di fermarsi) però io non
ho mai personalmente preparato un ruolo a tavolino. Ho sempre letto il
copione, cercato di capire razionalmente non soltanto il mio ruolo ma
il progetto nel suo insieme, il tipo di film che avevo di fronte. Una
madre che perde il figlio in dieci film differenti porterà a dieci ruoli
differenti: è come una partitura musicale, si deve capire di che partitura
si tratta. Però non mi è mai piaciuto preparare i ruoli al millimetro,
mi piace non sapere esattamente che cosa farò. Qualche volta ci riesco,
qualche volta meno, però mi piace che sia una sorpresa anche per me, devo
crederci anch'io. Perché altrimenti non mi piacerebbe fare il mio mestiere.
Non sono mai riuscita ad essere fredda rispetto alla recitazione. Per
me in qualunque lavoro di tipo artistico, ma anche in qualunque cosa che
ti metta a confronto con gli altri, esiste un'etica che va rispettata.
Quindi per me è importante quest'onestà nel recitare".
SP: Quando lei ha deciso di fare l'attrice, o ha avuto
il primo incontro con il mondo del teatro e del cinema, che cosa la affascinava
di questo lavoro?
LM: "Una cosa probabilmente mi affascinava - ma questo
non era un pensiero, ma una necessità -: ero terribilmente timida, e per
me è stata una sfida alla mia timidezza. Ero talmente timida che questo
sarebbe potuto essere un handicap non soltanto per recitare, ma anche
solo per andare al supermercato! Quindi per me è stata una sfida alla
timidezza. Così come per tutti: ci sono temperamenti per cui la paura
è un fatto paralizzante, ci sono altri per cui è uno stimolo. Per me quasi
sempre è stata uno stimolo, con un'eccezione: la paura dell'acqua che
non ho mai superato…"
SP: Io penso che il lavoro dell'attore sia un lavoro molto
difficile. Non ci sono mai stati dei momenti di crisi in cui ha pensato
di abbandonare o di prendere una pausa, magari dovuti ad un'interpretazione
o ad un'emozione troppo forte, o ad una situazione privata?
LM: "E' accaduto, ovviamente, in vent'anni… I momenti
in cui ho desiderato prendere una pausa o addirittura smettere, non sono
però legati a ruoli troppo emozionanti, al contrario. Sono legati a momenti
in cui non mi piaceva niente di quello che mi proponevano, oppure sono
legati alle difficoltà che io ho avuto per anni a fare la professione
dell'attrice. Io faccio questa distinzione: mi piaceva il "mestiere" dell'attore:
mi piaceva lavorare sulla materia, sui testi, sui personaggi, ma non mi
piaceva fare la "professione" dell'attrice, vale a dire dover essere un
personaggio pubblico, dover rispondere alle domande… Questo non mi piaceva,
ci sono voluti molti anni per abituarmici. Forse era un retaggio di quella
timidezza: avevo una specie di difficoltà a diventare personaggio pubblico,
volevo fare il mio mestiere in segreto, e non era possibile, ovviamente…
e quella è stata la parte più difficile per me".
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GF: Su un temperamento e una sensibilità notevole come
la sua, come lavorano certi personaggi, o, in generale, i personaggi interpretati?
C'è una convivenza con la sua personalità reale? Che tempi hanno invece
di smaltimento, cioè quanto tempo dopo scompaiono? O pensa che adesso,
dopo vent'anni, abbiano talmente sedimentato da essere diventati parte
di lei?
LM: "Un'interpretazione non è mai un fatto esterno
a se stessi, è comunque un punto d'incontro tra l'interprete ed il personaggio.
Quello che tu fai è in parte quello che tu sei, quindi ovviamente rimane.
Più un personaggio è profondo e più rimane, perché c'era già; non è mai
una cosa esterna, ma va a toccare una parte di te. Sempre. In tutta la
mia filmografia ogni volta che io ho aderito a un personaggio, a un film,
a un'esperienza, c'era qualcosa di me. Il che non vuol dire che un personaggio
mi assomigliasse, ma ero sempre io, c'era sempre qualche parte di me,
anche se diversa da ruolo a ruolo. Quindi non poteva essere cancellata,
perché era come mettere l'accento, dare del colore ad una parte che magari
in quel momento, senza quel ruolo, sarebbe rimasta nell'ombra, però era
qualcosa che preesisteva all'interpretazione del ruolo".
SP: Credo che ci sia sempre uno scambio tra il personaggio
che un attore interpreta e l'attore stesso…
LM: "Sempre… ma io parlo per me, può darsi che per
gli altri attori sia totalmente diverso. Per me i personaggi interpretati
(dove l'interpretazione è profonda, anch'io ho fatto dei ruoli di cui
non m'importava nulla, l'ho fatto per pagare l'affitto…) …. Io come interprete
porto sempre qualcosa di me, non esiste eccezione a questa regola".
GF: Anzi, accentuando questo atteggiamento, lei ha mai
cercato, magari in base a un momento particolare della sua vita, un lavoro
o un personaggio che riflettesse quel suo vissuto?.
LM: "L'ho cercato, ma non sono mai riuscita a promuovere
io un film. Sono anni che vado dicendo che mi piacerebbe fare Pentesilea
al teatro, ma non mi segue nessuno…"
GF: Ah, pensavo al cinema…
LM: "Anche al cinema! Mi piacerebbe fare una versione
moderna, contemporanea, di Pentesilea; secondo me è una cosa fattibilissima.
Questo perché io ho sempre avuto una grande passione per Kleist ed ho
sempre saputo che c'è una segreta attinenza, una parentela, fra me e i
personaggi kleistiani. Pentesilea in particolare, anche se apparentemente
è il contrario di me. Ma è una cosa che mi interessa moltissimo, tanto
più che contiene aspetti a cui nella vita non darò mai voce, perché c'è
la violenza, è un testo estremamente violento e sanguinario. Sono tutte
cose distanti dalla mia vita reale. Si può leggere in vari modi, ovviamente,
come tutti i testi importanti. Però alla base c'è l'incapacità di avere
fiducia nell'altro: la tragedia si compie perché Pentesilea non capisce,
si sente tradita. E c'è in questo personaggio contemporaneamente innocenza
e violenza, desiderio di assoluto ed ostinazione, bisogno smisurato di
amare ed incapacità di avere il buon senso che dà forma alle cose. È un
personaggio selvaggio, Pentesilea. Ecco, io nella vita reale non do spazio,
non do voce a questo, però proprio per questo mi interesserebbe farlo
nella finzione. Anche se Nanni dichiarava l'altro giorno di non credere
alla funzione terapeutica, io invece ci credo, soprattutto nel teatro.
Io credo che il teatro abbia davvero una funzione terapeutica. E quindi
per me il bisogno di recitare un ruolo come quello è anche quasi un desiderio
terapeutico, oltre che una grande passione artistica".
GF: In questo senso, partendo dallo spunto di Pentesilea:
se lei fosse regista avrebbe già messo in scena questo lavoro. C'è una
differenza fra l'attore e il regista: questo ha la possibilità di orientare
la propria carriera in senso progettuale, cioè vuole partire da un determinato
discorso ed arrivare ad un certo punto della propria carriera dopo aver
sviluppato certi temi, e sicuramente, se non ha problemi produttivi o
di altro tipo, mette in atto questa sua progettualità. L'attore è ovviamente
in una posizione un po' più debole, nel senso che deve vagliare le offerte
e cercare di costruirsi una linea il più possibile coerente, se poi la
coerenza è un qualcosa che si deve considerare desiderabile. In questo
senso: ci sono delle possibili frustrazioni che derivano all'attore dal
non poter orientare la propria carriera? Nasce mai, a lei è mai nato,
o sta per nascere il desiderio di passare alla sceneggiatura o alla regia?
LM: "Per quanto riguarda la sceneggiatura ho fatto
qualche tentativo, invece alla regia non ho mai pensato, salvo che per
il teatro. Conservo un po' il sogno, molto remoto, di fare una regia in
teatro. Nel cinema non me la sentirei, forse perché l'aspetto economico
è troppo importante… Devo dire che esiste, questa frustrazione, ovviamente…
però ci sono due elementi: prima di tutto non mi sento in diritto di sentirmi
frustrata perché non ho il coraggio - perché qui di coraggio si tratta
- di intraprendere questa strada e lottare. A quel punto è una frustrazione
che deriva più dal mio carattere che da circostanze esteriori… Poi c'è
anche il piacere, forse femmineo, di essere scelti, di essere diretti,
di essere eletti… chiamati se non eletti! Gli attori hanno spesso quel
miscuglio di vanità e di insicurezza che poi si esprime nel bisogno di
essere scelti da un altro, di essere chiamati a fare qualcosa, che venga
loro data fiducia… Forse adesso ci sono anche attori d'altro tipo, io
li ammiro. Ma io appartengo di più a quella categoria".
GF: Parlando dei format all'interno dei quali ha lavorato:
adesso si parla molto in Italia della fiction televisiva, del grande successo
che diverse serie hanno. Siccome lei ha lavorato molto anche all'estero
in serie televisive, spezzando una lancia a loro favore e lasciando da
parte i limiti di quel format anche dal punto di vista tecnico, c'è qualcosa
di veramente positivo che l'esperienza della fiction televisiva le ha
portato, qualcosa che lei pensa che abbia di più la fiction rispetto al
cinema?
LM: "Di più non lo so… io per esempio ho fatto una
lunga fiction in Francia con Paul Vecchiali che dal punto di vista artistico
espressivo superiore a tante cose che ho fatto al cinema. Si chiamava
LES JURES DE L 'OMBRE. Il problema della televisione secondo me non è
tanto un problema di qualità del prodotto, il problema è di fruizione,
di rapporto con lo spettatore. Per me quello che manca alla televisione
è la qualità del rapporto fra il pubblico ed il prodotto".
SP: Anche la mancanza di profondità di contenuti, poi…
LM: "Ma quello non è detto, perché nel caso di alcune
cose che ho fatto in televisione la profondità di contenuti c'era tutta,
e c'era anche forse più che in alcune cose che ho fatto al cinema. È soprattutto
un problema di rapporto: la televisione è qualcosa che si deve imporre.
Quando si fa un film, la gente può scegliere di andare o non andare a
vederlo, ma quando va, paga il biglietto e si siede nella sala, c'è una
qualità diversa di visione e di ascolto, per cui lo spettatore può meglio
cogliere le sfumature, ascoltare con più attenzione, vedere con più affetto…
è diverso. La televisione è un elettrodomestico, con il quale si convive,
che non ci impegna, si può decidere di interrompere la visione in qualunque
momento. Ricordo un episodio che mi è accaduto quando lavoravo in televisione.
C'era una mia conversazione con il personaggio di mia madre e c'era il
piano di ascolto su di me; io non dovevo dire nulla, dovevo solo ascoltare.
Facciamo una prova ed il regista - non dirò chi, non era una gran cosa,
comunque - mi chiede: "cosa farai mentre parla?" "Non lo so… cosa farò…
ascolto…" "Ma se non fai nulla la gente cambia canale!" e io ho detto:
"cambieranno programma! Io non faccio niente: ascolto!". Non aveva torto,
aveva perfettamente il senso di che cosa sia la televisione. Io mi rifiutavo,
ovviamente! Per me era una cosa inaccettabile. Il problema della televisione
è quindi un problema di rapporto tra lo spettatore ed il prodotto. È come
vedere una mostra, come ormai se ne vedono tante, in mezzo alla confusione,
con la gente che urla. Mi ricordo l'amarezza la prima volta che hanno
trasferito gli impressionisti a Parigi al Musée d'Orsay. Per me è stata
una cosa traumatica: i quadri erano sempre gli stessi, bellissimi, poi
ci avevano infilato tutti i pompier, dedicando sale enormi a questa orrenda
pittura; c'erano però lo stesso dei meravigliosi Degas, Monet, ma la fruizione
era tutta diversa, il rapporto dello spettatore con il quadro era totalmente
mutato. Ora, qualunque opera d'are non è un monologo, è un dialogo. Se
tu impedisci il dialogo, qualche cosa non funziona più, qualunque sia
la qualità dell'opera. In questo senso ha ragione Duchamp: meglio vedere
un cucchiaino sospeso nel vuoto in una stanza vuota che vedere Monet in
questo modo, perché non funziona più quel rapporto. Il pittore, quando
dipinge, a sua volta trasferisce ed elabora le impressioni e le emozioni
che ha lui stesso percepito, e le comunica; quella comunicazione deve
arrivare, e deve essere messa nelle condizioni di arrivare. Ricordo un
articolo uscito qualche anno fa su uno dei quadri di Piero della Francesca
- non ricordo ora quale - che era stato portato, dalla cappella del cimitero
dov'era in origine, in un piccolo museo. Questo scrittore italiano - non
ricordo ora chi fosse - diceva: "E' lo stesso quadro, ma non è la stessa
cosa. Quando uno andava al cimitero, veniva accompagnato dal custode,
e si entrava, due alla volta, in questa cappella dove si poteva osservare
il quadro avvolto in quell'atmosfera, con quel silenzio… quello era il
quadro. Dopo non era più quello." Questa è la televisione, e il suo problema
non è un problema di qualità del prodotto ma un problema di rapporto con
lo spettatore che è alterato, deformato, volgarizzato, banalizzato".
SP: Dei progetti futuri, qualcosa che vorrebbe realizzare?
LM: "Per ora non lo so, non so ancora che cosa farò
nei prossimi mesi. Forse questo anno così fortunato mi ha un po' viziata,
e vorrei fare qualcosa di bello, che mi piaccia davvero, ma finora non
ho trovato niente che mi appassioni".
GF: Tornando al film di Moretti. Ci sono stati ultimamente
dei film che hanno affrontato i temi del dolore, della sofferenza, della
malattia e della morte, ed alcuni hanno avuto una risonanza incredibile
- secondo me più o meno meritata - e tra questi, secondo me in maniera
sicuramente meritata, è stato DANCER
IN THE DARK di Lars von Trier.
LM: "Non l'ho visto…"
GF: e LE ONDE DEL DESTINO?
LM: "Sì, LE ONDE DEL DESTINO l'ho visto…"
GF: Anche se non è girato precisamente secondo i canoni
della regola dogma, io penso che sia un film tipico di Lars von Trier.
Secondo lei, le tematiche del dolore, della malattia e della morte, che
inevitabilmente comportano una condivisione emotiva della materia trattata,
è più giusto trattarle in maniera controllata, come nel caso di Moretti,
oppure con le scelte del DOGMA 95 che lasciano spazio ad una tecnica che
di per sé è una tecnica emotiva, che mette in campo la libertà visiva.
La stessa persona piange in DANCER
IN THE DARK e piange anche ne LA
STANZA DEL FIGLIO: secondo lei si può dire se i temi della morte,
della malattia e del dolore hanno un modo registico di essere trattati?
LM: "No. Io credo che ci sia, come dicevo prima, un'etica
dell'espressione. Ma le vie attraverso le quali venga rispettata sono,
non dico infinite, ma quantomeno molteplici. Non credo assolutamente che
ci sia un solo modo, così come non c'è nella scrittura. Io amo, ad esempio,
degli scrittori diversissimi tra di loro: mi piace Conrad e mi piace Kafka,
mi piace Kleist e mi piace James. Dove sento l'onestà e la verità, qualunque
cosa va bene. Non mi piacciono la menzogna e la manipolazione, la superficialità.
Al di là di questo non c'è regola".
GF: Possiamo definire onesto - dal punto di vista della
manipolazione - il rapporto che un regista come Lars von Trier instaura
con gli attori? Pare che Bjork ne sia uscita distrutta… Non esiste una
sorta di contraffazione nello spingere a tanto un attore?
LM: "Gli attori sono esseri adulti, magari infantili…
Beh, se io fossi regista, probabilmente non farei mai così! Dato il mio
carattere, io farei resistenza a questa volontà di possessione: sono docile
ma indipendente: ho cara la mia libertà. Io credo che avrei delle difficoltà,
anche se poi tutto potrebbe funzionare benissimo. Mi fa paura l'adesione
incondizionata a qualunque cosa, ma questo perché sono io e non è detto
che non sia giusto. Ho appena lavorato due settimane con Mike Figgis,
HOTEL, ed ho avuto qualche difficoltà perché non riuscivo a conservare
quella capacità critica che ritengo fondamentale. E questo non vuol dire
che non mi conceda: credo di fare il mio lavoro con generosità, ma questa
generosità deve comunque essere filtrata dalla ragione, da un esercizio
critico: è parte di me. Alcuni registi con cui ho lavorato soffrono di
quella che chiamo "sindrome di Re Lear": un'avidità di consensi da parte
di chi lavora con loro che, a volte, mi spaventa. Con personaggi come
questi io mi scontro; invece con persone come Nanni, che hanno bisogno
d'affetto, ma non di consenso, mi trovo benissimo".
GF: Può dirci qualcosa in più su HOTEL? Non sapevo che
ci avesse lavorato: proprio oggi, su "Repubblica", ho letto di questo
strano metodo di lavoro…
LM: "Forse non lo saprà nemmeno dopo aver visto il
film… Eravamo moltissimi attori, era molto affidato all'improvvisazione,
cosa non facile, specie per gli attori non di lingua inglese: io non ho
quasi battute. C'erano quattro macchine da presa in quattro luoghi diversi,
e Mike - regista che stimo - non poteva ovviamene essere in tutti i posti
contemporaneamente: per cui spesso si era affidati all'operatore. Ma io
ho bisogno del rapporto col regista e per me era frustrante: io lavoro
per il regista, mi muovo per lui, non per il pubblico o la critica, in
quel momento solo per lui! Una delle prime cose che ci ha detto è "dovete
rubare la macchina da presa!" E' un metodo che non mi piace".
[un grosso bacio a LINDA
per l'indispensabile aiuto]
kmx
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