LA STANZA DEL FIGLIO
di Nanni Moretti
con Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca,
Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando e Stefano Accorsi



recensione di
Andrea DE CANDIDO

Nanni Moretti, da sempre, si occupa di cose che conosce da vicino. Autore autobiografico per eccellenza, ha sempre saputo tradurre - in modo più o meno mediato - la propria personale esperienza e sensibilità in un cinema unico, e non solo per il triste panorama italiano. Un percorso, questo, che l'ha portato, con CARO DIARIO ed APRILE, fino a togliere di mezzo il suo alter ego Michele Apicella ed entrare direttamente in scena come Giovanni detto Nanni Moretti, professione regista, neo-padre. Ma perfino questi suoi ultimi lavori - per quanto lontani dai vertici raggiunti con LA MESSA E' FINITA o PALOMBELLA ROSSA - forse proprio perché legati imprescindibilmente al privato del regista, sono opere cui una seconda o terza visione ci sentiremmo di consigliare sempre e comunque.
Con LA STANZA DEL FIGLIO le cose sono cambiate: il registro diaristico è stato abbandonato in nome del tanto atteso ritorno alla sceneggiatura ed alla fiction. In un certo senso, però, questo film è una sorta di seguito (ma non sequel) di APRILE, in quanto il padre Moretti immagina e mette in scena un evento tragico: la morte del giovane figlio. Immagina, ma (per sua fortuna "privata") non conosce; e questa è l'origine dei mali di un film la cui pecca più evidente è proprio una mancanza di autentica partecipazione ai drammi di cui narra.



La morte, si sa, è dietro l'angolo, può colpire sempre e chiunque, vecchi e giovani (citando il Vangelo, un sacerdote nel film ricorda che "se il padrone conoscesse l'ora di arrivo di un ladro non si farebbe derubare"): ciò è spiegato (se ce ne fosse bisogno) da una sequenza che vede protagonisti, nello stesso momento ma in luoghi differenti, tutti i familiari che, in maniera più o meno volontaria, rischiano un incidente. Andrea muore durante un'immersione e le conseguenze sono ovviamente devastanti. Ma sono quelle che un po' tutti potremmo immaginarci, ma che solo chi ne è stato protagonista può conoscere. Moretti non riesce ad andare tanto oltre la superficialità (ovviamente in senso strettamente narrativo) della realtà di una famiglia distrutta e del venire a galla di problemi prima volutamente ignorati; e non è che il fatto che la tragedia divida marito e meglio invece di unirli (secondo, a detta del regista, quello che vorrebbe il luogo comune) cambi poi molto. Il momento della chiusura della bara se è senza dubbio commovente, lo è tuttavia nel senso più diretto, un po' facile, alla Lars Von Trier degli ultimi tempi: la mdp si ferma pateticamente sulle viti che lentamente fissano il coperchio o sullo stagno che lo chiude definitivamente. Il dolore è enorme, ma (ad essere freddi ed a voler pensare in termini strettamente cinematografici) il pensiero stesso di una simile tragedia basterebbe da solo a suggerirlo: le immagini di Moretti non aggiungono nulla, e il cinema che dà emozioni pure (prive di ricatto) è un'altra cosa. Lo stesso si può dire per la crisi razionalistica che spinge Giovanni a chiudersi nell'illusoria volontà di cambiare il passato: se quella domenica non fosse uscito nulla sarebbe successo; ma questo vale anche per le cose di tutti i giorni, e le scene fantastiche di una vita felice nulla aggiungono al primario, ma - lo ripetiamo - artisticamente povero, istinto di commozione e partecipazione.



Non è mai facile parlar male di film che trattano temi così forti, ma non è nemmeno giusto scordare che ci stiamo occupando pur sempre di film, e dunque di finzione. E' difficile poi criticare quello che consideriamo un maestro assoluto; ma qui quel Moretti non c'è più, tutto è troppo evidente, didascalico, schematico (lo è perfino l'uso di quella canzone di Brian Eno). Lo psicanalista che non può proseguire nel suo lavoro è certo parente del prete solo de LA MESSA E' FINITA (per noi il suo film più bello), ma conosce solo poche delle sue mille sfumature e torture psicologiche, nonché della sua concezione del dolore. Troppo meccanico il rapporto tra lui e il personaggio di Silvio Orlando (indiretto responsabile della tragedia) e i sogni che questi gli racconta. Stefano Accorsi è un po' lasciato a se stesso. Ciò che funziona meglio è la parte iniziale, quella in cui il ritratto della famigliola fin troppo felice inizia ad essere minato: è l'episodio del furto del fossile. Forse poi padre e figlio non sono così in sintonia, e stare vicino e capire Andrea non è facile: di lui in fondo i genitori sanno poco, anche se gli sono sempre accanto; è per questo che, ad esempio, l'incontro con Arianna aprirà spazi nuovi.



Un evidente segno della scarsa ispirazione di Moretti è chiaro poi nell'uso un po' sterile che egli fa del proprio passato cinematografico. Sono molti (Nina Di Majo, Garrone, ecc.) i giovani registi che hanno visto in Nanni il loro maestro, tanto da imitarne goffamente stile, contenuti e perfino manie nelle loro pellicole. Poco male (se non per il cinema italiano...). Peggio è quanto i sintomi di tale atteggiamento si iniziano ad intravedere in Moretti stesso: non c'è nulla di peggio per un autore che scadere nell'automanierismo (Anghelopulos insegna). Qui, sia chiaro, non è ancora il caso, ma alcune cose come la scena delle scarpe, il cantare in macchina canzoni italiane, le carrellate dal basso sulle case, le domande su chi è perché ci vivrà dentro, certi monologhi., ecc. sono spesso fuori contesto e appaiono sinistramente simili a concessioni in onore di quella fascia un po' acritica del pubblico italiano che, da qualche tempo a questa parte, viene definita dei "morettiani".


IL VOTO DI KINEMATRIX: 25/30