39.mo
international film festival
Rotterdam, 27 gennaio / 01 febbraio 2010
le recensioni
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di Marco GROSOLI
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In questa edizione
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"after victory"
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PREMI |
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MUNDANE HISTORY
di A.
Suwichakornpong
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A WALK WORTHWHILE di Milos Forman
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TOAD’S OIL di Yakusho Koji
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10 to 11 di Peli Esmer
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SYMBOL di Hitoshi
Matsumoto
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NIGHT AND FOG di Ann Hui
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CONTENT di Chris Petit
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IN THE WOODS di Angelos Frantzis
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RUHR di James Benning
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MUNDANE HISTORY
di Anocha Suwichakornpong
Thailandia 2009, 82’
Concorso
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27/30 |
La detestabile coppia
Arriaga-Inarritu, di danni ne ha già fatti. E probabilmente continuerà a
farne. Mundane History
avrebbe potuto essere uno di questi danni: il modello di base è sicuramente
quello di 21 grammi o
Babel, ma grazie al cielo
Anocha Suwichakornpong non riesce nel tentativo di emulazione, e ne viene
fuori qualcosa di più e di meglio.
Un giovane esce paralizzato da un incidente. La sua famiglia, più che
benestante, può permettersi di pagarsi un infermiere che lo accudisce a
domicilio. Anche lui molto giovane, riuscirà faticosamente a superare il
disagio e la freddezza reciproci, e a toccare qualche momento di intimità.
Naturalmente, nulla che possa avere un seguito, benché il loro rapporto sia
tutt’altro che privo di echi e suggestioni omosessuali. Se la cosa non può
avere un seguito, ed è dunque votata a sospendersi (“Se non ci fosse il
passato, se non ci fosse il futuro, se ci fosse solo il presente…”), allora
è giusto che la progressione narrativa venga polverizzata, annullata,
disorientata da continue anticipazioni e ritorni indietro. Ci sono persino
due titoli di testa, i primi subito e i secondi dopo svariati minuti (cfr.
Blissfully Yours di
Apichatpong Weerasethekul): dato che la storia è come non fosse mai
iniziata, ma perlopiù congelata allo stato larvale, il film può
legittimamente iniziare due volte. Perché altro non è che il continuo
ripetersi di una medesima impossibilità a svilupparsi.
Ed è in questi espedienti narrativi che si affaccia il rischio
Arriaga-Inarritu (complice anche i tentennamenti un po’ troppo facili e
onnipresenti della macchina da presa). Rischio che per fortuna viene
evitato: anziché il solito stucchevole intersecarsi di storie parallele,
Mundane History procede in
maniera opposta, ovvero esasperando l’infinitamente piccolo (la storia viene
compressa tutta all’interno del microcosmo della casa del paziente e della
sua famiglia) e l’infinitamente grande (il cosmo, nientemeno, e la
perfezione della violenza delle sue sfere, esplicitamente richiamati dalle
impervie e inattese vertigini simboliche dell’ultima porzione di film).
Questi due piani opposti si toccano, per così dire, senza pesanti mediazioni
narrative. O meglio, con la sola mediazione auspicabile in questi casi:
quella di una macchina da presa sensibile abbastanza da scovare pressoché in
ogni scena (che sia perché si avvicina al personaggio più “in ombra”
lasciando quelli più in vista sullo sfondo, o perché indugia sul malato che
non riesce a dire quello che vorrebbe all’infermiere, dopo che questi ha
lasciato la stanza) il punto in cui l’istante si carica di sfumature fino ad
esplodere come una supernova. |
A WALK WORTHWHILE
di Milos Forman
Repubblica Ceca 2009, 85’
Spectrum
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28/30 |
Esiste un genere
cinematografico più noioso dell’operetta jazz filmata direttamente dalla
scena teatrale? È poco probabile. Milos Forman è comunque deciso a
convincerci del contrario.
Dobre placena prochazka è una
pièce del 1965 ormai leggendaria, che Forman aveva già ripreso per la
televisione nel 1966. Nel 2007 la riporta in scena a teatro col figlio Petr,
e oggi ci mostra la versione filmata di quella messa in scena.
Forman comincia con gli esterni, con i totali di Praga, si avvicina passo
passo al teatro, si avvicina alla maschera durante l’ingresso, entra dentro,
osserva pubblico e musicisti prima che il sipario si alzi. Una volta alzato,
siamo alle prese con una satira tremendamente datata del capitalismo
galoppante – che risale appunto a quando, negli anni 60, galoppava ancora.
Una coppia sul punto di divorziare riceve notizia che una ricca zia di
Liverpool donerà loro un milione, ma solo se avranno un figlio.
Naturalmente, i loro programmi cambiano di punto in bianco – anche perché la
zia piomba senza molto preavviso a casa loro.
Esiste qualcosa di meno attraente, oltre che vecchio, di questo? Forman lo
sa: la seconda inquadratura è di un ragno che si arrampica su una statua.
Con l’ironia che contraddistingue lui e il “genio nazionale” ceco, Forman
sembra giocare a carte scoperte, e dire: ok, il mio modernismo, il
modernismo che mi ha reso famoso, non è che modernariato, se non proprio
antiquariato. E subito dopo, però, sembra dire: “e allora?”.
Quello che sulla carta è un disastro, si rivela all’atto pratico una
scommessa vinta. Perché è tutta questione di sfumature: per pura virtù di
stile, questo improbabile musical viene strappato alla contingenza del suo
tempo, e reso vivo qui e ora. Ignorando sovranamente i vetusti giochi tra
scena e fuori scena della pièce (il pubblico che invade il palco, il coro
situato nei foyer e quant’altro), la macchina da presa adocchia di continuo
di qua e di là dalla quarta parete, indifferentemente. Si accumulano
dettagli su dettagli, gesti su gesti, catturati obliquamente (tutto il
contrario della frontalità teatrale) da una cinepresa che li guarda da di
fianco come guarderebbe delle formiche che trascinano delle briciole, e che
colleziona mettendole una di fianco all’altra scintille che si spengono
immediatamente. L’impressione, inequivocabile, è che non ci siano più
attori, ma soltanto un tessuto di azioni microscopiche che degli esseri
umani se ne frega altamente. Un tessuto visivo che si fa subito sinfonico,
musicale appunto. È come se il modo di guardare di Forman venisse dalla
consapevolezza che non ci sono delle persone davanti a un palco ed altre
sopra ad esso per un’ora e mezza, ma che di teatri ce ne sono all’infinito,
invisibili, uno per ogni secondo, uno per ogni gesto, uno per ogni occhiata.
E ci stanno dentro tutti, attori e non.
Se dal teatro non si esce, tanto vale allora gironzolare con aria svagata di
micro-teatro in micro-teatro, con il fare divertito, anarcoide e curioso
della regia di Forman. Una regia che riesce nel miracolo di materializzare
la morale della pièce e farci credere e simpatizzare alla sua imbarazzane
faciloneria: sbattersene, lasciare le piccole avidità del mondo a chi è
abbastanza piccolo da preoccuparsene, e starsene in disparte con sorridente
rassegnazione, come fa l’anziano postino di
Dobre placena prochazka. |
TOAD’S OIL
di Yakusho Koji
Giappone 2008, 131’
Bright Future
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23/30 |
Yakusho Koji è una delle
star più celebri degli ultimi decenni di cinema giapponese. Ha deciso di
esordire dietro la macchina da presa, un po’ per gioco, un po’ come un
momento di puro spreco, di libero sfogo da parte di qualcuno che può
permettersi di fare esattamente quello che gli pare e come gli pare.
Ci si imbarca, allora, in una trama che ahimè prende un po’ troppo, e senza
molta vergogna, dal grande Eureka
di Aoyama Shinji (2000), interpretato dallo stesso Yakusho. Il protagonista
(sempre Yakusho) è un uomo di affari miliardario e fuori di testa, di fatto
un folle bambinone cresciuto. Suo figlio tutt’un tratto va in coma e muore,
lasciandolo solo con l’altro figlio appena uscito dal riformatorio. Comincia
un viaggio che si vorrebbe di formazione, di crescita sulla scia dell’onda
dolorosa del lutto.
Solo che nel film, a quest’onda dolorosa, non ci si crede nemmeno per un
secondo. Yakusho è tremendamente incapace di costruire un solo centimetro di
spessore drammatico. Tutto sa di finto, arbitrario, campato per aria,
pretestuoso. E non è necessariamente colpa del fatto che si spinge a fondo
sul pedale della demenzialità più irresponsabile e scatenata: esistono
senz’altro esempi di film in cui le due cose non sono affatto in
contraddizione (un solo nome: Blake Edwards).
Spira un’aria di sgangheratezza che non è necessariamente spiacevole: in
fondo il fatto che Yakusho non abbia la minima idea di come e dove si piazza
una macchina da presa non è così fastidioso. Non lo è neppure il fatto che
Yakusho non sappia per niente gestire i tempi e lascia gli attori in balia
di interminabili lungaggini e esitazioni. E l’assurdità regressiva in cui
Yakusho indulge, come quando di punto in bianco i protagonisti si ritrovano
in una foresta e vengono inseguiti da un orso, è anche simpatica (per quanto
presa, anche quella da un film in cui ha recitato:
Doppelganger di Kurosawa
Kiyoshi). Però poi se Yakusho si mette a innalzare le maiuscole su Infanzia,
Vita, Morte e quant’altro, e a complicare inutilmente la trama, allora tutto
sbaracca nel ridicolo, e non è il ridicolo di “quello buono”. È una cosa
che, al massimo, fa solo un po’ di pena. |
10 to
11
di Peli Esmer
Turchia 2009, 110’
Bright Future
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26/30 |
L’esordio nel lungometraggio
di Pelin Esmer è stato preceduto da alcuni documentari di un certo rilievo.
Uno di essi era sul nonno di Pelin Esmer, un lucidissimo, spigoloso e
orgoglioso ultraottantenne specializzato in elettrotecnica (a Stanford, fra
l’altro) maniacale collezionista di giornali, svegliette, souvenirs e altre
cose impossibili. La sua casa ne è piena, a fatica ci si cammina dentro.
Addirittura, tra la salvezza del suo matrimonio e il suo patologico
collezionismo è il secondo ad avere avuto la meglio.
Questo 10 to 11 è la
finzionalizzazione di ciò che è raccontato in quel documentario. È il nonno
stesso della Esmer, da non-professionista, ad interpretare Mithat Bey. Il
problema, ovvio ed elementare, diventava immediatamente questo: come
descrivere questo straordinario personaggio non attraverso la descrizione,
ma in termini di azione? La risposta, altrettanto ovvia ed elementare, è
stata: spostando l’asse narrativo sul rapporto tra Mithat Bey e il portinaio
Ali. La dismissione del condominio in virtù del cambiamento di proprietario
diventa l’occasione affinché Ali si profonda in una generosa opera non solo
di salvataggio della monumentale collezione del vecchietto, ma anche di
completamento di essa. Sarà lui a trovare il mitico, rarissimo undicesimo
volume dell’enciclopedia turca che manca alla collezione. Ma lo farà di
nascosto, in sordina (e non senza violare un po’ del resto della
collezione), unico modo per avere a che fare con un irriducibile solitario
gelosissimo dei propri spazi.
Il film si adatta perfettamente a questo understatement. Pelin Esmer
riesce a prosciugare completamente i toni del film, fino a toccare la
secchezza vertiginosa dell’”amicizia virile” tra Ali e Mithat Bey. Ci dà un
assaggio della ripetitiva e metodicissima vita di Mithat Bey, e dopodiché
lascia che questi si chiuda nel suo dignitoso riserbo. Chiusaci gentilmente
la porta in faccia, non abbiamo che da cambiare pianerottolo e da rivolgerci
ad Ali: il resto del film consisterà appunto nel seguire (non pedinare, ma
seguire da una compassata distanza) il portinaio che si addentra in un mondo
non suo (quello dei bugigattoli stracolmi di libri usati, quello delle
piccole contrattazioni al dettaglio) senza nulla in cambio, per semplice
ammirazione di una persona che rispetta. Pelin Esmer si limita a un
tranquillo resoconto di quello che succede, lasciando che Ali ci metta tutto
il tempo che ci deve mettere per spostarsi da quella a quell’altra
destinazione, guadagnando in trasparenza quello che perde in “carica”, e
lascia che il sotterraneo legame tra questi due uomini di poche smancerie
emerga da sé, senza che nemmeno i due si vedano o parlino granché, ma giusto
per quello che fanno e che compiono ognuno per conto suo. |
SYMBOL
di Hitoshi Matsumoto
Giappone 2009, 93’
Bright Future
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27/30 |
Al secondo film da regista
ma già da molti anni attore di fama, Hitoshi Matsumoto si era fatto notare
qualche anno fa col suo esordio Dai
Nipponjin, folle variazione sul tema dei supereroi. Con questo
Symbol, Matsumoto prova a
fare una cosa ancora più folle, ma tanto folle che lascia intravedere
persino una certa logica.
Per la prima ora, Symbol
intreccia due rami narrativi. Uno è un imbevibile plot su un panzuto
messicano in costume verde che prova pateticamente a diventare campione di
wrestling per raggranellare qualche soldo, soprattutto affinché il figlio
possa essere orgoglioso di lui. Il secondo, racconta di un tizio che si
sveglia in una stanza completamente bianca e vuota, dove campeggiano
centinaia di piccoli peni (sic!) di angelo. Quando se ne preme uno, esce un
oggetto sempre diverso: un’anfora, una sedia a sdraio, un getto d’acqua, un
guerriero africano (!) e via deliziando. Come uscire da quelle quattro
impenetrabili mura?
Che la risposta a questa domanda coinvolga il lottatore messicano, lo si
capisce dopo cinque minuti. Quello che si immagina meno facilmente è che
Symbol alla fine si propone
nel modo più sfacciato come un’allegoria dell’intero funzionamento del cosmo
e della storia (sic!). Una – come chiamarla? – “2010 odissea nell’idiozia”,
ad essere buoni, che procede accumulando trovate totalmente arbitrarie e
campate per aria. Che poi questo sia solo irritante o sia invece la coerente
visualizzazione di un mondo la cui unica legge è l’assurdità, come il film
proclama sin troppo esplicitamente, lì sta ai gusti personali stabilirlo. Di
sicuro ci si diverte, anche se con mezzucci un po’ facili. |
NIGHT AND FOG
di Ann Hui
Hong Kong 2009, 122’
Spectrum
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26/30 |
Una strage in famiglia, in
un caseggiato popolare di Hong Kong: un disoccupato di mezza età uccide la
moglie e i figli, e si uccide. Come si è arrivati a questo? Un lungo
flashback, a propria volta attraversato da altri flashback e da continui
avanti-indietro nello spazio oltre che nel tempo, prova a rispondere.
Dapprima con le interviste dei vicini: lui era senza lavoro, e la
frustrazione piano piano monta e fa danni… poi, emergono zone oscure dal suo
passato, quando andò a prendersi la moglie nella Cina continentale
sfruttando non proprio limpidamente la fiducia che i genitori avevano
istantaneamente riposto su di lui.
Tutto sommato, però, questo personaggio maschile non proprio positivo non
perde mai la sua sostanziale umanità. Non è che lo si giustifichi attraverso
un facile ricorso alle circostanze, ci mancherebbe – però Ann Hui non cade
mai in una banale demonizzazione. Tanto quanto non cede alla tentazione
altrettanto facile di sposare il punto di vista femminile della vittima e
confezionare un semplice melodramma. Per quanto il film non faccia certo
gridare al miracolo (anzi, visto il prestigio della regista, era lecito
aspettarsi ben altro), Ann Hui ha capito tutto quello che qui c’era da
capire: in una sceneggiatura così ingarbugliata e così ricolma di punti di
vista e strati narrativi che si sovrappongono, è saggio non sceglierne
nessuno. È saggio, insomma, lasciare decantare il pasticcio che senza dubbio
la sceneggiatura è (anche se non c’è niente che in senso stretto “non
vada”), e riprenderla da una distanza di sicurezza. Ogni scena è trattata
con una serenità e un aplomb tale da cancellare il rischio di “indigestione”
che lo smisurato accumulo di “spiegoni” che ingolfano una sceneggiatura così
contorta e disordinata non poteva non dare.
Dall’inizio alla fine, il film ha l’aria di sospirare e dire “è andata così,
pazienza”. E questo un po’ salva un progetto nato col piede sbagliato, come
lo salva anche una cura per gli ambienti e per i dettagli davvero degna di
migliori occasioni. |
CONTENT
di Chris Petit
Gran Bretagna 2010, 77’
Spectrum
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23/30 |
Da sempre interessato agli
incroci fertili che si possono sperimentare tra letterature e cinema (li ha
praticati robustamente entrambi), Chris Petit torna al road movie che
lo rese celebre nel 1979, Radio on.
Di nuovo, l’automobile è il perno di una visione del mondo che si manifesta
con sfacciata letterarietà. Gran parte del film vede le immagini del mondo
scorrere via (spesso al rallentatore) dai finestrini di una macchina, mentre
la voce over intesse una riflessione “molto scritta” sul presente, sul
passato, sulla Germania, sull’Inghilterra, sulla tecnologia, sulla paternità
e quant’altro.
Purtroppo, però, il discorso che si tenta di scrivere/filmare è
insopportabilmente vecchio, richiuso su se stesso, pretestuoso, prevedibile,
facilissimamente apocalittico. In una parola: baudrillardiano. Che cosa sarà
mai dell’automobile (leggi: la modernità) oggi che le distanze vengono
bruciate dalla rete e da YouTube (leggi: il postmoderno)? Che fine faranno
le immagini oggi che internet imperversa? Che cosa posso dire io a mio
figlio di sei anni?
Petit ci prova a dire qualcosa sui cambiamenti in atto. Ma il primo a
rimanere fermo e immobile su schemi che, è il minimo che si possa dire,
hanno già dato, è proprio lui. Per quanto si sforzi di dire cose
intelligenti attraverso la cura visuale di un tessuto di superfici
traslucide non prive di qualche fascino, non viene detto molto più di quanto
non possiamo imparare da un qualsiasi bignamino sulla Contemporaneità, la
Comunicazione e via equivocando. |
IN THE WOODS
di Angelos Frantzis
Grecia 2010, 97’
Spectrum
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25/30 |
Un film così, tutto sommato,
sta anche simpatico. Tre attori giovani buttati in una foresta (e dintorni,
mare compreso), ripresi con una traballante fotocamera digitale. Dopodiché,
il riversamento su pellicola e un bel po’ di postproduzione per rimestare il
torbido della banda sonora.
La trama di fatto non c’è: i tre giovani (due ragazzi e una ragazza) si
lanciano alla scoperta della reciproca sessualità, sperimentando il contatto
pieno, e praticamente regressivo, con la natura. Non si parlano mai, o
quasi. Tutto quello che fanno è andare in giro, guardarsi, toccarsi,
sfiorarsi, urlare, mugugnare e quant’altro.
Perciò, dopo già qualche minuto, uno constata le intenzioni, la felice
riuscita di qualche suggestivo momento visivo, e si chiede: reggerà? Non
reggerà? La risposta purtroppo è: non reggerà. Perché l’esito dato a tutta
questa fregola di fusione con l’immediatezza dei sensi, è quello più banale:
il vicolo cieco, la morte, l’impossibilità. Tutto il film è infatti un lungo
flashback innescato dall’iniziale esplosione mortale dell’automobile su cui
viaggiavano i tre. Analogamente, il film non riesce a venire a patti con
l’esigenza inevitabile della narrazione. Non basta rifiutarsi di raccontare
una storia per essere antinarrativi. Una volta che organizzi del materiale,
una forma gliela devi dare, e così in un qualche modo il fantasma di una
narrazione ricompare, e si fa sentire pesantemente. Qui, il principio
organizzatore a cui si ricorre è davvero il più banale possibile, vista la
natura del progetto: la metafora del coito. L’orgasmo dettagliato che ci
viene fatto vedere esattamente in prossimità di quando i film devono avere
il loro picco narrativo, è il rozzo esito di un progressivo centellinare le
incursioni nell’hard durante tutto il film.
Non è che sia per forza sbagliato voler rincorrere la pienezza confusa della
sensazione, il fruscio sfocato dello stare al mondo a contatto con cose
estranee. Solo che per ottenere dei risultati (come li ottiene, a volte, per
esempio Claire Denis), ci vogliono delle spalle larghe così. E il fatto che
questa specie di home movie enigmatico e sovrasensuale che è
In The Woods non ce le abbia è evidente da tante cose, ma soprattutto
da un montaggio che il più delle volte è arbitrario, privo di vigore,
timido, immotivato, inconsistente. |
RUHR
di James Benning
Germania 2008, 120’
Spectrum
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28/30 |
James Benning è un cineasta
indipendente statunitense con 40 anni e passa di attività alle spalle. Se
c’è un cinema caparbiamente, programmaticamente lumieriano (nel senso dei
due fratelli lionesi inventori del cinematografo), è il suo. O magari anche
warholiano, ma dipende dai singoli film. Lunghissime inquadrature fisse,
perlopiù campi totali, su paesaggi o porzioni di spazio, che ci vengono
consegnate così come sono a una frontale e fluida osservazione. Niente tagli
di montaggio: quando ce n’è uno, vuol dire che si è passati a un luogo
diverso, a una diversa esplorazione statica dello sguardo.
Ruhr è diviso in due parti.
La prima (circa un’ora) è composta di solo cinque inquadrature. Una strada
dentro una galleria, l’interno di una fabbrica, un muro dove viene apposto
un graffito... Particolarmente importante è quella dell’interno di una
moschea con i fedeli radunati in preghiera: la più chiara affermazione del
fatto che esplorare un luogo non significa affatto fermarsi alla sua
“tipicità”, ai tratti che più comunemente potremmo ascrivere a un luogo come
la regione tedesca della Ruhr, vicina al Reno e ad altissima concentrazione
industriale. Niente “cartoline in movimento”.
Esplorare un luogo con uno sguardo così fisso significa, piuttosto, cogliere
il movimento infinitesimale che lo abita, afferrare i micro-eventi che si
dispiegano al loro interno. Una macchina che si intravede dal fondo del
quadro, passa e scompare (e che spiega peraltro perché sia stata scelta
quella tale angolazione per inquadrare quella strada), le foglie che si
agitano e cadono, una folla che si inginocchia e si rialza ritmicamente, e
di volta in volta dunque rivela e nasconde quello che c’è in fondo
all’inquadratura. Una fila di tubi che vengono spostati lateralmente quando,
da dietro, ne arriva un altro.
La seconda parte, infatti, ci fa vedere per quasi un’ora un’unica
inquadratura fissa: una imponente ciminiera che a intervalli abbastanza
regolari sbuffa, dalle sue pareti laterali, enormi quantità di fumo
biancastro, per poi tornare poco dopo all’inerzia. Si tratta, a modo suo, di
un vero e proprio ritmo. Lo Spettacolo, insomma, si attiva e ci conquista
anche al livello più basilare, terra-terra, ordinario del dispiegarsi del
visibile.
Un’inezia? Forse. Eppure, alla fine della proiezione la sensazione che i
nostri occhi si siano impregnati di una nuova consapevolezza, di una nuova
freschezza, di una nuova e agile pedagogia delle articolazioni sensibili
della vista, è impossibile da trattenere. Il mondo “brulica” sempre più di
quanto la nostra percezione ordinaria sia disposta a riconoscere: tanto più
che Benning con questo film è passato al digitale. L’abbandono del
prediletto 16mm fa perdere qualcosa, in termini di fragranza qui-ed-ora, al
suo cinema; ma poiché quest’ultimo è essenzialmente un microscopio puntato
verso le macrounità del reale (i “luoghi” nel loro senso più generico), il
guadagno di definizione portato dal digitale dota questo microscopio di una
lente magari meno somigliante al nostro occhio, ma più potente. |
SITO UFFICIALE |
39.mo
international film festival
Rotterdam, 27 gen / 07 febbraio 2010
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