39.mo international film festival
Rotterdam, 27 gennaio / 01 febbraio 2010

 

SEZIONE "AFTER VICTORY"

 

di  Marco GROSOLI

- In questa edizione

- RECENSIONI

- PREMI

Probabilmente, ciò che di meglio si è visto in questo trentanovesimo Festival di Rotterdam è stata la sezione “After Victory”, pensata da un cinefilo e studioso di primissima levatura come Olaf Moeller.
La guerra al cinema. Per venire a capo di un territorio così sconfinato, ci si è orientati seguendo quattro aree secondo le quali è stata suddivisa la rassegna.
Una di queste è la guerra d’Algeria, una delle pagine a tutt’oggi più oscure e ambigue della storia francese. Anche perché la vocazione umanistica, democratica, comprensiva delle ragioni del “diverso” di cui la Francia si è sempre fregiata, mai come in quel caso è stata messa davanti alle sue brucianti contraddizioni. Solo pochi anni fa
(L' ennemi intime, 2007), il coriaceo e pirotecnico Florent Emilio Siri (quello di Hostage e Nido di vespe) ci ha mostrato l’ufficiale biondino e “liberal” interpretato da Benoit Magimel impazzire e lasciarsi ammazzare dopo essere passato attraverso mille atrocità che lo hanno convinto dell’inanità delle sue riserve “relativiste” su come poter trattare il nemico. Qualche colpo basso di troppo, qualche vigliaccheria di sceneggiatura, ma nel complesso un’opera di grande interesse, sincera fino all’autolesionismo, e di radicale franchezza riguardo all’impiego massiccio delle torture da parte dell’esercito francese (cosa che, pur in misura minore rispetto al passato, costituisce ancora un certo tabù per l’immaginario e la memoria nazionali). È lì, inevitabilmente, che si va a parare parlando di quella guerra. Lo straordinario Gloria Mundi (Nikos Papatakis, 1976), semplicemente uno dei film-chiave degli anni settanta, parte da un’attrice che si autoinfligge la corrente elettrica nella vasca da bagno per poter interpretare più credibilmente un film sulla guerra in Algeria diretto dal regista che ama. Mai Parigi fu più plumbea e condannata alla miseria della sua ipocrisia “radical chic”, mai film fu più miracolosamente capace di restituire tutta la cupezza dell’inevitabilità che sia la violenza a regolare inevitabilmente qualunque rapporto umano. Tutto è stretto nella catatonica morsa di questo fato ineluttabile, a cominciare dalla recitazione straniata e teatralissima dei personaggi, e dei loro frequenti sguardi in macchina. In Avoir vingt ans dans les aurès, invece, lo scacco tragico delle illusioni “gauchiste” è affidata alla fuga infelice, e risoltasi nel sangue, di un disertore insieme a un prigioniero locale, che non finirà che rafforzare l’autoritarismo delle posizioni più fascistoidi e intransigenti. Il film è tanto piacevolmente sbrindellato quanto tagliente come un bisturi, di un coraggio davvero inaudito nel presentare nel 1972 (epoca in cui quei fatti erano ancora ampiamente soggiogati dalla retorica e dalla rimozione) una demistificazione così avanzata, col suo manipolo di soldati bretoni che si aggira tra le dune senza nessuna coscienza di causa o coordinazione, e pigramente in balia delle poche e confuse informazioni che arrivavano dai centri lontani della politica e del comando. Per realizzarlo, il regista Réné Vautier ha intervistato più di 500 ex soldati, e ha deciso di raccontare solo ciò che trova riscontro in almeno altre cinque testimonianze.
Grande spazio è affidato ai massacri compiuti dai giapponesi in terra cinese tra le due guerre mondiali. Su tutti, svetta la magniloquente epica in bianco e nero di City of Life and Death di Lu Chuan, vinciore di San Sebastian 2009, in cui le immani stragi di civili di Nanchino sono dirette con una fermezza di mano che farebbe pensare a un regista attivo da quarant’anni. Un dominio stupefacente del set e delle orchestrazioni emotive architettate dalla messa in scena, che si sofferma meno sull’inumanità del nemico che sull’impossibilità che la parte umana che persino il nemico possiede potesse incontrare l’umanità prostrata delle vittime, se non in qualche fuggevole incontro subito scongiurato e negato. Ma anche nell’immenso documentario Yasukuni (2007), in cui Li Ying si piazza, con la sua camera a mano, nel bel mezzo delle celebrazioni del 15 di Agosto a Tokyo in onore dei caduti nipponici di quella fase espansionistica, quella più feroce e sanguinaria. La macchina da presa si limita a farsi testimone di “conflitti allo stato brado”: quelli che inevitabilmente esplodono tra gli astanti e i contestatori quando vengono chiamati “eroi” (lo fece anche, in quell’occasione, l’ex presidente del Giappone Koizumi) gli autori di alcune tra le più tremende efferatezze che la Storia ricordi. Yasukuni, con la sua neutralità a diretto contatto con la contraddizione che deflagra davanti al suo naso, coglie il nucleo più autentico e incandescente del “politico” (inteso come categoria antropologica): ovvero il fatto che esso, il politico, si appoggia su una “zona franca” strutturalmente non-politica. L’”ideologia” è tutta in questo legame dialettico. Questa commemorazione dei defunti è il caso limite dell’ideologia: proprio la morte, ovvero ciò che in teoria è maggiormente portato a fuggire la connotazione ideologica e a nascondere il conflitto politico (“i morti sono tutti uguali, rossi o neri”), è invece ciò che fa esplodere, qui ed ora, il conflitto politico. È questo carattere essenziale che individua miracolosamente Yasukuni. È questione di forma, come sempre. E infatti, oltre a 3-4 bellissimi e rarissimi gioielli di cinema “puro” (ancorché propagandistico) direttamente provenienti dagli anni Trenta da ambo i fronti, la rassegna ci offre uno accanto all’altro due documentari di propaganda di identico soggetto (l’invasione giapponese, appunto), ma uno girato dal maestro olandese Joris Ivens (The 400 Millions, 1939), e l’altro da Frank Capra e Anatole Litvak (The Battle of China, 1944). Tanto il primo si concentra sulla restituzione didattico-espositiva degli avvenimenti e la sulla ricostruzione geometrica degli spazi e delle linee che lo compongono, tanto il secondo è un bombardamento del cervello dello spettatore, tutto votato ad impressionarlo con ripetizioni ad effetto e immagini che vogliono colpire più che far capire, shockare più che far vedere.
Non manca, certo, il Vietnam, ma è defilato nelle retrovie con il solo Dead of Night di Bob Clark (1974), nella sezione, diciamo così, “miscellanea”, dove troviamo anche tre notevoli cortometraggi di diverse zone della ex Yugoslavia che affrontano con una certa maturità la guerra che ha sconvolto i loro anni Novanta (specie Tri di Goran Devic, 2009), e tre film israeliani che sono forse il tallone d’Achille di questa programmazione (a cominciare dal pessimo Lebanon, vincitore a Venezia 2009), anche se The Vulture (Yaki Yosha, 1981) è uno strano ibrido di satira e dramma, inquietante perché non si sa bene come prenderlo, se con la leggerezza della commedia degli equivoci o con la pesantezza della tragedia di chi torna sconvolto dal fronte. Non c’è, dunque, più di tanto l’America e le devastazioni imperialiste che ha provocato nei quattro angoli del Globo (il Vietnam appunto), ma viene dato ampio spazio a una guerra tanto rimossa e dimenticata quanto già contenente in nuce i massacri a stelle e strisce del Ventesimo Secolo: quella che vide l’esercito americano sbarcare nelle Filippine tra Otto- e Novecento e fare scempio di un numero spropositato di civili del posto, anche a guerra ufficialmente conclusa. Memories of a Forgotten War (2001) è un intelligente tentativo di fare luce su quegli eventi funesti, non solo disponendo un gran numero di informazioni ma altalenando tra un punto di vista ufficiale/cronachistico a uno più personale, tra lingua inglese e lingua filippina, tra documentario e ricostruzione fiction. Tutta una serie di lacerazioni rese pressoché inevitabili dal fatto che le autrici stesse (Sari Lluch Dalena, Camilla Benolirao Griggers) sono metà filippine e metà americane. Ancora più apertamente e genialmente anticolonialista è il meraviglioso Independencia di Raya Martin (2009), dove la lotta contro l’invasore diventa una lotta dentro le immagini, il vento della poesia che scorre “dentro” le immagini colonizzatrici para-hollywoodiane e le spacca come l’acqua ghiacciando in una crepa (stesso discorso vale anche per il lirismo semplice e toccante del più modesto Ultimo di Khavn de la Cruz, 2008). Ma è soprattutto il grande Vapor Trail di John Gianvito (2009) a fornire un eccellente esempio di cinema politico oggi. Un documentario sulle spaventose devastazioni ambientali causate dagli americani in ampie parti dell’arcipelago: quando hanno smantellato (in tempi molto, molto recenti) le basi militari che conservavano nel territorio, il risultato è stato di intossicare irreversibilmente l’acqua, la terra, l’aria, tutto. E, naturalmente, se ne sono lavati le mani, riversando ingiustamente tutta la responsabilità su un governo locale che, più che calarsi le braghe davanti agli Stati Uniti, non può e non vuole fare. Evitando molto accuratamente ogni sensazionalismo (impresa difficile, data la terrificante eloquenza dei corpi colpiti dallo scempio), Gianvito procede su una specie di doppio binario: da un lato il racconto dell’invasione dei primi del Novecento, dall’altro l’indagine sui luoghi (molte ricognizioni sui paesaggi vuoti) e sulle vittime dei suoi strascichi oggi. Ma soprattutto, segue gli eroici attivisti che con scarsissimi mezzi tentano di mettere una pezza a questa situazione drammatica, andando sul territorio, ascoltando le storie degli abitanti di villaggi letteralmente decimati dall’acqua strapiena di sostanze nocive (ma è l’unica che c’è…), attivandosi anche a livello internazionale… Insomma, Gianvito, in più di quattro (intensissime) ore, lascia ai luoghi e ai fatti tutto lo spessore (e il tempo) di cui hanno bisogno, andando a lambire non tanto gli eventi in sé, ma il peso concreto dell’azione politica, e di ciò che significa scontrarsi con l’opaca forza respingente delle situazioni.
E ci lascia anche, nell’incipit, una straordinaria metafora sulla Storia. Una moneta gira, gira, gira, e alla fine cade: il movimento della Storia è determinato dall’interesse economico, ma ciò che lascia vedere in superficie non è tutto (la Storia la fanno i vincitori), proprio come una moneta appoggiata a un piano manifesta una delle sue due facce, tenendo nascosta l’altra. Quando parla di guerra, il cinema (o i suoi casi migliori, come quelli che compongono questa ottima rassegna) tenta di fare vedere anche la faccia nascosta della medaglia.

SITO UFFICIALE

 

39.mo international film festival
Rotterdam, 27 gen / 07 febbraio 2010