Probabilmente, ciò che di
meglio si è visto in questo trentanovesimo Festival di Rotterdam è stata la
sezione “After Victory”, pensata da un cinefilo e studioso di primissima
levatura come Olaf Moeller.
La guerra al cinema. Per venire a capo di un territorio così sconfinato, ci
si è orientati seguendo quattro aree secondo le quali è stata suddivisa la
rassegna.
Una di queste è la guerra d’Algeria, una delle pagine a tutt’oggi più oscure
e ambigue della storia francese. Anche perché la vocazione umanistica,
democratica, comprensiva delle ragioni del “diverso” di cui la Francia si è
sempre fregiata, mai come in quel caso è stata messa davanti alle sue
brucianti contraddizioni. Solo pochi anni fa
(L' ennemi
intime, 2007), il coriaceo e
pirotecnico Florent Emilio Siri (quello di
Hostage e
Nido di vespe) ci ha mostrato l’ufficiale biondino e “liberal”
interpretato da Benoit Magimel impazzire e lasciarsi ammazzare dopo essere
passato attraverso mille atrocità che lo hanno convinto dell’inanità delle
sue riserve “relativiste” su come poter trattare il nemico. Qualche colpo
basso di troppo, qualche vigliaccheria di sceneggiatura, ma nel complesso
un’opera di grande interesse, sincera fino all’autolesionismo, e di radicale
franchezza riguardo all’impiego massiccio delle torture da parte
dell’esercito francese (cosa che, pur in misura minore rispetto al passato,
costituisce ancora un certo tabù per l’immaginario e la memoria nazionali).
È lì, inevitabilmente, che si va a parare parlando di quella guerra. Lo
straordinario Gloria Mundi
(Nikos Papatakis, 1976), semplicemente uno dei film-chiave degli anni
settanta, parte da un’attrice che si autoinfligge la corrente elettrica
nella vasca da bagno per poter interpretare più credibilmente un film sulla
guerra in Algeria diretto dal regista che ama. Mai Parigi fu più plumbea e
condannata alla miseria della sua ipocrisia “radical chic”, mai film fu più
miracolosamente capace di restituire tutta la cupezza dell’inevitabilità che
sia la violenza a regolare inevitabilmente qualunque rapporto umano. Tutto è
stretto nella catatonica morsa di questo fato ineluttabile, a cominciare
dalla recitazione straniata e teatralissima dei personaggi, e dei loro
frequenti sguardi in macchina. In Avoir vingt ans dans les aurès, invece, lo
scacco tragico delle illusioni “gauchiste” è affidata alla fuga infelice, e
risoltasi nel sangue, di un disertore insieme a un prigioniero locale, che
non finirà che rafforzare l’autoritarismo delle posizioni più fascistoidi e
intransigenti. Il film è tanto piacevolmente sbrindellato quanto tagliente
come un bisturi, di un coraggio davvero inaudito nel presentare nel 1972
(epoca in cui quei fatti erano ancora ampiamente soggiogati dalla retorica e
dalla rimozione) una demistificazione così avanzata, col suo manipolo di
soldati bretoni che si aggira tra le dune senza nessuna coscienza di causa o
coordinazione, e pigramente in balia delle poche e confuse informazioni che
arrivavano dai centri lontani della politica e del comando. Per realizzarlo,
il regista Réné Vautier ha intervistato più di 500 ex soldati, e ha deciso
di raccontare solo ciò che trova riscontro in almeno altre cinque
testimonianze.
Grande spazio è affidato ai massacri compiuti dai giapponesi in terra cinese
tra le due guerre mondiali. Su tutti, svetta la magniloquente epica in
bianco e nero di City of Life
and Death di Lu Chuan, vinciore di San Sebastian 2009, in cui
le immani stragi di civili di Nanchino sono dirette con una fermezza di mano
che farebbe pensare a un regista attivo da quarant’anni. Un dominio
stupefacente del set e delle orchestrazioni emotive architettate dalla messa
in scena, che si sofferma meno sull’inumanità del nemico che
sull’impossibilità che la parte umana che persino il nemico possiede potesse
incontrare l’umanità prostrata delle vittime, se non in qualche fuggevole
incontro subito scongiurato e negato. Ma anche nell’immenso documentario
Yasukuni (2007), in cui Li
Ying si piazza, con la sua camera a mano, nel bel mezzo delle celebrazioni
del 15 di Agosto a Tokyo in onore dei caduti nipponici di quella fase
espansionistica, quella più feroce e sanguinaria. La macchina da presa si
limita a farsi testimone di “conflitti allo stato brado”: quelli che
inevitabilmente esplodono tra gli astanti e i contestatori quando vengono
chiamati “eroi” (lo fece anche, in quell’occasione, l’ex presidente del
Giappone Koizumi) gli autori di alcune tra le più tremende efferatezze che
la Storia ricordi. Yasukuni, con la sua neutralità a diretto contatto con la
contraddizione che deflagra davanti al suo naso, coglie il nucleo più
autentico e incandescente del “politico” (inteso come categoria
antropologica): ovvero il fatto che esso, il politico, si appoggia su una
“zona franca” strutturalmente non-politica. L’”ideologia” è tutta in questo
legame dialettico. Questa commemorazione dei defunti è il caso limite
dell’ideologia: proprio la morte, ovvero ciò che in teoria è maggiormente
portato a fuggire la connotazione ideologica e a nascondere il conflitto
politico (“i morti sono tutti uguali, rossi o neri”), è invece ciò che fa
esplodere, qui ed ora, il conflitto politico. È questo carattere essenziale
che individua miracolosamente Yasukuni. È questione di forma, come sempre. E
infatti, oltre a 3-4 bellissimi e rarissimi gioielli di cinema “puro”
(ancorché propagandistico) direttamente provenienti dagli anni Trenta da
ambo i fronti, la rassegna ci offre uno accanto all’altro due documentari di
propaganda di identico soggetto (l’invasione giapponese, appunto), ma uno
girato dal maestro olandese Joris Ivens (The
400 Millions, 1939), e l’altro da Frank Capra e Anatole Litvak (The
Battle of China, 1944). Tanto il primo si concentra sulla
restituzione didattico-espositiva degli avvenimenti e la sulla ricostruzione
geometrica degli spazi e delle linee che lo compongono, tanto il secondo è
un bombardamento del cervello dello spettatore, tutto votato ad
impressionarlo con ripetizioni ad effetto e immagini che vogliono colpire
più che far capire, shockare più che far vedere.
Non manca, certo, il Vietnam, ma è defilato nelle retrovie con il solo
Dead of Night di Bob Clark
(1974), nella sezione, diciamo così, “miscellanea”, dove troviamo anche tre
notevoli cortometraggi di diverse zone della ex Yugoslavia che affrontano
con una certa maturità la guerra che ha sconvolto i loro anni Novanta
(specie Tri di Goran Devic,
2009), e tre film israeliani che sono forse il tallone d’Achille di questa
programmazione (a cominciare dal pessimo
Lebanon, vincitore a Venezia
2009), anche se The Vulture
(Yaki Yosha, 1981) è uno strano ibrido di satira e dramma, inquietante
perché non si sa bene come prenderlo, se con la leggerezza della commedia
degli equivoci o con la pesantezza della tragedia di chi torna sconvolto dal
fronte. Non c’è, dunque, più di tanto l’America e le devastazioni
imperialiste che ha provocato nei quattro angoli del Globo (il Vietnam
appunto), ma viene dato ampio spazio a una guerra tanto rimossa e
dimenticata quanto già contenente in nuce i massacri a stelle e strisce del
Ventesimo Secolo: quella che vide l’esercito americano sbarcare nelle
Filippine tra Otto- e Novecento e fare scempio di un numero spropositato di
civili del posto, anche a guerra ufficialmente conclusa.
Memories of a
Forgotten
War (2001) è un intelligente tentativo di fare luce su quegli eventi
funesti, non solo disponendo un gran numero di informazioni ma altalenando
tra un punto di vista ufficiale/cronachistico a uno più personale, tra
lingua inglese e lingua filippina, tra documentario e ricostruzione fiction.
Tutta una serie di lacerazioni rese pressoché inevitabili dal fatto che le
autrici stesse (Sari Lluch Dalena, Camilla Benolirao Griggers) sono metà
filippine e metà americane. Ancora più apertamente e genialmente
anticolonialista è il meraviglioso
Independencia di Raya Martin (2009), dove la lotta contro l’invasore
diventa una lotta dentro le immagini, il vento della poesia che scorre
“dentro” le immagini colonizzatrici para-hollywoodiane e le spacca come
l’acqua ghiacciando in una crepa (stesso discorso vale anche per il lirismo
semplice e toccante del più modesto Ultimo di Khavn de la Cruz, 2008). Ma è
soprattutto il grande Vapor Trail
di John Gianvito (2009) a fornire un eccellente esempio di cinema politico
oggi. Un documentario sulle spaventose devastazioni ambientali causate dagli
americani in ampie parti dell’arcipelago: quando hanno smantellato (in tempi
molto, molto recenti) le basi militari che conservavano nel territorio, il
risultato è stato di intossicare irreversibilmente l’acqua, la terra,
l’aria, tutto. E, naturalmente, se ne sono lavati le mani, riversando
ingiustamente tutta la responsabilità su un governo locale che, più che
calarsi le braghe davanti agli Stati Uniti, non può e non vuole fare.
Evitando molto accuratamente ogni sensazionalismo (impresa difficile, data
la terrificante eloquenza dei corpi colpiti dallo scempio), Gianvito procede
su una specie di doppio binario: da un lato il racconto dell’invasione dei
primi del Novecento, dall’altro l’indagine sui luoghi (molte ricognizioni
sui paesaggi vuoti) e sulle vittime dei suoi strascichi oggi. Ma
soprattutto, segue gli eroici attivisti che con scarsissimi mezzi tentano di
mettere una pezza a questa situazione drammatica, andando sul territorio,
ascoltando le storie degli abitanti di villaggi letteralmente decimati
dall’acqua strapiena di sostanze nocive (ma è l’unica che c’è…), attivandosi
anche a livello internazionale… Insomma, Gianvito, in più di quattro
(intensissime) ore, lascia ai luoghi e ai fatti tutto lo spessore (e il
tempo) di cui hanno bisogno, andando a lambire non tanto gli eventi in sé,
ma il peso concreto dell’azione politica, e di ciò che significa scontrarsi
con l’opaca forza respingente delle situazioni.
E ci lascia anche, nell’incipit, una straordinaria metafora sulla Storia.
Una moneta gira, gira, gira, e alla fine cade: il movimento della Storia è
determinato dall’interesse economico, ma ciò che lascia vedere in superficie
non è tutto (la Storia la fanno i vincitori), proprio come una moneta
appoggiata a un piano manifesta una delle sue due facce, tenendo nascosta
l’altra. Quando parla di guerra, il cinema (o i suoi casi migliori, come
quelli che compongono questa ottima rassegna) tenta di fare vedere anche la
faccia nascosta della medaglia. |