festival intern. del film di roma

VII edizione

 

Roma Capitale, 09  / 17 novembre 2012

 

 

recensioni

di SOTTOSANTI, ZULLI, POLEDRELLI

> a glimps inside... di Roman Coppola

> amore liquido di Marco Luca Cattaneo

> alì ha gli occhi azzurri di C.Giovannesi

> aspettando il mare di B.Khudojnazarov

> bullet to the head di Walter Hill

> cosimo e nicole di Francesco Amato

> e la chiamano estate di Paolo Franchi

> eterno ritorno... di Kira Muratova

> GOLTZIUS... di Peter Greenaway

> HISTÓRIAS DE GUIMARÃES di AAVV

> l'isola dell'angelo caduto di C.Lucarelli

> marfa girl di Larry Clark

> razza bastarda di Alessandro Gassman

> razza bastarda (CS) di Sara Poledrelli
> spose celesti... di Alexey Fedorchenko

> the motel life di Gabriel e Alan Polsky

> the twilight saga di Bill Condon

> un enfant de toi di Jacques Doillon

> un enfant de toi (INT) di Azzurra Sottosanti

> il volto di un'altra di Pappi Corsicato

 

amore liquido

di Marco Luca Cattaneo
Italia 2010, 90'

 

Film a sorpresa

Azzurra Sottosanti

29/30

"Liquido" è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita “liquido-moderna" se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquido-moderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo.”

(da Zygmunt Bauman, "Vita Liquida")
 

AMORE LIQUIDO è il primo lungometraggio di Marco Luca Cattaneo, già vincitore di diversi premi in ambito nazionale (uno per tutti, quello del Miglior Film Italiano al Rome Indipendent Film Festival 2010). A dispetto del titolo (tratto dal celeberrimo saggio omonimo del sociologo polacco Zygmunt Bauman), AMORE LIQUIDO è un film sull’immobilismo di un’esistenza. Una storia di alienazione sociale, di solitudine urbana.
Quello fotografato da Cattaneo è l’esempio estremo di una società modellata sull’esperienza del consumo, caratterizzata dalla precarietà affettiva e, in generale, da una liquidità dei rapporti umani, incapaci di solidificarsi e di durare nel tempo. Non soltanto a causa dell’imperante precarietà lavorativa, ma soprattutto in conseguenza di un cambiamento antropologico, che ha radicalmente sconvolto il nostro modo di stare al mondo e di relazionarci con l’altro da noi.
Il regista sceglie la pornografia, e in particolare la sua proliferazione sul web, come punto di osservazione privilegiato per provare a comprendere e per sollevare una questione sugli effetti di un disagio sociale radicato che riguarda tutti.
Il protagonista, Mario (interpretato da Stefano Fregni), quarantenne operatore ecologico di Bologna, con madre malata a carico, vive una vita solitaria e monotona, nella quale la noia e l’appiattimento trovano sfogo solo attraverso il consumo spasmodico di immagini e conversazioni virtuali ad alto tasso erotico.

Mario soffre di quel disturbo psicosessuale comunemente noto come pornodipendenza.

Se è vero, come afferma Bauman, che anche l’amore è finito nel tritacarne della società dei consumi, la chiusura nell’universo pornografico costituisce per Mario l’unico rifugio possibile in cui poter sperimentare e massimizzare il piacere di una vita fatta di solitudine e di introversione, permeata da un senso di responsabilità che non di rado si trasforma in senso di colpa.

La pornodipendenza fa parte di questo vuoto esistenziale: soddisfa un sentimento di inadeguatezza, che si risolve nella potenza di atti sessuali consumati in privato, nella solitudine della propria camera o nella vastità del proprio mondo onirico.

L’autoerotismo come metafora del solipsismo esistenziale e relazionale.

Una condizione che trovava ben altro esito nell’acclamato recente film di Steve McQueen, SHAME, il cui protagonista, Brandon (interpretato dall’ottimo Fassbender), è vittima, proprio come Mario, di una dipendenza dal sesso che finirà per cannibalizzare ogni aspetto della sua vita. Mario è l’alter ego di Brandon, il suo opposto caratteriale ed estetico. Se il protagonista del film di Mc Queen, infatti, sublima il proprio vuoto nel consumo affannoso di atti sessuali fugaci, la frustrazione del protagonista di AMORE LIQUIDO è tale da impedirgli di intrattenere rapporti, seppur occasionali, con donne reali. L’uno è l’emblema dell’impotenza, l’altro del desiderio di onnipotenza.

È questo senso di inadeguatezza che paralizzerà il protagonista nel suo lento avvicinarsi a quella che sembrava potesse essere la donna della sua vita: Agata, ragazza madre bella e bisognosa di tenerezza.

Mario, come Brandon, si troverà impotente e impaurito  di fronte all’atto sessuale ed amoroso con una donna con cui sembra profilarsi la possibilità di una relazione reale.
"È il paradosso della postmodernità liquida” dichiara Bauman in un’intervista di qualche anno fa, “Di fronte al per sempre ci troviamo impauriti. Solo che, senza un impegno esclusivo e nel tempo, i nostri legami sono fragili e anche il rapporto d'amore risulta esasperatamente insicuro. Questo crea uno stato di ansietà permanente in cui è sprofondato l'uomo d’oggi”.(1)
Il film si conclude, esattamente com’è iniziato, con l’immagine di una Bologna agostana fantasmatica e semi-deserta, simbolo di quel blocco, di quel vuoto d’amore che affligge i protagonisti della vicenda.

(1) Intervista concessa da Zygmunt Bauman al giornalista Pierangelo Giovanetti per Avvenire del 2 febbraio 2006.

il volto di un'altra
di Pappi Corsicato

Italia  2012, 83'

 

Concorso

Sara Poledrelli

27/30

Una black comedy dai toni grotteschi e surreali è la proposta del regista napoletano Pappi Corsicato (I buchi neri, 1995; Il seme della discordia, 2008) per questa settima edizione del Festival del Cinema di Roma. Una favola morale dalle suggestioni almodovariane (difficile credere che l’ex-assistente alla regia di Légami!, non abbia preso almeno vagamente spunto da La pelle che abito) che denigra il mondo dell’apparire schiavo dell’estetica e distante dall’etica, con i suoi fulcri principali radicati nella chirurgia plastica e nella televisione. La vicenda si svolge infatti in una clinica estetica diretta dal medico René (Alessandro Preziosi) e da cui viene trasmesso un improbabile programma televisivo, condotto dalla moglie Bella (Laura Chiatti), showgirl di grido la cui faccia però pare abbia stancato. Un incidente automobilistico sembra dare l’opportunità ad entrambi di tornare sulla cresta dell’onda, incassando tra l’altro una lautissima assicurazione. Ma il ricatto di un addetto alle pulizie della clinica e alcuni torbidi risvolti complicheranno l’esito auspicato dai due protagonisti. Da questa sordida vicenda di falsità e menzogna in cui niente è mai come sembra, Bella riuscirà a redimersi, confessando in pubblico la sua disonestà. Ma il connubio tra jet set affabulatore e pubblico credulone è talmente radicato che l’avvenente presentatrice viene applaudita non per la sua ammissione, ma per l’abilità nel realizzare un piano illecito mantenendolo tanto a lungo nascosto. La punizione divina, comunque non tarda ad arrivare e anzi è tempestiva – avviene proprio nel momento topico del film – l’esplosione delle tubature che sommerge la clinica di liquami fetidi, dando una degna chisura metaforica a questo apologo surrealmente moraleggiante. È un peccato che il regista (sceneggiatore insieme a Monica Rametta, Gianni Romoli, Daniele Orlando) non si sia fermato qui, perché assolutamente insensato nell’economia del playscreen risulta l’asteroide, minaccia paventata durante tutto il dipanarsi della storia e che alla fine si schianta sulla macchina della protagonista, già scappata alla catastrofe scatologica, senza per altro sfigurarla. È questo uno dei tanti elementi che rendono debole la sceneggiatura, troppo poco consistente rispetto al dispiegamento di sperimentazione e innovazione di cui Corsicato dà ancora una volta prova a livello filmico.

cosimo e nicole

di Francesco Amato
Italia 2012, 101'

 

Premio Prospettive Italia
per il miglior Lungometraggio

 

Azzurra Sottosanti, Lilith Zulli

30/30

“I ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è la loro ombra soltanto

Che trema nella notte”

Jacques Prevert

 

Sorprendente e vitale, COSIMO E NICOLE è il vivo ritratto dell’amore giovane e intenso tra una ragazza francese (Clara Ponsot) e un ragazzo italiano (Riccardo Scamarcio), che si incontrano a Genova durante gli scontri del G8. Un amore improvviso, lungo come un viaggio attraverso l’Europa, un amore vissuto senza limiti e senza preoccupazioni, a ritmo di musica rock. Opera seconda del trentaquattrenne Francesco Amato - già vincitore del Premio Visioni Italiane a Torino e diplomato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia - il film si aggiudica il Premio Prospettive Italia per il miglior lungometraggio.

COSIMO E NICOLE narra di due destini incrociati, uniti nel profondo. E lo fa senza mai staccare lo sguardo dal contesto sociale circostante, che fa da sfondo alle vicende dei due protagonisti, che si muovono nello spazio/tempo di un’Europa e in particolare di un’Italia attanagliata da problematiche sulle quali è ancora tempo di riflettere. La questione, tuttora irrisolta, dei cosiddetti fatti di Genova, nonché tematiche come la precarietà occupazionale e la non regolamentazione dei contratti di lavoro, l’immigrazione clandestina, le morti bianche, l’ingiustizia sociale, sono portate sullo schermo senza alcuna retorica e, lungi dall’essere riportate come semplici note a margine, fungono da propulsori per le azioni dei protagonisti. Queste le parole del regista: “Tutto nasce dal desiderio di raccontare, attraverso la storia di una giovane coppia, la generazione a cui appartengo. Sono andato alla ricerca di due ragazzi che si amassero davvero, con la libertà di chi non ha niente da perdere, senza prudenza, senza paura, solo passione”.
Cosimo e Nicole vivono alla giornata, non fanno progetti, si spostano dall’Italia alla Francia e viceversa con disinvoltura, seguendo soltanto il ritmo del loro cuore: un cuore giovane, appassionato, ribelle, che vuole “cambiare” e migliorare il mondo, che vuole disfarsi delle regole, che segue solo le leggi della musica. E il tempo di questo film è soprattutto un tempo musicale: una musica giovane, come le musiche originali di Francesco Cerasi e i brani eseguiti dal vivo da Afterhours, Marlene Kuntz, Bud Spencer Blues Explosion, Verdena, Lucariello e Sandro Joieux.

Il suono la fa da padrone: suono inteso come musica, ma anche come rumore, come vocalità: l’accento francese di Nicole dà una scansione particolare alle frasi italiane e lo fa maggiormente contrastare col racconto di Cosimo (i due ragazzi vivono il percorso di espiazione in maniera decisamente differente), attribuendo una diversa intensità emotiva ai due racconti fatti in prima persona.

Ha dichiarato Amato: “Cosimo e Nicole sono due ragazzi che di fronte al dolore e alla colpa reagiscono in modo opposto, prendono strade diverse scoprono in fondo di essere diversi. L’amore li ha uniti, ma non basta per renderli una cosa sola. La prova del dolore li divide. Per riscattarsi e salvare il rapporto occorre fare i conti, per la prima volta, col mondo fuori dal loro rapporto”.

Ed è attraverso il viaggio (reale e metaforico, esterno e interiore), da sempre paradigma dell’esperienza autentica e diretta, che i due protagonisti riusciranno a riprendere contatto con il mondo fuori da sé, a riappropriarsi delle loro vite e della realtà che li circonda, compiendo un percorso di costruzione e ricostruzione dell'identità che cambierà per sempre il loro modo di stare al mondo.

Una sorta di romanzo di formazione in negativo, dunque. Un viaggio iniziatico attraverso il quale i due protagonisti realizzeranno la loro palingenesi, morendo e rinascendo e ritrovandosi, ancora una volta, uniti. Quel viaggio che – come scriveva Camus - “è come una scienza più grande e più grave, che ci riporta a noi stessi.”

aspettando il mare

di Bakhtiar Khudojnazarov
Russia 2012, 109'

 

Fuori concorso

Lilith Zulli

30/30

Sete nel deserto

 

Aspettando il mare è la storia della desertificazione del Lago d'Aral e della parallela desertificazione emotiva del protagonista del film, il capitano Marat, distrutto dal dolore per aver perso moglie ed equipaggio durante una burrasca. Ma è anche la storia di un viaggio catartico verso il mare, e verso l'acqua, alla ricerca di un passato, quello della tradizione marinara che caratterizzava l'economia locale, e alla ricerca di una “nuova vita”.

Mancano sicuramente nel film riferimenti temporali precisi perché il tempo di questa storia è il tempo dell'anima: così date, periodizzazioni, epoche perdono importanza. La grande ellissi temporale dal naufragio al ritorno al villaggio di Marat - segnalata da un semplice “qualche tempo dopo” - si comprende solo dal fatto che Tamara, la cognata, da bambina si è trasformata in una donna: sono passati 10, 15 anni ma potrebbe non essere passato neanche un giorno perché il dolore e lo smarrimento sono immutati nell'animo di Marat e nell'animo di tutti gli abitanti del villaggio. In contrasto, sembrano dilatati i tempi del viaggio del capitano e la sua nave verso il mare: dilatati dalle scene di dolore e fatica, dagli ostacoli - gli abitanti del villaggio che lo deridono e lo detestano - e amplificati dal paesaggio immutabile.

Il deserto è, d'altronde, il grande muto protagonista di questo film. Emblema fortissimo di solitudine interiore, è sottolineato da una meravigliosa fotografia, dove neve e deserto si confondono in quanto  simboli comuni della carestia -  crisi economica, presenza di orfani e vedove “abbandonati” al loro destino, degrado sociale.

L'unico a credere ancora nello scorrere del tempo è il fedele amico Balthasar che amministra l'aeroporto e custodisce gelosamente in un “Museo del Porto” tutti i cimeli dell'antica tradizione marinara. A Balthasar la narrazione affida il compito di difendere la memoria storica, le tradizioni e l'identità di quel popolo contro una società che, privata del mare come sua fonte primaria di ricchezza economica, si avvia al degrado economico, sociale e culturale. In questo piccolo universo   dove la saggezza e la medicina sono affidate ad una sciamana locale, il potere è in mano ad una banda di balordi e giovani teppisti, dove il lavoro è faticosissimo ma non redditizio, il popolo perde  ogni legame col proprio passato e ogni speranza nel futuro.

Energica è, in effetti, la differenziazione tra la nuova e la vecchia generazione del villaggio: quest'ultima è rappresentata dal padre di Dari - la moglie defunta di Marat - e Tamara, uomo dalla tempra forte, ma dal cuore sensibile, antico capitano di mare, va a morire in solitudine, in pieno deserto.

Un paesaggio riarso e bellissimo, biancastro nel suo essere desertico, dove l'assoluta mancanza di acqua si fa metafora espansa dell'anima di Marat, priva ormai di pace e di sollievo. Afflitto dal rimorso, Marat sente di poter espiare la sua “colpa” solo riconquistando un felice passato e parte all'utopica ricerca di Dari e dei suoi marinai. La sua lotta contro la fatica e contro la distanza materiale che separa la sua nave dall'ambito mare è apparentemente paradossale, ma l'indugiare della cinepresa sui suoi muscoli tesi, sul sudore, sulle ferite, sulla fisicità esprimono la realtà dell'azione e della storia. Così come estremamente materiale è la conclusione del viaggio di Marat e la stessa conclusione della pellicola. Ma non vi anticipiamo nulla. Chi ha fiducia nel futuro e coraggio, nel viaggio della propria vita, sa già come va a finire.

spose celesti

dei mari della pianura

di Alexey Fedorchenko

Russia 2012, 106'

 

Concorso

Azzurra Sottosanti

30/Lode

Un piccolo capolavoro della cinematografia post-sovietica, un dipinto a olio in una cornice sospesa tra magia e realtà. Ventitré storie di donne, storie di misteri, di incantesimi, di battaglie, di quotidianità al femminile, in una Russia dai colori sbiaditi, dove le tradizioni popolari s’intrecciano con le leggende e i riti di una comunità in cui la poesia è ancora al servizio del sacro.
Le donne di Fedorchenko sono donne forti: donne mature e adolescenti cresciute in fretta, fragili figure aggraziate e titanesse, esseri divini e tuttavia terreni, al centro del cui universo si colloca il rapporto con l’uomo.
Un film fatto di epifanie, dalle quali emerge una condizione della donna quanto mai lontana da quella della cultura europeo-occidentale.
Una carrellata di ritratti muliebri sullo sfondo di una terra sconosciuta e misteriosa. Un viaggio in una regione, la Repubblica dei Mari, in cui il rapporto dell’uomo con la natura ha ancora una dimensione sacrale, totemica.
Una riflessione feroce che attraversa tutte le sfumature dell’amore, da quello tragico a quello a lieto fine, dal desiderio puro all’amor carnale.
Più che un film surreale, un film alter-reale.

e la chiamano estate
di Paolo Franchi

Italia  2012, 89'

 

Concorso

Sara Poledrelli

26/30

Delude, e tanto, l’atteso e temuto film di uno dei più discussi e controversi registi del cinema italiano contemporaneo, Paolo Franchi (La spettatrice, 2003; Nessuna qualità agli eroi, 2007). Un film che sulla carta avrebbe tutte le caratteristiche per essere un’opera d’essay (a partire dal cast, dalla fotografia, dalle musiche) e che invece si perde tra la gratuità di scene al limite del pornografico e la scarsa originalità di un soggetto che niente di nuovo aggiunge alla nostra conoscenza dell’animo umano: un uomo incapace di conciliare amore e sesso, la purezza del sentimento e la carnalità del desiderio. Viene rappresentata qui l’aporia (naturalmente portata alle sue estreme conseguenze) dell’uomo occidentale vittima della dicotomia, di matrice paltonica e cristiana, tra anima e corpo. E così assistiamo alle vicende di un uomo che preso da sensi di colpa e di inadeguatezza nei confronti della donna di cui è innnamorato, non riesce ad amarla fisicamente, sfogando le proprie pulsioni sessuali nella maniera più brutale con prostitute, orge, incontri al buio nei privées di locali notturni. L’irriducibilità di questa schizofrenia erotico-sentimentale porta Dino (Jean Marc Barr, doppiato da Adriano Giannini), il protagonista, a suicidarsi (epilogo intuibile fin delle primissime scene), per non cadere nel teorema wildiano - già celebrato sul grande schermo dal Fassbinder di Querelle - dell’Each man kills the thing he loves, distruggendo la cosa più bella che ha ovvero l’amore per Anna (Isabella Ferrari). Anna, dal canto suo, accetta la non semplice situazione, anche quando scopre la vita parallela di lui, e rimasta sola, dovrà lottare per non sentirsi responsabile del drastico gesto di Dino. Torna a più riprese durante il film l’ossessiva affermazione di lei che davanti allo psicanalista cerca di autoconvincersi della propria innocenza morale (alla fine insomma, lui è riuscito a distruggere ciò che amava, ricadendo nell’assioma da cui voleva scappare). La reiterazione, inoltre, di alcune frasi e di alcuni passaggi salienti è una delle chiavi narrative adottate dal regista nell’architettura del suo racconto filmico. Un continuo susseguirsi di erase and rewind che mostra caleidoscopicamente come sono avvenute le cose e come invece avrebbero potuto essere nel desiderio e nella fantasia dei protagonisti. Un espediente interessante, per quanto talvolta risulti un po’ abusato.
Se il soggetto, dunque, non è del tutto originale - anzi risulta quasi demodé (poteva essere provocatorio negli anni ’70, ma di sicuro non può pretendere di essere innovativo a confronto con la scarna, spietata e acuta narrazione di Shame) - e la sceneggiatura risulta piuttosto debole (i dialoghi non rendono lo spessore della vicenda che si vuole raccontare; i sogni costruiti attingendo al più banale repertorio del simbolismo psicologista), è invece interessante la ricerca espressiva per quanto riguarda il linguaggio cinematografico: è un film ben ripreso, ben fotograto e ben montato. Molto bella l’inquadratura iniziale, una sorta di ouverture al film, con la luna riflessa nell’acqua (luogo dove, scopriremo, il protagonista si è suicidato) che sulle note della canzone di Martino, si fa quadro astratto, gioco di linee e forme riflesse risaltato da un lentissimo movimento di camera. è raffinato e complesso l’articolarsi del racconto attraverso la lettera di Dino, i ricordi e le fantasie dei protagonisti (evidenziate dallo sfumato bianco), i commenti di amici e conoscenti in off sull’inquadratura fissa di alcune foto, la ripresa diretta delle vicende di Dino e Anna. Molto sfruttato ed efficace il primissimo piano come a voler rendere l’ipersoggettività del punto di vista di chi parla. Belle sono anche le musiche originali di Philipe Sarde e opportuna la scelta dei brani.
La ragione, insomma, per cui questo film non arriva ad essere l’opera matura e completa che ci si aspettava, è da cercare più nei contenuti (soggetto e sceneggiatura) che non nella sua realizzazione squisitamente cinematografica che al contrario vanta numerosi elementi di pregio.

marfa girl

di Larry Clark
Stati Uniti 2012, 106'

 

Vincitore ed. 2012

Lilith Zulli

29/30

Con Marfa Girl, film coerente e multi sfaccettato, Larry Clark, artista e fotografo tra i più importanti degli ultimi 50 anni, si aggiudica sorprendentemente la vittoria del Marc’Aurelio d’Oro alla VII Edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.
Nella città di Marfa, in Texas al confine col Messico - la stessa città in cui è ambientato
Il Gigante, l’ultimo film con James Dean - il sedicenne Adam, metà bianco e metà messicano, vive solo con sua madre, una collezionista di uccelli attratta dalle filosofie orientaleggianti. Intorno a loro un’eccentrica comunità di artisti dall’atmosfera molto hippie si concede al sesso libero, fuma marijuana, si interessa alle filosofie mistiche, si veste come se fosse negli anni Settanta, fa concerti in casa con mood che sembrano richiamare la musica dei Doors. Tra di essi, in particolare, una ragazza senza nome che studia arte - la ragazza di Marfa, appunto - cerca di dare ad Adam un’educazione sessuale, parlandone in maniera schietta e disinibita. A Marfa, i conflitti etnici sono intensi e la polizia di frontiera è una presenza asfissiante per i cittadini. Inoltre, il poliziotto Tom ha una strana fissazione per Adam e sua madre: razzista, mentalmente confuso da un’infanzia dura, violento e fissato con le armi sembra incarnare - con aspetti talvolta grotteschi - quella parte bianca della popolazione texana votata al conservatorismo e, talvolta, al razzismo.
Il film - a prima vista un racconto controverso e provocatorio a base di sesso, droga, rock and roll, arte, violenza e razzismo - ha la capacità di affrontare con realismo i problemi di quelle zone di frontiera tra Messico e USA, affrontando la questione dell’immigrazione e dell’integrazione razziale tra texani, immigrati e ispanici sul piano sociale, culturale e del lavoro. Larry Clark ha dichiarato: «Non cerco di essere controverso, cerco solo di essere onesto e di raccontare la verità sulla vita. Provenendo dal mondo dell’arte, non ho mai pensato che vi fossero cose che non è possibile fare o mostrare. Penso che i film hollywoodiani sottovalutino i loro spettatori. Sono un artista da moltissimi anni, e non sono interessato a fare film per soldi. Sono interessato a realizzare opere che mi soddisfino, a mostrare vite che non vengono normalmente mostrate. Se potessi vedere altrove ciò che cerco di rappresentare, forse non farei più cinema».
Nel film c’è una forte insistenza, per certi versi ossessiva, sul corpo umano e le sue sensazioni, con inquadrature che spesso “lo fanno a pezzi”- non con l’uso dello zoom, ma piuttosto dei tagli. La macchina da presa sceglie di tagliare il corpo, quasi vivisezionarlo, e così anche il sesso si rivela non una semplice occasione voyeuristica, ma un modo di indagare il piacere del corpo e le reazioni del corpo al piacere. E in effetti, le sensazioni del corpo nel film ci sono tutte o quasi: il piacere, il dolore, l’eccitamento, lo stupro, la gravidanza, l’adolescenza
- il corpo che cresce, cambia, matura, acquista consapevolezza - i tatuaggi, la circoncisione. Il richiamo, fortissimo, è alla body art, a Gina Pane e alla fotografia di Cindy Sherman, di Ana Mendieta e delle femministe degli anni Settanta. A un certo punto nel film, la ragazza di Marfa dice a proposito della sua ricerca artistica sui nudi: “Da quando son qui il paesaggio mi ha ispirato di spogliare le cose al minimo essenziale”. E in effetti, questo paesaggio riarso, un po’ desertico, quasi spoglio ben accompagna il racconto sottolineandone il mood complessivo e non distogliendo l’attenzione dello spettatore dal protagonista che è il corpo umano.

alì ha gli occhi azzurri
di Claudio Giovannesi

Italia  2012, 100'

 

Concorso

Sara Poledrelli

30/Lode

 “Alì dagli Occhi Azzurri / uno dei tanti figli di figli, / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame […] / Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, / a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane. […] / Da Crotone o Palmi saliranno / a Napoli, e da lì a Barcellona, / a Salonicco e a Marsiglia, / nelle Città della Malavita […]”
"
Profezia", P.P. Pasolini


Una citazione, quella del titolo scelto dal giovane regista romano Claudio Giovannesi, che ha senza dubbio il sapore dell’omaggio. Al poeta, al cineasta, al pensatore profetico che aveva presagito il terremoto della pluralità etnica che sta scuotendo la nostra società. Pier Paolo Pasolini, assassinato a Ostia; e non è un caso che proprio questa sia la location del film.
Una citazione che indubbiamente contiene anche un implicito valore programmatico: quello di inserirsi nel solco di un cinema di ispirazione neorealista, fatto per la strada, con ragazzi di strada, per raccontare il loro vissuto contrastato, il loro disagio, i loro slanci e i loro conflitti, le dinamiche interculturali, che agitano, dentro e fuori, gli abitanti comunitari ed extracomunitari delle periferie italiane.
E così la vicenda di Nader, uno dei tanti Alì dei nostri giorni (1), diventa il caleidoscopio attraverso cui il regista ci mostra il fenomeno della multiculturalità nella provincia italiana in tutte le sue molteplici declinazioni. Un adolescente, la cui ricerca di individuazione identitaria tipica della sua età, è aggravata dal fatto di essere figlio di immigrati (nella fattispecie egiziani), in bilico quindi tra due culture che tenta con tutte le forze di risolvere dentro di sé. Che vorrebbe dimostrare ai suoi quanto è più “italiano” di loro, ribellandosi ai divieti religiosi che gli proibiscono di innamorarsi di una ragazza non musulmana. Ma che si scopre molto “arabo” nel non accettare la corte che l’amico Stefano rivolge alla sua sorella minore. Che sente l’ingiustizia del crocifisso appeso nella sua aula a scuola. Che alla fine, scappato di casa e braccato da alcuni rumeni che vogliono vendicarsi su di lui, rinuncerà alla sua amata, ma senza per questo tornare in famiglia. Intuiamo che Nader continuerà solo la ricerca della propria identità personale e culturale.
Ci resta l’eco di una domanda in quell’assenza apparecchiata per cena che è la protagonista dell’ultima scena: qual è lo spazio concesso a un essere umano tra un orizzonte d’origine, che non gli corrisponde più, e un orizzonte di destinazione, che ancora non lo accoglie pienamente? Questo senso di esilio e di orfananza abita in fondo ognuno degli attori sociali nell’incontro interculturale che la contemporaneità ci chiama a vivere: tutti, chi più chi meno, siamo spinti a ridefinire, a mettere in discussione la nostra identità culturale nel rapporto con l’altro.
Sospeso tra stile documentaristico e racconto di finzione, Alì ha gli occhi azzurri può essere considerato uno spin-off del documentario "Fratelli d’Italia", presentato da Giovannesi al Festival del Film di Roma nel 2009, il cui terzo episodio aveva per protagonista lo stesso Nader del film.
La scelta di attori non professionisti, così come l’abbondante uso della macchina a spalla, dei primissimi piani e delle inquadrature degli spazi urbani, imprimono al film un pronuciatissimo realismo, sottolineato ulteriormente dalla fotografia (Daniele Ciprì) che privilegia la luce naturale. Il confine tra finzione e realtà insomma è labile, perché anche gli elementi di finzione si fanno iperealistici in questa narrazione, che indaga con autenticità e senza veli i rapporti interculturali, e alla base della quale sta un grande lavoro di documentazione. L’opera di Giovannesi può essere considerata un’espressione contemporanea del neorealismo italiano.
 

(1) Giovannesi racconta che rimase sorpreso dalla coincidenza che Nader, il giovane che interpreta il protagonista del film, avesse l’abitudine di usare lenti colorate azzurre.

eterno ritorno: provini

di Kira Muratova
Ucraina 2012, 114'

 

Concorso

Azzurra Sottosanti

21/30

Ci si aspettava di più da questo film di Kira Muratova, esponente di spicco della Nouvelle Vague sovietica e vincitrice dell’Orso d’argento a Berlino nel 1990 con SINDROME ASTENICA.
ETERNO RITORNO appare più come un divertissement che come un vero e proprio film.
Un omaggio giocoso della regista al lavoro dell’attore, alle mille sfaccettature che caratterizzano interpreti e personaggi.
Muratova sceglie di porre lo spettatore di fronte ai provini di un ipotetico film, che vengono, di volta in volta, visionati da un improbabile e orgoglioso finanziatore, più interessato alla gloria che alla qualità stessa della pellicola.
Un film (anzi, più film) nel film, dunque. Un esperimento di meta-cinema non dotato, però, del giusto vigore concettuale.
Perfettamente in linea con il suo titolo, ETERNO RITORNO mostra come, andando avanti con i provini e procedendo di attore in attore, di coppia in coppia, passando attraverso eventuali scambi di coppie, si potrebbe proseguire all’infinito. In eterno, appunto.
La stessa scena (un uomo indeciso su come comportarsi poiché innamorato al contempo di due donne, si confida con un’ex compagna di scuola che non vede da anni) viene infatti reiterata decine di volte, all’interno di cornici scenografiche spesso identiche, seppur bellissime.
Un film sulle sfumature, dunque. Un modo sottile di dimostrare allo spettatore come una semplice sequenza possa modificarsi – arricchendosi o impoverendosi – al variare degli interpreti. Basta uno sguardo, una parola, un gesto, un diverso tono di voce, la bellezza più o meno prorompente di uno dei protagonisti, a far mutare l’atmosfera dell’intera scena, facendo di una banale storia un dramma o una commedia.
Coerente con il proposito di omaggiare la figura dell’attore, Muratova sceglie alcuni dei più importanti attori russi contemporanei per interpretare gli attori del film: Oleg Tabakov, Alla Demidova, Renata Letvinova, Sergey Makovetsky, Georgy Deliev, Natalia Buzko, Vitaliy Linetsky, Uta Kilter, Yuri Nevgamonny, Gennady Skarga.
Neanche questo basta, però, a convincere lo spettatore, che, lungi dall’essere portato ad un’elaborazione delle immagini e di un contenuto estenuato per quasi due ore, esce stremato dalla visione del film.
Una nota di merito va, ad ogni modo, alla fotografia: un bianco e nero elegante e fortemente contrastato, valorizzato dalla scelta di ambientazioni affascinanti dal gusto bohémien.

Històrias de Guimaraes

 

O dom das làgrimas

di Joao Nicolau

Portogallo  2012, 25'


O Bravo Som dos tambores
di Joao Botelho

Portogallo  2012, 24'


Vamos Tocar Todos Juntos

Para Ouvrimos Melhor
di Tiago Pereira

Portogallo  2012, 25'

 

Fuori concorso

Lilith Zulli

30/30

"Historiàs de Guimaraes" è il nome di un programma presentato in anteprima il 9 novembre  scorso al Festival Internazionale del Film di Roma e composto di tre cortometraggi dedicati alla città lusitana di Guimaraes in Portogallo. L’occasione è quella della celebrazione di Guimaraes come Città Europea della Cultura 2012. E, in effetti, i tre film sembrano essere  delle vere e proprie escursioni alla scoperta della città e dei suoi luoghi anche se utilizzano tre punti di vista differenti:  la natura, l’arte e la musica.  Con un guardo fortemente antropologico, i tre registi analizzano – ognuno in maniera personalissima – il rapporto tra società, natura e tradizione. L’idea comune è quella dell’appartenenza ad un luogo attraverso la conoscenza del tradizioni e del folklore. “Aqui Nasceu Portugal” è la scritta che campeggia sulle antiche mura difensive della città del XIV-XV secolo: la scritta si riferisce al fatto che Guimarães è soprannominata “la culla del Portogallo” ed è il luogo dove vennero combattute lotte e battaglie per l'indipendenza e per la Nazione – tra cui la celebre battaglia di S. Mamede nel 1128.
 

O Dom das Làgrimas di Joao Nicolau è un autentica gita sulle montagne che circondano G. Il protagonista, un cacciatore del posto, ci conduce alla scoperta della natura con rituali quasi arcaici  - batte una pietra sulla roccia, si arrampica su albero per ripararsi dalla pioggia.  Altro aspetto del cortometraggio è il rapporto tra popolazione locale e leggenda, qui rappresentata dalla principessa dai lunghi capelli che piange sempre perché non può abbandonare il suo castello (il Castello di Sao Mamede che si trova fuori dal centro storico della città). Il ritmo lento e atavico del film esalta il rapporto panico tra il cacciatore e la natura - in contrasto forte con la scena all’interno del centro commerciale - e il forte senso di appartenenza degli abitanti che conservano viva la memoria delle leggende locali.


O Bravo Som dos Tambores
di Joao Botelho propone una piccola gita ai monumenti locali con la telecamera che segue la danzatrice Sara alla scoperta della città. Sara indugia su statue, monumenti, talvolta toccandoli anche, e partecipa alla festa locale detta Nicoline. La festa in onore di San Nicola si svolge nel centro della città ogni anno a fine novembre per celebrare il rituale di iniziazione alla vita degli studenti in un rimbombare di tamburi suonati con un  ritmo intenso, quasi sanguinolento, in una esaltazione del vino e dello slancio vitale: il risultato è una manifestazione vitalistica e coinvolgente, inneggiante a Bacco, molto più pagana che religiosa. Indovinatissima l’idea di accostare il rituale alla danza libera e appassionata di Sara.
 

Vamos Tocar Todos Juntos Para Ouvrimos Melhor di Tiago Pereira è un intensissimo viaggio-documento attraverso la musica popolare di Guimaraes. Pereira, originalmente, utilizza la figura di un chitarrista contemporaneo fornito di chitarra elettrica e amplificatore e lo fa suonare accanto ai rappresentanti della musica tradizionale: piccoli cori di donne anziane, suonatori di cornamuse e di “chitarre” particolari, duetti a cappella e, soprattutto, i cantanti ad improvvisazione – specialità musicale del luogo. Bellissima la scena in cui un coro di donne piuttosto anziane canta la canzone popolare “Prendi l’arancetta, che di limoni non c’è ne sono più”, quasi alludendo ad un passato difficile, forse per la guerra, forse per un’antica carestia.

A GLIMPSE INSIDE THE MIND
OF CHARLES SWAN III

di Roman Coppola
Stati Uniti 2012, 86'

 

Concorso

Azzurra Sottosanti

28/30

Un film dal respiro felliniano, come ha affermato lo stesso regista Roman Coppola, visionario del cinema americano contemporaneo e già autore di CQ, proiettato fuori concorso al Festival di Cannes nel 2001.
Scritto a quattro mani con l’amico Wes Anderson (co-autore e regista dell’esilarante IL TRENO PER IL DARJEELING e del più recente MOONLIGHT KINGDOM), A GLIMPSE INSIDE THE MIND OF CHARLES SWAN III (letteralmente: “Uno sguardo nella mente di Charles Swan III”) è una commedia spaccacuore brillante e commovente.
Un viaggio autoanalitico in un dedalo di sentieri psichici, quelli di Charles, appunto (interpretato da un superbo e quanto mai folle Charlie Sheen), grafico di successo e casanova impenitente alle prese col suo primo mal d’amore.
Un caleidoscopio di immagini, situazioni, sentimenti, emozioni, personaggi strampalati, sullo sfondo di una Los Angeles anni ’70 e anni-luce distante da quella che siamo abituati a conoscere.
Charles è l’anti-eroe per eccellenza: un duro dal cuore tenero, coraggioso con le donne, ma debole e infantile dinanzi all’amore vero, malinconico ed ingenuamente cinico. La sua mente ipertrofica, abitata per il 70% da fantasie sessuali e per la restante parte dal rapporto intenso che lo lega agli amici Kirby Star (Jason Schwartzman) e Saul (Bill Murray) e alla sorella Izzy (Patricia Arquette), è una generatrice inarrestabile di storie, di racconti, di visioni.
Una commedia amara, che strizza l’occhio alla cinematografia di Allen e a quella dei fratelli Coen, “una storia per ragazzi girata da adulti, che tratta un argomento per adulti come la fine di un amore”, ha spiegato il regista.
Un film che riflette, a ben vedere, il mondo del suo autore con taglio ironico e grottesco, non solo nell’immaginario, ma nelle stesse vicende autobiografiche e persino negli oggetti, nelle ambientazioni (la casa, il furgoncino, addirittura alcuni abiti indossati da Sheen nel film sono di proprietà di Coppola) e che, non a caso, ha una fortissima connessione con la musica, in particolare con il cantautorato della West Coast degli anni ’30 e ’40.
“Un film che volevo vedere, prima ancora che dirigere”, ha affermato Coppola in conferenza stampa.
Una commedia ai limiti dell’assurdo che, lontano da ogni aspettativa, ha commosso molti, per il realismo e l’autenticità con cui vengono messe a nudo le debolezze dell’animo umano.
D’altra parte, come amava affermare Fellini, “l’unico vero realista è il visionario.”

l'isola dell'angelo caduto
di Carlo Lucarelli

Italia  2012, 100'

 

Prospettive Italia

Sara Poledrelli

20/30

Questo thriller a metà tra storia ed esoterismo segna l’esordio alla regia dello scrittore e sceneggiatore Carlo Lucarelli, il quale tenta la trasposizione cinematografica del suo omonimo romanzo (1999). La vicenda, calata nella cupa atmosfera dei primissimi anni del fascismo, su un’isola inquietante dalle suggestioni demoniache, prigione dove vengono confinati delinquenti e dissidenti politici, ha per protagonista un commissario di polizia (Giampaolo Morelli) allontanato dal continente per aver arrestato alcuni squadristi ubriachi. Siamo nel 1925 (Mussolini ha preso il potere da poco più di due anni e ha appena tenuto il suo discorso in Parlamento sul delitto Matteotti) quando si insaprisce la lotta del regime verso chi è sospettato di non appoggiare la linea del duce. L’ispettore catapultato a Cajenna - l’isola dove secondo la leggenda cadde Lucifero, dopo la sua ribellione a Dio - si trova a dover indagare su una serie di misteriosi delitti, spacciati per suicidi dal capomanipolo della milizia (Gaetano Bruno). Con l’aiuto di un prigioniero, medico legale al confino, riesce a scoprire la natura delle morti sospette e a sgominare i piani, al tempo stesso politici e satanici, del capomanipolo esaltato.
Il film viaggia sul doppio binario del giallo e della riflessione socio-politica. La scelta civile cui viene messa di fronte ogni nazione schiacciata da una dittatura (e ognuno dei personaggi incarna una specifica posizione al riguardo, simboleggiata dal suo rapporto con l’isola): ovvero la scelta tra indifferenza e azione, tra l’ignavia del non voler vedere, restando sudditi del potere costituito e la scomodità coraggiosa dell’aprire gli occhi, per denunciare lo status quo e trovare un’alternativa. “Ma se tutti gli italiani facessero come me” è l’emblematica battuta di un prigioniero, solitamente avido di notizie sull’attualità, il quale un giorno scorda di leggere il giornale. Si chiede cosa accadrebbe se la popolazione facesse come ha fatto lui, ovvero cosa succederebbe se, distratta dai problemi quotidiani, dagli affari di tutti i giorni, dalle piccole e grandi difficoltà, si scordasse di informarsi, dimenticasse il valore civile che ha l’essere membro di una società. L’attività investigativa del protagonista rappresenta proprio questa presa di posizione, ossia la decisione di agire per il bene comune, portando alla luce la realtà delle cose.
è apprezzabile il tentativo dello scrittore, abilissimo narratore, di tradurre in immagini una storia di parole. L’esperimento avrebbe potuto produrre un esito estremamente positivo, vista la rarità dei casi in cui questa felice concomitanza si realizza. Dispiace però che una certa rigidità, spesso didascalica e talvolta goffa, per eludere la quale il regista tenta escamotages virtuosistici, impedisca al film di raggiungere l’effetto sperato a livello espressivo. Non solo il film non riesce a incantare lo spettatore, risultando spesso grottesco suo malgrado (gli ansimi dei fascisti nel bosco di notte come cani feroci, l’interrogatorio sul water, il telegrafista che dirige l’orchestra dei venti prima di essere ucciso, etc…). Ma non ottiene nemmeno di rendere l’intento più profondo, ben percepibile invece nel romanzo, e cioè quello di creare un parallellismo fra l’isola e i biechi anni del regime, dove il microcosmo inquietante, sordido e venato di suggestioni sataniche, dovrebbe riflettere metaforicamente il periodo storico in cui i fatti sono ambientati. Si resta purtroppo sempre scollati dalla narrazione filmica, per altro più televisiva che cinematografica. Non è chiaro se il linguaggio cinematografico stia troppo stretto o stia troppo largo al neo-cineasta Lucarelli: confidiamo in una seconda opera che sappia essere all’altezza del soggetto.

bullet to the head

di Walter Hill
Stati Uniti 2012, 91'

 

Vincitore Maverick Director Award

Lilith Zulli

30/30

Premiato con la prima edizione del premio alla carriera registica del Festival romano, lo scrittore, regista e produttore Walter Hill (48 ore; I guerrieri della notte; Johnny il bello) presenta qui il suo nuovo film. Intelligente e ironico, Bullet to the head è un action thriller ottimamente sceneggiato dallo scrittore nominato all’Oscar Alessandro Camon – che si è ispirato a sua volta alla graphic novel "Du Plomb dans la Tete di Matz" - e interpretato da Sylvester Stallone - il leggendario interprete delle famosissime serie di Rocky e Rambo e vincitore di premi internazionali tra cui il Golden Icon Award a Zurigo e il Glory to the Filmmaker a Venezia. Grande successo sia alla conferenza stampa di presentazione sia alla prima del film dove il pubblico ha lungamente applaudito regista e interprete, entrambi presenti.
Sylvester Stallone qui interpreta Jimmy Bobo, un sicario di New Orleans che si allea con il detective di Washington D.C. Taylor Kwon per riuscire a catturare il killer dei loro rispettivi partner di lavoro e ha dichiarato: “Ho pensato che sarebbe stato bello lavorare con Walter Hill in un film del genere, in cui i protagonisti inizialmente sono due rivali costretti, dalle circostanze, a lavorare insieme, ma che nel corso della storia, diventano amici e compagni d’avventura”. Il film è una variazione sul tema diffusamente trattato nella tradizione filmica americana dell’insolita coppia di amici: due personaggi opposti dal punto di vista generazionale, morale, etnico – uno è bianco, l’altro coreano -, tecnologico – Bobo è un po’ anacronistico, ha difficoltà ad usare il cellulare; Taylor è giovane, tecnologico. Osserva Sung Kang che interpreta il Detective: “Taylor rappresenta la nuova generazione moderna e tecnologica, e vive seguendo un rigido codice d’onore. Jimmy Bobo appartiene ad una generazione in cui non esisteva la correttezza politica, quindi è il genere di persona che dice sempre quello che gli passa per la testa”.
Bullet to the head è il terzo film che Walter Hill gira a New Orleans, città sul Mississippi dal gusto noir, multiculturale. Il mood risultante sembra essere un omaggio ai film d’azione degli anni ’70 e ’80. “New Orleans offre una varietà di materiali, colori e palazzi interessanti,” ha dichiarato lo scenografo Toby Corbett “e i suoi dettagli si sono prestati molto bene a raccontare la storia del nostro film. Volevamo trasmettere la sensazione del calore, dei vapori, della dissoluzione che avvolge il mondo in cui vivono i nostri personaggi”. Specialmente due location utilizzate hanno avuto carattere particolare. Scout Island, dove è stata costruita la casa di Jimmy Bobo che alla fine esplode in mille pezzi, presenta un fragile equilibrio ambientale perché compromessa dall’uragano Katrina e per questo motivo la produzione ha creato un esplosione minimamente violenta e ha, in seguito, utilizzato speciali effetti visivi durante la post-produzione. E poi, la Entergy Plant, la centrale elettrica abbandonata, dove Hill aveva già diretto il suo primo film L’eroe della strada con Charles Bronson nel 1975, un edificio stupendo con grandi macchinari al suo interno che, in un certo senso, rende anche omaggio allo stesso regista.

un enfant de toi

di Jacques Doillon
Francia 2012, 140'

 

Premio per la migliore attrice emergente

Azzurra Sottosanti

30/30

UN ENFANT DE TOI, del regista Jacques Doillon, esponente del Nuovo Cinema francese, è la storia di un amore inevitabile. Un amore che non dovrebbe essere, ma che ciononostante è. Un amore che ha tutto di sbagliato, ma che non potrebbe essere più autentico.
UN ENFANT DE TOI è inoltre la storia di un complotto: il complotto di una donna contro se stessa. Del travaglio di chi lotta contro i propri sentimenti in vista di una stabilità raziocinante e calcolata che niente ha a che vedere con l’impeto di una passione che non è destinata a spegnersi.
Un film dai toni pacati, che sottende un’attrazione bruciante: quella fra i due protagonisti.
Separati, ma intimamente inseparabili, Aya (Lou Doillon) e Louis (Samuel Benchetrit) s’incontrano e si scontrano lungo tre atti di pura poesia, in una commedia dei sentimenti che nasconde un dramma. Il dramma di un uomo e di una donna divisi dalle contingenze quotidiane, dalle sovrastrutture, dalle paure (lui, timoroso di invecchiare, alla continua ricerca di una donna più giovane; lei desiderosa di un’armonia permanente, di una stabilità emotiva), ma consapevoli dell’illusorietà del loro distacco.
UN ENFANT DE TOI è un film che senti sulla pelle. È “timore e tremore”; un film sulla malattia del ritorno, sul peso dell’assenza. “La mancanza di te fa parte di me”, confessa Aya a Louis in uno dei momenti più intensi del film.
Un film delicato, che coglie le mille sfumature dell’animo umano e che non trascura nulla, nemmeno i conflitti interiori di una madre alle prese con una figlia che non sempre riesce ad amare completamente.
Un film fatto di lunghi silenzi, di pause soffocanti cariche di tutta la tensione di due amanti che per quasi l’intera durata del film si sfiorano senza mai toccarsi.
Un film in cui il tempo della storia e il tempo del racconto sembrano coincidere e in cui nulla sfugge all’occhio carezzevole e insinuante della macchina da presa.
Un film tessuto come un tappeto, una trama - plot e complot - che ci riporta ai vecchi film della Nouvelle Vague, e in cui la parola ha un’importanza centrale e la teatralità di certi dialoghi non è che il feroce tentativo dei protagonisti di imbrigliare la passione che li travolge.
“Gioia che riannoda, dolore che inchioda”.
Attraverso momenti di bizzarro romanticismo, di crudeltà e di estrema tensione, il film – omaggio più o meno consapevole al cinema di Eric Rohmer - si conclude con una ricomposizione familiare (seppure non del tutto lucidamente agita dalla protagonista), che commuove lo spettatore.
Intensi e convincenti gli attori, anche i non protagonisti, a cominciare da Marilyne Fontaine, nei panni di Gaëlle (giovane neo-compagna del protagonista), alla quale è stato assegnato dalla giuria il premio come migliore attrice emergente per la genuinità della sua interpretazione.
Geniale, infine, l’interpretazione della piccola Olga Milshtein, nuova scoperta del cinema francese, nel ruolo di Lina, figlia settenne della coppia, cupido inconsapevole e astuta stratega, artefice degli unici veri momenti di comicità del film.

the twilight saga

breaking down II

di Bill Condon
Stati Uniti 2012, 110'

 

Fuori concorso

Lilith Zulli

24/30

Grandissimo successo di pubblico per il capitolo conclusivo della saga vampiresca più famosa al mondo che racconta l’amore tra il vampiro Edward (Robert Pattinson) e l’umana Bella (Kristen Steward). Alla prima italiana al Festival Internazionale del Film di Roma il 13 novembre scorso la Sala Cinema Lotto era completamente piena, con i fan in fila già da un’ora prima - tra i pochi casi di sold out nel Festival. Successo preannunciato, d’altronde, visto che la saga - non solo i film, ma anche i quattro libri di Stephenie Meyer - è seguitissima da giovani e adolescenti in tutto il globo che hanno applaudito frequentemente durante la proiezione del film.
In questo quinto film, Bella si risveglia vampira anche lei, circondata dal suo Edward, dall’amico Jacob (Taylor Lautner) e la loro bambina Renesmee (Mackenzie Foy). Ha dichiarato il regista premio Oscar Bill Condon: “Questo film inizia esattamente nel momento in cui il precedente finiva. Ho deciso di aprire con una sequenza dei titoli di testa accompagnati ad una ouverture di temi musicali tratti dai film precedenti. Ognuno dei compositori viene riproposto e questo ti riporta indietro al mood del primo film della serie. Tutti gli immensi paesaggi, ma intervallati con quello che sta succedendo dentro Bella mentre  il veleno si sta espandendo nel suo corpo”. In effetti, la sequenza iniziale è molto bella e interessante con i suoi paesaggi innevati e bianchissimi che si intervallano col rosso delle vene invase dal veleno: il bianco - emblema di purezza e candore - e il rosso - la passione, l’istinto, ma anche il sangue - ci introducono in questo racconto in cui una candida bambina dovrà affrontare l’istinto vampiresco e un possibile spargimento di sangue. Questa l’introduzione fino al momento in cui Bella, improvvisamente, apre gli occhi e la storia ha, finalmente, inizio.

“Tutto quello che abbiamo mostrato e descritto nei film precedenti su coloro che diventano vampiri ora viene vissuto da Bella” continua Condon. E, come nella vita di tutti i vampiri, una nuova avventura è alle porte: i Volturi, i vampiri italiani, muovono in guerra verso i nostri eroi perché ritengono la bambina fonte di pericolo per la loro dinastia. Se in Breaking Dawn - Part I Bella ed Edward stavano costruendo la loro famiglia, in questo nuovo episodio la priorità è tenere la famiglia al sicuro
- ecco perché il dono speciale di Bella è uno scudo di protezione che da se stessa può estendere alle persone che vuole proteggere.

Il costosissimo film si snoda in una carrellata di vampiri dai poteri più diversi che si  affrontano in una poderosa battaglia con teste mozzate, capriole incredibili, terremoti. Effetti speciali ben riusciti, in effetti, ma accompagnati da pochissima suspense e una narrazione poco intensa. Ed è davvero troppo quando, alla fine, si scopre che era tutta solo una premonizione della battaglia e che i Volturi, terrorizzati dalla loro tragica possibile fine, se ne tornano oltreoceano con la coda tra le gambe. Dopotutto, pur di avere un quinto film – e una nuova immensa occasione di incasso – gli sceneggiatori hanno ceduto alla tentazione di ingigantire a dismisura una parte che nel libro è davvero molto più breve. Come dire, il tempo è denaro, soprattutto se riesci a ingrandirlo infinitamente.

the motel life

di Gabriel e Alan Polsky
Stati Uniti 2012, 95'

 

Premio del Pubblico per il miglior film
Premio per la migliore sceneggiatura
Premio A.M.C. per il miglior montaggio

Azzurra Sottosanti

29/30

Diretto dai due fratelli Gabriel e Alan Polsky, già produttori del capolavoro di Werner Herzog IL CATTIVO TENENTE e basato sull’omonimo romanzo di Willy Vlautin, noto cantante country americano e frontman dei Richmond Fontaine, THE MOTEL LIFE esplora l’intenso legame tra due fratelli nati e cresciuti a Reno, Nevada. Rimasti orfani da piccoli, Jerry Lee (Stephen Dorff) e Frank (Emile Hirsch) sono cresciuti aggrappandosi alla loro fervida immaginazione (il primo è un illustratore mancato, l’altro un abile creatore di storie), per tentare di fuggire alle atroci sfide a cui da sempre li ha sottoposti la loro vita crudele. Il coinvolgimento di Jerry Lee in un incidente mortale - evento che fornisce al film la sua molla propulsiva - è la causa del loro rinnovato peregrinare, in direzione di quella che si rivelerà essere la loro meta finale.
Vincitore del Premio del Pubblico, ma anche del premio per la Migliore Sceneggiatura (a Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue) e per il Miglior Montaggio, THE MOTEL LIFE è un film amaro: una storia di disperazione che non lascia spazio a moralismi: storie di sogni infranti, di vite precarie, transitorie, di adolescenze interrotte, radicate nel dolore, ma stabili nell’affetto e salde nell’unione. Quello di Frank e Jerry Lee è un legame di sangue, ma è anche e soprattutto un legame di vita, fatta di sforzi e di fughe continue alla ricerca di qualcosa di migliore; di un miraggio di benessere e di redenzione, come quelli raccontati nelle storie di Frank, che del fratello maggiore è una sorta di angelo custode.

Un film che celebra il potere della fratellanza, della condivisione, dei desideri, della speranza; che affronta con pudore il dramma della miseria degli ultimi, svelandone emozioni, speranze, delusioni, paure e puntando tutto sul potere salvifico e dell’amore.

"Nel dirigere il nostro primo film insieme - hanno spiegato i fratelli Polsky - è stato naturale optare per la storia di una complessa relazione tra due fratelli. Il rapporto tra Frank e Jerry Lee è bello quanto tragico ed esplora una verità universale: l'amore può essere un peso come una benedizione. Abbiamo messo molto di noi stessi in questi personaggi e questo ci ha permesso di rispecchiare i nostri complessi sentimenti di responsabilità, lealtà e sacrificio. In quanto creativi, noi crediamo nel potere dell'immaginazione come mezzo per sanare e creare legami. Le storie di Frank sono strumenti di rito per soddisfare i propri desideri, che permettono a lui e a Jerry una fantasiosa via di fuga dalla dura realtà”.

Quello che aggiunge merito al film è l’introduzione di un secondo registro della rappresentazione, quello, per l’appunto, delle animazioni con cui prendono vita le storie che Frank inventa per il fratello.

Attraverso l’uso sapiente dei flashback, inoltre, che s’intrecciano alla narrazione, lo spettatore è in grado di compiere piccoli salti nel passato dei protagonisti, ricostruendo la genesi del loro dolore.

Il dolore di una vita da motel, una vita senza radici, che muta drasticamente  al mutare dei giorni, degli eventi; attraverso un percorso esterno e interiore che porterà i protagonisti ad accettare le proprie e le altrui debolezze.

“Siamo incasinati, possiamo stare con persone incasinate”, dice Jerry Lee a Frank.

Un ulteriore titolo di merito va al troppo poco nominato David Holmes, autore delle musiche, e al direttore della fotografia, Roman Vasyanov.
Ci si chiede se il Premio per la migliore interpretazione maschile non dovesse essere assegnato a Stephen Dorff, trasformato nel corpo e nella mimica, per quella che possiamo definire, a pieno titolo, la sua più intensa e riuscita interpretazione cinematografica.

razza bastarda
di Alessandro Gassman

Italia  2012, 95'

 

Prospettive Italia

Sara Poledrelli

28/30

Alessandro Gassman esordisce alla regia cinematografica con un film molto coraggioso per contenuti e resa filmica. Tratto da “Cuba and his Teddy Bear” del cubano Reinaldo Podov (era 1984 quando Robert De Niro lo presentò per la prima volta a off Broadway), e già portato a teatro dallo stesso Gassmann col titolo “Roman e il suo cucciolo” (miglior spettacolo dell’anno, Ubu 2010) il soggetto ha per protagonisti Roman (Gassman), un immigrato rumeno, che suo malgrado non riesce ad affrancarsi dal giro dello spaccio di cocaina, e suo figlio Nicu (Giovanni Anzaldo), per il quale il padre sogna un avvenire migliore, onesto e lontano dalla marginalità in cui entrambi sono relegati. Roman prega ogni giorno la madonna nera di cui è devoto nella speranza che aiuti e protegga il  figlio. Nicu, dal canto suo, pur amando il padre, suo unico familiare dopo l’abbandono della madre, vive il dissidio fra la vergogna delle sue origini e la volontà di riscatto che lo spinge ad avvicinarsi a Talebano, un falso guru, dalla spiccia filosofia pseudoanarcoide, che lo tradirà e lo porterà sulla strada della tossicodipendenza.
Un disincantato apologo sulla difficoltà dell’essere immigrati in Italia e sulla volontà di liberarsi da una condizione che sembra segnare il destino dalla nascita. Ma è, allo stesso tempo, la storia di un rapporto d’amore, quello tra un padre ruvido e rozzo, ma anche amorevole e iperprotettivo, e un figlio diviso tra il legame alle sue tradizioni e l’ambizione di essere un ragazzo come tutti gli altri, nella terra dove è nato, ma che gli è ancora matrigna, più che madre.
La pregevole fotografia di Federico Schlatter soddisfa pienamente la scelta registica di un contrastatissmo bianco e nero, ispirato, secondo lo stesso regista, a La haine di Matthieu Kassovitz, che rende l’atmosfera sordida e pulp della vicenda. Un mondo senza sfumature, privo di mediazioni. Le uniche concessioni al colore sono le scene visionarie e allucinate indotte dagli stupefacenti o dal delirio mistico. Come se il cromatismo, cifra della speranza onirica e della fuga dal presente,  potesse esistere solo nella fantasia e mai nella realtà.
Molto efficace è la colonna sonora originale di Pivio e Aldo De Scalzi, intessuta di sonorità etno-elettroniche. I paesaggi emotivi, atavici e reconditi, evocati dagli strumenti etnici (il passato, le origini, la tradizione ancestrale), vengono sapientemente stemperati e distorti dagli effetti elettronici che li rendono meno descrittivi e più attuali: il consono e suggestivo commento sonoro delle periferie pullulanti di abitanti di ogni razza. Ma è anche il perfetto correlato musicale del dissidio dei personaggi combattuti fra tradizione e attualità.
L’interpretazione di Alessandro Gassman, al limite del sopra le righe, risente forse un po’ della derivazione teatrale del soggetto, ma tuttavia non stride e contribuisce al tono volutamente naïf capace di sdrammatizzare la durezza della realtà ritratta. Apprezzabili le interpretazioni del giovane Giovanni Anzaldo e del poliedrico Manrico Gammarota. Magistrali, nei loro scarni e autentici toni neorealistici, i cammei di Nadia Rinaldi.
Un film crudo ma mai acido, né caustico, toccante senza cedere al patetismo, che riesce, a tratti, anche a far sorridere, pur restituendo una visione in cui la speranza di redenzione sembra essere del tutto bandita dalle periferie degradate. Un racconto di formazione, insomma, quella del giovane Nicu, ineluttabilmente senza lieto fine.

GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY
di Peter Greenaway
Paesi Bassi 2012, 128’

CinemaXXI

Azzurra Sottosanti

30/30

Presentata fuori concorso nella sezione più sperimentale del Festival - la sezione CinemaXXI - la nuova “creatura cinematografica” del pittore-cineasta Peter Greenaway, GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY è senza dubbio l’opera più ambiziosa, perversa e scioccante dell’intera manifestazione.
Un film estatico, caratterizzato dall'ambiguità nell'impianto narrativo ed estetizzato fino all’estremo, com’è tipico dei film di Greenaway, interessato principalmente alla componente visiva dell’immagine cinematografica e ben lontano da quella che lui stesso ha definito “la chimera del realismo” inglese.

GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY è una splendida testimonianza di poesia visiva, che rivisita, alla luce delle più ambigue e controverse vicende dell’Antico Testamento (le storie di Adamo ed Eva, di Lot e le sue figlie, di Davide e Betsabea, della moglie di Putifarre e Giuseppe, di Sansone e Dalila, ma anche di Salomè e Giovanni il Battista) i tabù sessuali ad esse collegati: voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia, prostituzione e necrofilia.
Il film ripropone l’ossessione greenawayana per la pittura (basti pensare a IL MISTERO DEI GIARDINI DI COMPTON HOUSE, un inno  all'età barocca come massima rappresentazione della decadenza morale e sociale nei diversi cicli storici; o a LO ZOO DI VENERE e all’influenza di Vermeer e dei i fiamminghi del '400 quali Robert Campin e Jan Van Eyck) e costituisce, per l’appunto, il secondo capitolo di una trilogia dedicata ai pittori olandesi, inaugurata con NIGHTWATCHING, presentato al Festival di Venezia del 2007 e incentrato sulla figura di Rembrandt, e che si chiuderà con un attesissimo film su Hieronymus Bosch.
La storia prende le mosse dal tentativo di Hendrik Goltzius (Ramsey Nasr), tipografo olandese del tardo Cinquecento, contemporaneo e al tempo maggiormente noto di Rembrandt, di persuadere il Margravio d’Alsazia (interpretato da F. Murray Abraham) a finanziare la pubblicazione di due libri illustrati: uno sull’Antico Testamento, l’altro sulle “Metamorfosi” di Ovidio. Per ingraziarsi il Margravio, Goltius promette in cambio di mettere in scena per lui e l’intera sua corte una serie di racconti erotici tratti proprio dal Vecchio Testamento, avvalendosi degli attori della sua compagnia teatrale (tra i quali figura anche il nostro Pippo Delbono), la PELICAN COMPANY.

Grazie a questo pretesto narrativo e alla potenza visiva delle immagini che costruisce (meravigliosi tableaux vivants di matrice erotica sullo sfondo di archeologie industriali e barocche ambientazioni di corte) Greenaway è in grado di riflettere e di far riflettere sull’ambiguità di concetti come l’arte, il potere, la religione, la politica e la morale, mostrandone l’ambivalenza e la pericolosità e inserendoli in un ritratto quanto mai attuale della società. I temi di fondo rimangono quelli che da sempre costituiscono i topoi della sua ricerca cinematografica, le uniche cose su cui – a detta dello stesso regista - valga la pena di soffermarsi: il sesso e la morte. E del sesso, come dell’arte, Greenaway mette in scena la doppiezza, mostrando, da una parte, il suo perenne potere fascinatorio e liberatorio, e dall’altra le aberrazioni a cui può condurre, fino a distruggere, tramite un raffinato quanto estremo gioco narrativo, tutto ciò che sembrava stesse costruendosi, portando alla luce al contempo l’idiozia e lo splendore dell’arte.
La messa in scena giocosa degli aspetti più torbidi delle vicende bibliche, finirà infatti per innescare una catena di vendette e di sanguinosi eventi, che coinvolgerà la corte e gli stessi attori, in un vorticoso mescolarsi di finzione scenica e realtà.

Mediante la storia di Goltzius e della Pelican Company, Greenaway torna inoltre ancora una volta a riflettere sullo statuto dell’immagine cinematografica e sulla sua natura intermediale nell’epoca del digitale: l’immagine cinematografica è trattata come un significante pittorico, una tela sulla quale si depositano differenti strati di colore e di altri materiali pittorici.
Ogni fotogramma viene saturato attraverso sovraimpressioni e sovrapposizioni grafiche di ogni tipo, ma anche attraverso quella che potremmo definire una “carnalità dell’immagine”, che indaga i corpi nudi dei protagonisti, ossessivamente presenti sulla scena, facendo dello spettatore il primo dei vouyer.
Non a caso la domanda iniziale che Goltzius/Greenaway rivolge al suo pubblico è: “Is the theatre the legitimate place where we permit ourselves to be licensed voyeurs?”. La risposta è una riflessione critica sul cinema.

SITO UFFICIALE

 

festival intern. del film di roma

Roma Capitale, 09 / 17 novembre 2012