festival intern. del film di roma VII edizione
Roma Capitale, 09 / 17 novembre 2012
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recensioni |
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> a glimps inside... di Roman Coppola > amore liquido di Marco Luca Cattaneo > alì ha gli occhi azzurri di C.Giovannesi > aspettando il mare di B.Khudojnazarov > bullet to the head di Walter Hill > cosimo e nicole di Francesco Amato > e la chiamano estate di Paolo Franchi > eterno ritorno... di Kira Muratova > GOLTZIUS... di Peter Greenaway > HISTÓRIAS DE GUIMARÃES di AAVV > l'isola dell'angelo caduto di C.Lucarelli > marfa girl di Larry Clark > razza bastarda di Alessandro Gassman
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razza bastarda (CS)
di
Sara Poledrelli > the motel life di Gabriel e Alan Polsky > the twilight saga di Bill Condon > un enfant de toi di Jacques Doillon > un enfant de toi (INT) di Azzurra Sottosanti > il volto di un'altra di Pappi Corsicato |
di Marco Luca Cattaneo
Film a sorpresa |
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29/30 |
"Liquido" è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita “liquido-moderna" se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquido-moderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo.”
(da Zygmunt Bauman, "Vita Liquida")
AMORE LIQUIDO è il primo lungometraggio di Marco
Luca Cattaneo, già vincitore di diversi premi in ambito nazionale (uno per
tutti, quello del Miglior Film Italiano al Rome Indipendent Film Festival
2010). A dispetto del titolo (tratto dal celeberrimo
saggio omonimo del sociologo polacco Zygmunt Bauman), AMORE LIQUIDO è un
film sull’immobilismo di un’esistenza. Una storia di alienazione sociale, di
solitudine urbana. Mario soffre di quel disturbo psicosessuale comunemente noto come pornodipendenza. Se è vero, come afferma Bauman, che anche l’amore è finito nel tritacarne della società dei consumi, la chiusura nell’universo pornografico costituisce per Mario l’unico rifugio possibile in cui poter sperimentare e massimizzare il piacere di una vita fatta di solitudine e di introversione, permeata da un senso di responsabilità che non di rado si trasforma in senso di colpa. La pornodipendenza fa parte di questo vuoto esistenziale: soddisfa un sentimento di inadeguatezza, che si risolve nella potenza di atti sessuali consumati in privato, nella solitudine della propria camera o nella vastità del proprio mondo onirico. L’autoerotismo come metafora del solipsismo esistenziale e relazionale. Una condizione che trovava ben altro esito nell’acclamato recente film di Steve McQueen, SHAME, il cui protagonista, Brandon (interpretato dall’ottimo Fassbender), è vittima, proprio come Mario, di una dipendenza dal sesso che finirà per cannibalizzare ogni aspetto della sua vita. Mario è l’alter ego di Brandon, il suo opposto caratteriale ed estetico. Se il protagonista del film di Mc Queen, infatti, sublima il proprio vuoto nel consumo affannoso di atti sessuali fugaci, la frustrazione del protagonista di AMORE LIQUIDO è tale da impedirgli di intrattenere rapporti, seppur occasionali, con donne reali. L’uno è l’emblema dell’impotenza, l’altro del desiderio di onnipotenza. È questo senso di inadeguatezza che paralizzerà il protagonista nel suo lento avvicinarsi a quella che sembrava potesse essere la donna della sua vita: Agata, ragazza madre bella e bisognosa di tenerezza.
Mario, come Brandon, si troverà impotente e impaurito di
fronte all’atto sessuale ed amoroso con una donna con cui sembra profilarsi
la possibilità di una relazione reale. |
il volto di un'altra Italia 2012, 83'
Concorso |
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27/30 |
Una black comedy dai toni grotteschi e surreali è la proposta del regista napoletano Pappi Corsicato (I buchi neri, 1995; Il seme della discordia, 2008) per questa settima edizione del Festival del Cinema di Roma. Una favola morale dalle suggestioni almodovariane (difficile credere che l’ex-assistente alla regia di Légami!, non abbia preso almeno vagamente spunto da La pelle che abito) che denigra il mondo dell’apparire schiavo dell’estetica e distante dall’etica, con i suoi fulcri principali radicati nella chirurgia plastica e nella televisione. La vicenda si svolge infatti in una clinica estetica diretta dal medico René (Alessandro Preziosi) e da cui viene trasmesso un improbabile programma televisivo, condotto dalla moglie Bella (Laura Chiatti), showgirl di grido la cui faccia però pare abbia stancato. Un incidente automobilistico sembra dare l’opportunità ad entrambi di tornare sulla cresta dell’onda, incassando tra l’altro una lautissima assicurazione. Ma il ricatto di un addetto alle pulizie della clinica e alcuni torbidi risvolti complicheranno l’esito auspicato dai due protagonisti. Da questa sordida vicenda di falsità e menzogna in cui niente è mai come sembra, Bella riuscirà a redimersi, confessando in pubblico la sua disonestà. Ma il connubio tra jet set affabulatore e pubblico credulone è talmente radicato che l’avvenente presentatrice viene applaudita non per la sua ammissione, ma per l’abilità nel realizzare un piano illecito mantenendolo tanto a lungo nascosto. La punizione divina, comunque non tarda ad arrivare e anzi è tempestiva – avviene proprio nel momento topico del film – l’esplosione delle tubature che sommerge la clinica di liquami fetidi, dando una degna chisura metaforica a questo apologo surrealmente moraleggiante. È un peccato che il regista (sceneggiatore insieme a Monica Rametta, Gianni Romoli, Daniele Orlando) non si sia fermato qui, perché assolutamente insensato nell’economia del playscreen risulta l’asteroide, minaccia paventata durante tutto il dipanarsi della storia e che alla fine si schianta sulla macchina della protagonista, già scappata alla catastrofe scatologica, senza per altro sfigurarla. È questo uno dei tanti elementi che rendono debole la sceneggiatura, troppo poco consistente rispetto al dispiegamento di sperimentazione e innovazione di cui Corsicato dà ancora una volta prova a livello filmico. |
di Francesco Amato
Premio Prospettive Italia
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30/30 |
“I ragazzi che si amano Non ci sono per nessuno Ed è la loro ombra soltanto Che trema nella notte” Jacques Prevert
Sorprendente e vitale, COSIMO E NICOLE è il vivo ritratto dell’amore giovane e intenso tra una ragazza francese (Clara Ponsot) e un ragazzo italiano (Riccardo Scamarcio), che si incontrano a Genova durante gli scontri del G8. Un amore improvviso, lungo come un viaggio attraverso l’Europa, un amore vissuto senza limiti e senza preoccupazioni, a ritmo di musica rock. Opera seconda del trentaquattrenne Francesco Amato - già vincitore del Premio Visioni Italiane a Torino e diplomato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia - il film si aggiudica il Premio Prospettive Italia per il miglior lungometraggio.
COSIMO E NICOLE narra di due destini incrociati, uniti nel
profondo. E lo fa senza mai staccare lo sguardo dal contesto sociale
circostante, che fa da sfondo alle vicende dei due protagonisti, che si
muovono nello spazio/tempo di un’Europa e in particolare di un’Italia
attanagliata da problematiche sulle quali è ancora tempo di riflettere. La
questione, tuttora irrisolta, dei cosiddetti fatti di Genova, nonché
tematiche come la precarietà occupazionale e la non regolamentazione dei
contratti di lavoro, l’immigrazione clandestina, le morti bianche,
l’ingiustizia sociale, sono portate sullo schermo senza alcuna retorica e,
lungi dall’essere riportate come semplici note a margine, fungono da
propulsori per le azioni dei protagonisti. Queste le parole del regista:
“Tutto nasce dal desiderio di raccontare, attraverso la storia di una
giovane coppia, la generazione a cui appartengo. Sono andato alla ricerca di
due ragazzi che si amassero davvero, con la libertà di chi non ha niente da
perdere, senza prudenza, senza paura, solo passione”. Il suono la fa da padrone: suono inteso come musica, ma anche come rumore, come vocalità: l’accento francese di Nicole dà una scansione particolare alle frasi italiane e lo fa maggiormente contrastare col racconto di Cosimo (i due ragazzi vivono il percorso di espiazione in maniera decisamente differente), attribuendo una diversa intensità emotiva ai due racconti fatti in prima persona. Ha dichiarato Amato: “Cosimo e Nicole sono due ragazzi che di fronte al dolore e alla colpa reagiscono in modo opposto, prendono strade diverse scoprono in fondo di essere diversi. L’amore li ha uniti, ma non basta per renderli una cosa sola. La prova del dolore li divide. Per riscattarsi e salvare il rapporto occorre fare i conti, per la prima volta, col mondo fuori dal loro rapporto”. Ed è attraverso il viaggio (reale e metaforico, esterno e interiore), da sempre paradigma dell’esperienza autentica e diretta, che i due protagonisti riusciranno a riprendere contatto con il mondo fuori da sé, a riappropriarsi delle loro vite e della realtà che li circonda, compiendo un percorso di costruzione e ricostruzione dell'identità che cambierà per sempre il loro modo di stare al mondo. Una sorta di romanzo di formazione in negativo, dunque. Un viaggio iniziatico attraverso il quale i due protagonisti realizzeranno la loro palingenesi, morendo e rinascendo e ritrovandosi, ancora una volta, uniti. Quel viaggio che – come scriveva Camus - “è come una scienza più grande e più grave, che ci riporta a noi stessi.” |
di Bakhtiar Khudojnazarov
Fuori concorso |
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30/30 |
Sete nel deserto
Aspettando il mare è la storia della desertificazione del Lago d'Aral e della parallela desertificazione emotiva del protagonista del film, il capitano Marat, distrutto dal dolore per aver perso moglie ed equipaggio durante una burrasca. Ma è anche la storia di un viaggio catartico verso il mare, e verso l'acqua, alla ricerca di un passato, quello della tradizione marinara che caratterizzava l'economia locale, e alla ricerca di una “nuova vita”. Mancano sicuramente nel film riferimenti temporali precisi perché il tempo di questa storia è il tempo dell'anima: così date, periodizzazioni, epoche perdono importanza. La grande ellissi temporale dal naufragio al ritorno al villaggio di Marat - segnalata da un semplice “qualche tempo dopo” - si comprende solo dal fatto che Tamara, la cognata, da bambina si è trasformata in una donna: sono passati 10, 15 anni ma potrebbe non essere passato neanche un giorno perché il dolore e lo smarrimento sono immutati nell'animo di Marat e nell'animo di tutti gli abitanti del villaggio. In contrasto, sembrano dilatati i tempi del viaggio del capitano e la sua nave verso il mare: dilatati dalle scene di dolore e fatica, dagli ostacoli - gli abitanti del villaggio che lo deridono e lo detestano - e amplificati dal paesaggio immutabile. Il deserto è, d'altronde, il grande muto protagonista di questo film. Emblema fortissimo di solitudine interiore, è sottolineato da una meravigliosa fotografia, dove neve e deserto si confondono in quanto simboli comuni della carestia - crisi economica, presenza di orfani e vedove “abbandonati” al loro destino, degrado sociale. L'unico a credere ancora nello scorrere del tempo è il fedele amico Balthasar che amministra l'aeroporto e custodisce gelosamente in un “Museo del Porto” tutti i cimeli dell'antica tradizione marinara. A Balthasar la narrazione affida il compito di difendere la memoria storica, le tradizioni e l'identità di quel popolo contro una società che, privata del mare come sua fonte primaria di ricchezza economica, si avvia al degrado economico, sociale e culturale. In questo piccolo universo dove la saggezza e la medicina sono affidate ad una sciamana locale, il potere è in mano ad una banda di balordi e giovani teppisti, dove il lavoro è faticosissimo ma non redditizio, il popolo perde ogni legame col proprio passato e ogni speranza nel futuro. Energica è, in effetti, la differenziazione tra la nuova e la vecchia generazione del villaggio: quest'ultima è rappresentata dal padre di Dari - la moglie defunta di Marat - e Tamara, uomo dalla tempra forte, ma dal cuore sensibile, antico capitano di mare, va a morire in solitudine, in pieno deserto. Un paesaggio riarso e bellissimo, biancastro nel suo essere desertico, dove l'assoluta mancanza di acqua si fa metafora espansa dell'anima di Marat, priva ormai di pace e di sollievo. Afflitto dal rimorso, Marat sente di poter espiare la sua “colpa” solo riconquistando un felice passato e parte all'utopica ricerca di Dari e dei suoi marinai. La sua lotta contro la fatica e contro la distanza materiale che separa la sua nave dall'ambito mare è apparentemente paradossale, ma l'indugiare della cinepresa sui suoi muscoli tesi, sul sudore, sulle ferite, sulla fisicità esprimono la realtà dell'azione e della storia. Così come estremamente materiale è la conclusione del viaggio di Marat e la stessa conclusione della pellicola. Ma non vi anticipiamo nulla. Chi ha fiducia nel futuro e coraggio, nel viaggio della propria vita, sa già come va a finire. |
dei mari della pianura di Alexey Fedorchenko Russia 2012, 106'
Concorso |
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30/Lode |
Un piccolo capolavoro della cinematografia post-sovietica, un
dipinto a olio in una cornice sospesa tra magia e realtà. Ventitré storie di
donne, storie di misteri, di incantesimi, di battaglie, di quotidianità al
femminile, in una Russia dai colori sbiaditi, dove le tradizioni popolari
s’intrecciano con le leggende e i riti di una comunità in cui la poesia è
ancora al servizio del sacro. |
e la chiamano estate Italia 2012, 89'
Concorso |
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26/30 |
Delude, e tanto, l’atteso e temuto film di uno dei più
discussi e controversi registi del cinema italiano contemporaneo, Paolo
Franchi (La spettatrice,
2003; Nessuna qualità agli eroi,
2007). Un film che sulla carta avrebbe tutte le caratteristiche per essere
un’opera d’essay (a partire dal cast, dalla fotografia, dalle
musiche) e che invece si perde tra la gratuità di scene al limite del
pornografico e la scarsa originalità di un soggetto che niente di nuovo
aggiunge alla nostra conoscenza dell’animo umano: un uomo incapace di
conciliare amore e sesso, la purezza del sentimento e la carnalità del
desiderio. Viene rappresentata qui l’aporia (naturalmente portata alle sue
estreme conseguenze) dell’uomo occidentale vittima della dicotomia, di
matrice paltonica e cristiana, tra anima e corpo. E così assistiamo alle
vicende di un uomo che preso da sensi di colpa e di inadeguatezza nei
confronti della donna di cui è innnamorato, non riesce ad amarla
fisicamente, sfogando le proprie pulsioni sessuali nella maniera più brutale
con prostitute, orge, incontri al buio nei privées di locali notturni.
L’irriducibilità di questa schizofrenia erotico-sentimentale porta Dino
(Jean Marc Barr, doppiato da Adriano Giannini), il protagonista, a
suicidarsi (epilogo intuibile fin delle primissime scene), per non cadere
nel teorema wildiano - già celebrato sul grande schermo dal Fassbinder di
Querelle - dell’Each man
kills the thing he loves, distruggendo la cosa più bella che ha ovvero
l’amore per Anna (Isabella Ferrari). Anna, dal canto suo, accetta la non
semplice situazione, anche quando scopre la vita parallela di lui, e rimasta
sola, dovrà lottare per non sentirsi responsabile del drastico gesto di
Dino. Torna a più riprese durante il film l’ossessiva affermazione di lei
che davanti allo psicanalista cerca di autoconvincersi della propria
innocenza morale (alla fine insomma, lui è riuscito a distruggere ciò che
amava, ricadendo nell’assioma da cui voleva scappare). La reiterazione,
inoltre, di alcune frasi e di alcuni passaggi salienti è una delle chiavi
narrative adottate dal regista nell’architettura del suo racconto filmico.
Un continuo susseguirsi di erase and rewind che mostra caleidoscopicamente
come sono avvenute le cose e come invece avrebbero potuto essere nel
desiderio e nella fantasia dei protagonisti. Un espediente interessante, per
quanto talvolta risulti un po’ abusato. |
marfa girl
di Larry Clark
Vincitore ed. 2012 |
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29/30 |
Con Marfa Girl,
film coerente e multi sfaccettato, Larry Clark, artista e fotografo tra i
più importanti degli ultimi 50 anni, si aggiudica sorprendentemente la
vittoria del Marc’Aurelio d’Oro alla VII Edizione del Festival
Internazionale del Film di Roma. |
alì ha gli occhi azzurri Italia 2012, 100'
Concorso |
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30/Lode |
“Alì dagli Occhi Azzurri / uno dei tanti figli di
figli, / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui
migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri /
sulle barche varate nei Regni della Fame […] / Sbarcheranno a Crotone o a
Palmi, / a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane. […]
/ Da Crotone o Palmi saliranno / a Napoli, e da lì a Barcellona, / a
Salonicco e a Marsiglia, / nelle Città della Malavita […]”
(1) Giovannesi racconta che rimase sorpreso dalla coincidenza che Nader, il giovane che interpreta il protagonista del film, avesse l’abitudine di usare lenti colorate azzurre. |
di Kira Muratova
Concorso |
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21/30 |
Ci si aspettava di più da questo film di Kira Muratova,
esponente di spicco della Nouvelle Vague sovietica e vincitrice dell’Orso
d’argento a Berlino nel 1990 con SINDROME ASTENICA. |
O dom das làgrimas di Joao Nicolau Portogallo 2012, 25'
Portogallo 2012, 24'
Para Ouvrimos
Melhor Portogallo 2012, 25'
Fuori concorso |
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30/30 |
"Historiàs de Guimaraes"
è il nome di un
programma presentato in anteprima
il 9 novembre scorso al Festival Internazionale del Film di Roma e composto
di tre cortometraggi dedicati alla città lusitana di Guimaraes in
Portogallo. L’occasione è quella della celebrazione di Guimaraes come Città
Europea della Cultura 2012. E, in effetti, i tre film sembrano essere delle
vere e proprie escursioni alla scoperta della città e dei suoi luoghi anche
se utilizzano tre punti di vista differenti: la natura, l’arte e la
musica. Con un guardo fortemente antropologico, i tre registi analizzano –
ognuno in maniera personalissima – il rapporto tra società, natura e
tradizione. L’idea comune è quella dell’appartenenza ad un luogo attraverso
la conoscenza del tradizioni e del folklore. “Aqui Nasceu Portugal” è la
scritta che campeggia sulle antiche mura difensive della città del XIV-XV
secolo: la scritta si riferisce al fatto che Guimarães è soprannominata “la
culla del Portogallo” ed è il luogo dove vennero combattute lotte e
battaglie per l'indipendenza e per la Nazione – tra cui la celebre battaglia
di S. Mamede nel 1128. O Dom das Làgrimas di Joao Nicolau è un autentica gita sulle montagne che circondano G. Il protagonista, un cacciatore del posto, ci conduce alla scoperta della natura con rituali quasi arcaici - batte una pietra sulla roccia, si arrampica su albero per ripararsi dalla pioggia. Altro aspetto del cortometraggio è il rapporto tra popolazione locale e leggenda, qui rappresentata dalla principessa dai lunghi capelli che piange sempre perché non può abbandonare il suo castello (il Castello di Sao Mamede che si trova fuori dal centro storico della città). Il ritmo lento e atavico del film esalta il rapporto panico tra il cacciatore e la natura - in contrasto forte con la scena all’interno del centro commerciale - e il forte senso di appartenenza degli abitanti che conservano viva la memoria delle leggende locali.
Vamos Tocar Todos Juntos Para Ouvrimos Melhor di Tiago Pereira è un intensissimo viaggio-documento attraverso la musica popolare di Guimaraes. Pereira, originalmente, utilizza la figura di un chitarrista contemporaneo fornito di chitarra elettrica e amplificatore e lo fa suonare accanto ai rappresentanti della musica tradizionale: piccoli cori di donne anziane, suonatori di cornamuse e di “chitarre” particolari, duetti a cappella e, soprattutto, i cantanti ad improvvisazione – specialità musicale del luogo. Bellissima la scena in cui un coro di donne piuttosto anziane canta la canzone popolare “Prendi l’arancetta, che di limoni non c’è ne sono più”, quasi alludendo ad un passato difficile, forse per la guerra, forse per un’antica carestia. |
A GLIMPSE INSIDE THE MIND
di Roman Coppola
Concorso |
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28/30 |
Un film dal respiro felliniano, come ha affermato lo stesso
regista Roman Coppola, visionario del cinema americano contemporaneo e già
autore di CQ, proiettato fuori concorso al Festival di Cannes nel 2001. |
l'isola
dell'angelo caduto Italia 2012, 100'
Prospettive Italia |
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20/30 |
Questo thriller a metà tra storia ed esoterismo segna
l’esordio alla regia dello scrittore e sceneggiatore Carlo Lucarelli, il
quale tenta la trasposizione cinematografica del suo omonimo romanzo (1999).
La vicenda, calata nella cupa atmosfera dei primissimi anni del fascismo, su
un’isola inquietante dalle suggestioni demoniache, prigione dove vengono
confinati delinquenti e dissidenti politici, ha per protagonista un
commissario di polizia (Giampaolo Morelli) allontanato dal continente per
aver arrestato alcuni squadristi ubriachi. Siamo nel 1925 (Mussolini ha
preso il potere da poco più di due anni e ha appena tenuto il suo discorso
in Parlamento sul delitto Matteotti) quando si insaprisce la lotta del
regime verso chi è sospettato di non appoggiare la linea del duce.
L’ispettore catapultato a Cajenna - l’isola dove secondo la leggenda cadde
Lucifero, dopo la sua ribellione a Dio - si trova a dover indagare su una
serie di misteriosi delitti, spacciati per suicidi dal capomanipolo della
milizia (Gaetano Bruno). Con l’aiuto di un prigioniero, medico legale al
confino, riesce a scoprire la natura delle morti sospette e a sgominare i
piani, al tempo stesso politici e satanici, del capomanipolo esaltato. |
di Walter Hill
Vincitore Maverick Director Award |
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30/30 |
Premiato con la prima edizione del premio alla carriera
registica del Festival romano, lo scrittore, regista e produttore Walter
Hill (48 ore; I guerrieri della
notte; Johnny il bello) presenta qui il suo nuovo film. Intelligente
e ironico, Bullet to the head
è un action thriller ottimamente sceneggiato dallo scrittore nominato
all’Oscar Alessandro Camon – che si è ispirato a sua volta alla graphic
novel "Du Plomb dans la Tete di Matz" - e interpretato da Sylvester Stallone
- il leggendario interprete delle famosissime serie di Rocky e Rambo e
vincitore di premi internazionali tra cui il Golden Icon Award a Zurigo e il
Glory to the Filmmaker a Venezia. Grande successo sia alla conferenza stampa
di presentazione sia alla prima del film dove il pubblico ha lungamente
applaudito regista e interprete, entrambi presenti. |
di Jacques Doillon
Premio per la migliore attrice emergente |
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30/30 |
UN ENFANT DE TOI, del regista Jacques Doillon, esponente del
Nuovo Cinema francese, è la storia di un amore inevitabile. Un amore che non
dovrebbe essere, ma che ciononostante è. Un amore che ha tutto di sbagliato,
ma che non potrebbe essere più autentico. |
breaking down II
di
Bill Condon
Fuori concorso |
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24/30 |
Grandissimo successo di pubblico per il capitolo conclusivo
della saga vampiresca più famosa al mondo che racconta l’amore tra il
vampiro Edward (Robert Pattinson) e l’umana Bella (Kristen Steward). Alla
prima italiana al Festival Internazionale del Film di Roma il 13 novembre
scorso la Sala Cinema Lotto era completamente piena, con i fan in fila già
da un’ora prima - tra i pochi casi di sold out nel Festival. Successo
preannunciato, d’altronde, visto che la saga - non solo i film, ma anche i
quattro libri di Stephenie Meyer - è seguitissima da giovani e adolescenti
in tutto il globo che hanno applaudito frequentemente durante la proiezione
del film. |
di Gabriel e Alan Polsky
Premio del Pubblico per il miglior film |
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29/30 |
Diretto dai due fratelli Gabriel e Alan
Polsky, già produttori del capolavoro di Werner Herzog IL CATTIVO TENENTE e
basato sull’omonimo romanzo di Willy Vlautin, noto cantante country
americano e frontman dei Richmond Fontaine, THE MOTEL LIFE esplora l’intenso
legame tra due fratelli nati e cresciuti a Reno, Nevada. Rimasti orfani da
piccoli, Jerry Lee (Stephen Dorff) e Frank (Emile Hirsch) sono cresciuti
aggrappandosi alla loro fervida immaginazione (il primo è un illustratore
mancato, l’altro un abile creatore di storie), per tentare di fuggire alle
atroci sfide a cui da sempre li ha sottoposti la loro vita crudele. Il
coinvolgimento di Jerry Lee in un incidente mortale - evento che fornisce al
film la sua molla propulsiva - è la causa del loro rinnovato peregrinare, in
direzione di quella che si rivelerà essere la loro meta finale. Un film che celebra il potere della fratellanza, della condivisione, dei desideri, della speranza; che affronta con pudore il dramma della miseria degli ultimi, svelandone emozioni, speranze, delusioni, paure e puntando tutto sul potere salvifico e dell’amore. "Nel dirigere il nostro primo film insieme - hanno spiegato i fratelli Polsky - è stato naturale optare per la storia di una complessa relazione tra due fratelli. Il rapporto tra Frank e Jerry Lee è bello quanto tragico ed esplora una verità universale: l'amore può essere un peso come una benedizione. Abbiamo messo molto di noi stessi in questi personaggi e questo ci ha permesso di rispecchiare i nostri complessi sentimenti di responsabilità, lealtà e sacrificio. In quanto creativi, noi crediamo nel potere dell'immaginazione come mezzo per sanare e creare legami. Le storie di Frank sono strumenti di rito per soddisfare i propri desideri, che permettono a lui e a Jerry una fantasiosa via di fuga dalla dura realtà”. Quello che aggiunge merito al film è l’introduzione di un secondo registro della rappresentazione, quello, per l’appunto, delle animazioni con cui prendono vita le storie che Frank inventa per il fratello. Attraverso l’uso sapiente dei flashback, inoltre, che s’intrecciano alla narrazione, lo spettatore è in grado di compiere piccoli salti nel passato dei protagonisti, ricostruendo la genesi del loro dolore. Il dolore di una vita da motel, una vita senza radici, che muta drasticamente al mutare dei giorni, degli eventi; attraverso un percorso esterno e interiore che porterà i protagonisti ad accettare le proprie e le altrui debolezze. “Siamo incasinati, possiamo stare con persone incasinate”, dice Jerry Lee a Frank.
Un
ulteriore titolo di merito va al troppo
poco nominato David Holmes, autore delle musiche, e al direttore della
fotografia, Roman Vasyanov. |
razza bastarda Italia 2012, 95'
Prospettive Italia |
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28/30 |
Alessandro Gassman esordisce alla regia
cinematografica con un film molto coraggioso per contenuti e resa filmica.
Tratto da “Cuba and his Teddy Bear” del cubano Reinaldo Podov (era 1984
quando Robert De Niro lo presentò per la prima volta a off Broadway), e già
portato a teatro dallo stesso Gassmann col titolo “Roman e il suo cucciolo”
(miglior spettacolo dell’anno, Ubu 2010) il soggetto ha per protagonisti
Roman (Gassman), un immigrato rumeno, che suo malgrado non riesce ad
affrancarsi dal giro dello spaccio di cocaina, e suo figlio Nicu (Giovanni
Anzaldo), per il quale il padre sogna un avvenire migliore, onesto e lontano
dalla marginalità in cui entrambi sono relegati. Roman prega ogni giorno la
madonna nera di cui è devoto nella speranza che aiuti e protegga il figlio.
Nicu, dal canto suo, pur amando il padre, suo unico familiare dopo
l’abbandono della madre, vive il dissidio fra la vergogna delle sue origini
e la volontà di riscatto che lo spinge ad avvicinarsi a Talebano, un falso
guru, dalla spiccia filosofia pseudoanarcoide, che lo tradirà e lo porterà
sulla strada della tossicodipendenza. |
GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY |
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30/30 |
Presentata fuori concorso nella sezione più sperimentale del
Festival - la sezione CinemaXXI - la nuova “creatura
cinematografica” del pittore-cineasta Peter Greenaway, GOLTZIUS AND THE
PELICAN COMPANY è senza dubbio l’opera più ambiziosa, perversa e scioccante
dell’intera manifestazione.
GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY è una splendida
testimonianza di poesia visiva, che rivisita, alla luce delle più ambigue e
controverse vicende dell’Antico Testamento (le storie di Adamo ed Eva, di
Lot e le sue figlie, di Davide e Betsabea, della moglie di Putifarre e
Giuseppe, di Sansone e Dalila, ma anche di Salomè e Giovanni il Battista) i
tabù sessuali ad esse collegati: voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia,
prostituzione e necrofilia.
Grazie a questo pretesto narrativo e alla potenza visiva
delle immagini che costruisce (meravigliosi tableaux vivants di matrice
erotica sullo sfondo di archeologie industriali e barocche ambientazioni di
corte) Greenaway è in grado di riflettere e di far riflettere sull’ambiguità
di concetti come l’arte, il potere, la religione, la politica e la morale,
mostrandone l’ambivalenza e la pericolosità e inserendoli in un ritratto
quanto mai attuale della società. I temi di fondo rimangono quelli che da
sempre costituiscono i topoi della sua ricerca cinematografica, le uniche
cose su cui – a detta dello stesso regista - valga la pena di soffermarsi:
il sesso e la morte. E del sesso, come dell’arte, Greenaway mette in scena
la doppiezza, mostrando, da una parte, il suo perenne potere fascinatorio e
liberatorio, e dall’altra le aberrazioni a cui può condurre, fino a
distruggere, tramite un raffinato quanto estremo gioco narrativo, tutto ciò
che sembrava stesse costruendosi, portando alla luce al contempo l’idiozia e
lo splendore dell’arte.
Mediante la storia di Goltzius e della Pelican Company,
Greenaway torna inoltre ancora una volta a riflettere sullo statuto
dell’immagine cinematografica e sulla sua natura intermediale nell’epoca del
digitale: l’immagine cinematografica è trattata come un significante
pittorico, una tela sulla quale si depositano differenti strati di colore e
di altri materiali pittorici. |
festival intern. del film di roma Roma Capitale, 09 / 17 novembre 2012
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