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EL
ESPINAZO DEL DIABLO
di Guillermo Del Toro
UN ENCLAVE DI ZOMBI DENTRO LA FORMALINA DI SURREALI METAFORE CHILI-MEXICO,
NON ALMODOVARIANE.
Tagli di luce pensati per un hard-visual che pretende di parlarci di
guerra civile. Spagnola?.
Condensazione di destini dentro il rum, l'acqua gialla di cisterne
percorse dal fantasma, bambini abbandonati a morire di vendetta, senza
comunicazione verbale-fisica col resto della guerra [vera].
Loro combattono la propria, contro un modesto tiranno attirato dall'oro.
In difesa di quel fortino, magra metafora della razza degli abbandonati
e perdenti e indifesi.
La bomba improbabile inesplosa conficcata, in stile Garçia Marquez
se ne sta ferma nella corte del castello dei rifugiati -bimbi senza crudel
tutor- a evocare tutto l'evocabile, ma afasica.
IL FILM E' ANCHE UN WESTERN SENZA INDIANI, UN DILIGENTE PRODOTTO SENZA
DILIGENZA E ASSALTI, SE NON FORSE ALLA FINE.
Ci piace il bimbo ammazzato che dall'acqua respira il senso di una colpa
da cancellare con la cancellazione del tiranno, in quelle stesse acque
che, nella "prateria" secca, stranamente veicolano morte.
TORNA SU'
EL MAR (E CERTI LUOGHI DEI FILM SPAGNOLI A PESARO)
di Augustì Villaronga
Eterotopie, luoghi altri, per dirla con Foucault, dove hanno luogo riti
di separazione/crescita/passaggio a nuove fasi dell’esistenza.
Il cine spagnolo a-almodovariano [?] è forse tutto qui e in qualcos’altro.
Il mito spagnolo, il sogno collettivo o incubo da rimuovere, o rispetto
al quale confrontarsi sempre è: LA GUERRA CIVILE iniziata nel ’36.
A distanza di anni, si ritiene che parlarne con arte significhi metaforizzarla
senza indugi.
Le eterotopie di cui sopra [sanatori, come nel caso de EL MAR, post-orfanotrofi
raccogli-figli abbandonati dai soldati in partenza come nel ESPINAZO DEL
DIABLO] SONO esse stesse la Spagna in guerra.
Facile, elementare rappresentare il popolo come vittima con la categoria
infantile degli innocenti; conseguentemente, altre categorie vanno intese
dalla parte di chi agisce atti di violenza, etc etc.
Il tutto potrebbe anche sembrare frutto di un’incredibile coincidenza
creativa, se sviluppato attraverso un cinema che fa parlare i fatti, che
ad essi aderisce.
Ma tra tagli di luce alla TRAUMA, atti di thrilleraggio in luogo pubblico
e lenzuoli zuppi di sangue, davvero non ci capiamo più nulla…
Lo spagnolo, se è matador comunque, allora lo sia a-lmodovarianamente,
con eleganti ellissi estetiche.
E non spalmando rum, plasma, liquidi sulle Bernadette del sanatorio
tubercolotico ridotto a Corsia Bava di questo cinema ospedaliero, e nemmeno
coprendo di rosso sangue le benedette eterotopie di Foucault, che tali
sono e tali rimangono: i luoghi altri di natura estetica, dove il cinema
spagnolo vuol fare accadere la ri-rappresentazione di quell’atto tragicamente
fondativo della loro storia recente.
Ma è cinema matador o cinema matato?
TORNA SU'
EL BOLA
di Achero Manas
Alla fine della proiezione puoi apprezzare i veri grandi dialoghi: ma
sono quelli di chi abbozza idee di critica ancora in mezzo alle file di
sedie.
C’era chi abbatteva il film con il napalm di sottili osservazioni
appartenenti alla categoria “antropologica”: che brutta questa cosa della
contrapposizione manichea tra il [buon? Ndr ] padre lavoratore [ con annesso
tran-tran di negozio a forzata e torturatrice conduzione familiare ],
per forza carnefice, e il tatuatissimo/ alternativo genitore di altro
bambino, “ terribilmente Bruce Willis”, che a difesa del figlio dell’altro
interviene dopo pestaggi ripetuti e molto poco dotati di senso.
Ovvero: perlomeno il film si ama con pezzi di cuore, a tratti ci
schieriamo dalla parte dei visi, se non altro, dei bambini mentre attraversano
i binari a un passo dal treno in corsa.
Non pensiamo sia un capolavoro, laddove è sempre troppo facile
lasciare laconicamente il silenzio e il non detto –che non sempre è
sottrazione- quando non si è in grado di mostrare la struttura
drammaturgica, posto che ce ne debba essere una, o prevale l’intento di
procedere per rapsodici colpi ad effetto.
Cioè: voglio sapere di più sulle paranoie del padre, non
mi basta intuire che un figlio morto anni prima dovrebbe avergli sconvolto
la vita [o l’aveva ammazzato di botte pure quello?]; e perché,
poi, metterne al mondo un altro per poi farne poltiglia?
Per una sera, non ha senso fare la critica e-dotta.
Guardiamo il faccione del “Bola” e votiamo bello.
TORNA SU'
TAVOLA
ROTONDA
SUL CINEMA SPAGNOLO
A cura di VALENTINA DI MICHELE
Il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro si sofferma ancora una volta, dopo
l'edizione del 1977, sul cinema spagnolo, con una tavola rotonda, per
analizzare e ridefinire modi e forme di una realtà cinematografica
spumeggiante e variegata.
Intervenuti al lungo incontro, moderato da Bruno Torri e Giovanni Spagnoletti
(rispettivamente presidente del comitato scientifico e direttore della
Mostra), i critici Nuria Vidal, José Enrique Monterde, Angel Quintana
e i registi Icíar Bollaín, Joaquín Jordá,
Augustí Villaronga, Marc Recha.
L'assenza di una unica identità nazionale sembra essere il punto
di partenza necessario a delineare le caratteristiche di base del cinema
spagnolo, frazionato in innumerevoli realtà linguistiche, culturali
e stilistiche, differenti fra loro persino nelle modalità produttive
e distributive.
Diverse tendenze capaci di convivere e influenzarsi vicendevolmente, generando
un tessuto artistico coerente benché eterogeneo: dal cinema commerciale
al documentario, dalla sperimentazione al film d'autore, un'ondata di
modernismo, nata dal processo di svecchiamento seguito alla caduta del
franchismo, ha determinato una progressiva crescita quantitativa quanto
qualitativa.
Se da una parte l'assenza di modelli forti (come il neorealismo o la commedia
anni '60 per il cinema italiano) è stata interpretata inizialmente
come grave limitazione, il mancato confronto con una tradizione troppo
definita si è rivelato invece fondamentale per la nascita di una
attitudine nuova, libera da confronti ed essenzialmente autonoma. L'avvento
delle tecnologie digitali e di strutture produttive più leggere,
complici le sovvenzioni statali ed un mercato reattivo, ha facilitato
l'ingresso di volti nuovi nella cinematografia iberica, tanto che, nel
solo decennio 1991-2000, ben 250 sono stati i debutti registici.
Il problema annoso è, ancora una volta, legato alle carenze distributive,
e alla mancanza di sale che assorbano anche le produzioni indipendenti
e low budget, ma, nonostante la crisi endemica che investe il mercato
spagnolo (come, del resto, quello italiano), il pubblico sembra attento
e ben disposto nei confronti di un cinema che superi le proposte dell'industria
americana.
Una buona ragione per sperare che, come sostiene Jordá, la qualità
possa, in futuro, pagare, e che, come negli anni '60, il cinema autoriale
conquisti finalmente il diritto di uscire fuori dalla nicchia settoriale
nella quale è, di solito, costretto a vivere.
LAS ESPALDA DE DIOS
di
Pablo Llorca
Sembra di essere dalle parti di LOOKING FOR MR. GOODBAR trent’anni dopo,
trascinati dentro la poesia al neon di locali pomeridiano-notturni a metà
tra Cassavetes e MEAN STREETS, veri ready-made objects d’arte cinematografica
ante-Dogma, non necessitanti d’altre luci, di altre sovrastrutture, quando
però raccontare le B-Sides dell’esistenza coatta metropolitana
era mettersi a muso duro contro intere ere di edificante attività
degli Studios hollywoodiani.
Sostanzialmente rivediamo un attore, che ne EL BOLA lavorava disegnando
tatuaggi, in un’ altra pelicula di buona povertà e ragionevole,
emotiva partecipazione al gioco dell’emarginazione.
Il sogno minimale di un’attività commerciale che apra, o riapra,
le porte chiuse di interazioni umane disperse, anche ora, anche a Madrid,
anche sapendo di non poter dar vita ad un-minuto-uno di emozione creativa.
Dormire dove capita, casualmente risvegliarsi, dare aria al negozio
e ordinare il bancone al termine della giornata.
Casualmente girar(si) intorno.
PAU Y EL SEU GERMA’
di Marc Recha
Come suggerisce giustamente il Direttore della Mostra, Giovanni Spagnoletti,
la Spagna presentata e analizzata con occhio attento e pronto a seguire
la multiformità degli esiti di una cinematografia assolutamente
priva di un centro, ha fatto tesoro di molte scuole artistiche del dopoguerra,
al punto da permetterci di seguire opere in linea con il modus operandi
di certo cinema americano, e altre sensibili, all’opposto, alle matrici
contenutistico-stilistiche del periodo neorealista.
Marc Recha segue, con occhio silenzioso e indagatore, vari sentieri fisici
e interiori, risalendo la china – o il corso d’acqua, a seconda che se
ne voglia vedere il procedere sofferto o risolto- di una storia che deve
recuperare, salvandolo, o rimuovere, perdendolo, un evento, un fatto del
recente passato, cioè la morte per suicidio del fratello del protagonista,
Pau.
Parenti, amici, fidanzate del morto risalgono fisicamente le cave dove
questi lavorava, tra lentezze esasperate e non dialoghi.
Cio’ che è più evidente è la solitudine dell’unica
persona che forse amava il morto, la fidanzata che progressivamente si
emargina, vive male questa rimpatriata dai toni progressivamente allegri
e palesa un malcelato interesse per Pau, se non altro per toccare con
mano il corpo più vicino e simile a quello che lei desiderava.
Ma Pau s’innamora di Marta, figlia del capo-cava, e altrettanto fa sua
madre con quello.
O, perlomeno, trovano ricovero alla vastità del dolore letteralmente
buttandosi l’uno sull’altra, disordinatamente parlando e amandosi.
Il trovarsi e ritrovarsi lava quindi la ferita, mentre le ceneri vanno
perse, cadono accidentalmente per terra e vengono mescolate ad altre.
Il fatto che nessuno sapesse all’inizio del suicidio e pensasse ad un
incidente automobilistico, non sposta la nuova struttura attorno o sulla
quale sono andati riorganizzandosi i rapporti e le persone.
Evidentemente costoro cercavano altro, una ridefinizione che passa attraverso
un sacrificio, quasi un atto rituale agito fuori scena, o se vogliamo
all’inizio del film, con la “morettiana” scena della cremazione.
Il problema è che la regia troppo schematicamente si mette a lato
degli eventi e ogni scelta altrove minimalista qui appare rinunciataria.
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EXSTASIS
di Mariano Barroso
Tra gli effetti del PFF2002 c’è anche quello di “attualizzare”,
col solo fatto di proiettarle, pellicole prodotte in anni recenti e mai
distribuite oltre i confini d’origine. La sensazione è infatti
di aver comunque assistito - al di là dell’aspetto puramente anagrafico
– a film “nuovi”, perché liberi dall’aura che darebbe loro una
retro-spettiva, ma al contempo arricchiti di significato dall’essere chiaramente
inquadrati in un preciso contesto produttivo, sociale e politico.
E’ così che un film come EXSTASIS – datato ‘96 – ci permette di
giudicare il talento (evidente soprattuto nella direzione degli attori)
di Mariano Barroso, e di comprendere quale è stata (e potrebbe
forse essere) la strada iberica di un cinema d’autore lontana dall’immagine
almodovariana d’esportazione.
Non serve conoscere l’opera che ne costitusce lo scheletro – La vida
es sueno, di Caldernon de la Barca – per cogliere l’essenza di un’operazione
narrativamente a pieni giri, la cui svolta prende i toni di un thriller
senza crimini, retto da un sistema di convenienza, istinti e peso reale
di valori come amicizia e stretta parentela.
Un film teatrale che non ha i difetti che spesso accompagnano pellicole
troppo poggiate sui dialoghi e lontane dal vero cinema. Javier Bardem
non era ancora stato la coppa Volpi Reinaldo Reinas per Schnabel (BEFORE
NIGHT FALLS), ma qui dimostrava già appieno la sua capacità
di reggere fisicamente ruoli di peso (anche estetico), e di sapersi trattenere
mantenendo sempre l’equilibrio necessario ad un interprete di spessore.
Se qualcosa non funziona è nel finale “americano”, nel senso dispregiativo
che molti spesso danno al termine. Se il racconto prende la svolta forse
meno coraggiosa, negli ultimi tre minuti sembra di assistere alla chiusa
di uno di quei mille prodotti thriller/horror di mezza estate, che si
spengono con una battuta e l’auto che si allontana da una mdp fissa e
che finisce col puntare il cielo.
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