XXXVIII PESARO FILM FESTIVAL
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EL ESPINAZO DEL DIABLO
di Guillermo Del Toro

UN ENCLAVE DI ZOMBI DENTRO LA FORMALINA DI SURREALI METAFORE CHILI-MEXICO, NON ALMODOVARIANE.

Tagli di luce pensati per un hard-visual che pretende di parlarci di guerra civile. Spagnola?.

Condensazione di destini dentro il rum, l'acqua gialla di cisterne percorse dal fantasma, bambini abbandonati a morire di vendetta, senza comunicazione verbale-fisica col resto della guerra [vera].
Loro combattono la propria, contro un modesto tiranno attirato dall'oro.

In difesa di quel fortino, magra metafora della razza degli abbandonati e perdenti e indifesi.

La bomba improbabile inesplosa conficcata, in stile Garçia Marquez se ne sta ferma nella corte del castello dei rifugiati -bimbi senza crudel tutor- a evocare tutto l'evocabile, ma afasica.

IL FILM E' ANCHE UN WESTERN SENZA INDIANI, UN DILIGENTE PRODOTTO SENZA DILIGENZA E ASSALTI, SE NON FORSE ALLA FINE.

Ci piace il bimbo ammazzato che dall'acqua respira il senso di una colpa da cancellare con la cancellazione del tiranno, in quelle stesse acque che, nella "prateria" secca, stranamente veicolano morte.

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EL MAR (E CERTI LUOGHI DEI FILM SPAGNOLI A PESARO)

di Augustì Villaronga

Eterotopie, luoghi altri, per dirla con Foucault, dove hanno luogo riti di separazione/crescita/passaggio a nuove fasi dell’esistenza.

Il cine spagnolo a-almodovariano [?] è forse tutto qui e in qualcos’altro.

Il mito spagnolo, il sogno collettivo o incubo da rimuovere, o rispetto al quale confrontarsi sempre è: LA GUERRA CIVILE iniziata nel ’36.

A distanza di anni, si ritiene che parlarne con arte significhi metaforizzarla senza indugi.

Le eterotopie di cui sopra [sanatori, come nel caso de EL MAR, post-orfanotrofi raccogli-figli abbandonati dai soldati in partenza come nel ESPINAZO DEL DIABLO] SONO esse stesse la Spagna in guerra.

Facile, elementare rappresentare il popolo come vittima con la categoria infantile degli innocenti; conseguentemente, altre categorie vanno intese dalla parte di chi agisce atti di violenza, etc etc.

Il tutto potrebbe anche sembrare frutto di un’incredibile coincidenza creativa, se sviluppato attraverso un cinema che fa parlare i fatti, che ad essi aderisce.

Ma tra tagli di luce alla TRAUMA, atti di thrilleraggio in luogo pubblico e lenzuoli zuppi di sangue, davvero non ci capiamo più nulla…

Lo spagnolo, se è matador comunque, allora lo sia a-lmodovarianamente, con eleganti ellissi estetiche.

E non spalmando rum, plasma, liquidi sulle Bernadette del sanatorio tubercolotico ridotto a Corsia Bava di questo cinema ospedaliero, e nemmeno coprendo di rosso sangue le benedette eterotopie di Foucault, che tali sono e tali rimangono: i luoghi altri di natura estetica, dove il cinema spagnolo vuol fare accadere la ri-rappresentazione di quell’atto tragicamente fondativo della loro storia recente.

Ma è cinema matador o cinema matato?

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EL BOLA
di Achero Manas

Alla fine della proiezione puoi apprezzare i veri grandi dialoghi: ma sono quelli di chi abbozza idee di critica ancora in mezzo alle file di sedie.

C’era chi abbatteva il film con il napalm di sottili osservazioni appartenenti alla categoria “antropologica”: che brutta questa cosa della contrapposizione manichea tra il [buon? Ndr ] padre lavoratore [ con annesso tran-tran di negozio a forzata e torturatrice conduzione familiare ], per forza carnefice, e il tatuatissimo/ alternativo genitore di altro bambino, “ terribilmente Bruce Willis”, che a difesa del figlio dell’altro interviene dopo pestaggi ripetuti e molto poco dotati di senso.

Ovvero: perlomeno il film si ama con pezzi di cuore, a tratti ci schieriamo dalla parte dei visi, se non altro, dei bambini mentre attraversano i binari a un passo dal treno in corsa.

Non pensiamo sia un capolavoro, laddove è sempre troppo facile lasciare laconicamente il silenzio e il non detto –che non sempre è sottrazione- quando non si è in grado di mostrare la struttura drammaturgica, posto che ce ne debba essere una, o prevale l’intento di procedere per rapsodici colpi ad effetto.
Cioè: voglio sapere di più sulle paranoie del padre, non mi basta intuire che un figlio morto anni prima dovrebbe avergli sconvolto la vita [o l’aveva ammazzato di botte pure quello?]; e perché, poi, metterne al mondo un altro per poi farne poltiglia?

Per una sera, non ha senso fare la critica e-dotta.
Guardiamo il faccione del “Bola” e votiamo bello.

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TAVOLA ROTONDA
SUL CINEMA SPAGNOLO
A cura di VALENTINA DI MICHELE

Il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro si sofferma ancora una volta, dopo l'edizione del 1977, sul cinema spagnolo, con una tavola rotonda, per analizzare e ridefinire modi e forme di una realtà cinematografica spumeggiante e variegata.
Intervenuti al lungo incontro, moderato da Bruno Torri e Giovanni Spagnoletti (rispettivamente presidente del comitato scientifico e direttore della Mostra), i critici Nuria Vidal, José Enrique Monterde, Angel Quintana e i registi Icíar Bollaín, Joaquín Jordá, Augustí Villaronga, Marc Recha.
L'assenza di una unica identità nazionale sembra essere il punto di partenza necessario a delineare le caratteristiche di base del cinema spagnolo, frazionato in innumerevoli realtà linguistiche, culturali e stilistiche, differenti fra loro persino nelle modalità produttive e distributive.
Diverse tendenze capaci di convivere e influenzarsi vicendevolmente, generando un tessuto artistico coerente benché eterogeneo: dal cinema commerciale al documentario, dalla sperimentazione al film d'autore, un'ondata di modernismo, nata dal processo di svecchiamento seguito alla caduta del franchismo, ha determinato una progressiva crescita quantitativa quanto qualitativa.
Se da una parte l'assenza di modelli forti (come il neorealismo o la commedia anni '60 per il cinema italiano) è stata interpretata inizialmente come grave limitazione, il mancato confronto con una tradizione troppo definita si è rivelato invece fondamentale per la nascita di una attitudine nuova, libera da confronti ed essenzialmente autonoma. L'avvento delle tecnologie digitali e di strutture produttive più leggere, complici le sovvenzioni statali ed un mercato reattivo, ha facilitato l'ingresso di volti nuovi nella cinematografia iberica, tanto che, nel solo decennio 1991-2000, ben 250 sono stati i debutti registici.
Il problema annoso è, ancora una volta, legato alle carenze distributive, e alla mancanza di sale che assorbano anche le produzioni indipendenti e low budget, ma, nonostante la crisi endemica che investe il mercato spagnolo (come, del resto, quello italiano), il pubblico sembra attento e ben disposto nei confronti di un cinema che superi le proposte dell'industria americana.
Una buona ragione per sperare che, come sostiene Jordá, la qualità possa, in futuro, pagare, e che, come negli anni '60, il cinema autoriale conquisti finalmente il diritto di uscire fuori dalla nicchia settoriale nella quale è, di solito, costretto a vivere.


LAS ESPALDA DE DIOS

di Pablo Llorca

Sembra di essere dalle parti di LOOKING FOR MR. GOODBAR trent’anni dopo, trascinati dentro la poesia al neon di locali pomeridiano-notturni a metà tra Cassavetes e MEAN STREETS, veri ready-made objects d’arte cinematografica ante-Dogma, non necessitanti d’altre luci, di altre sovrastrutture, quando però raccontare le B-Sides dell’esistenza coatta metropolitana era mettersi a muso duro contro intere ere di edificante attività degli Studios hollywoodiani.


Sostanzialmente rivediamo un attore, che ne EL BOLA lavorava disegnando tatuaggi, in un’ altra pelicula di buona povertà e ragionevole, emotiva partecipazione al gioco dell’emarginazione.

Il sogno minimale di un’attività commerciale che apra, o riapra, le porte chiuse di interazioni umane disperse, anche ora, anche a Madrid, anche sapendo di non poter dar vita ad un-minuto-uno di emozione creativa.

Dormire dove capita, casualmente risvegliarsi, dare aria al negozio e ordinare il bancone al termine della giornata.
Casualmente girar(si) intorno.


PAU Y EL SEU GERMA’
di Marc Recha

Come suggerisce giustamente il Direttore della Mostra, Giovanni Spagnoletti, la Spagna presentata e analizzata con occhio attento e pronto a seguire la multiformità degli esiti di una cinematografia assolutamente priva di un centro, ha fatto tesoro di molte scuole artistiche del dopoguerra, al punto da permetterci di seguire opere in linea con il modus operandi di certo cinema americano, e altre sensibili, all’opposto, alle matrici contenutistico-stilistiche del periodo neorealista.

Marc Recha segue, con occhio silenzioso e indagatore, vari sentieri fisici e interiori, risalendo la china – o il corso d’acqua, a seconda che se ne voglia vedere il procedere sofferto o risolto- di una storia che deve recuperare, salvandolo, o rimuovere, perdendolo, un evento, un fatto del recente passato, cioè la morte per suicidio del fratello del protagonista, Pau.

Parenti, amici, fidanzate del morto risalgono fisicamente le cave dove questi lavorava, tra lentezze esasperate e non dialoghi.
Cio’ che è più evidente è la solitudine dell’unica persona che forse amava il morto, la fidanzata che progressivamente si emargina, vive male questa rimpatriata dai toni progressivamente allegri e palesa un malcelato interesse per Pau, se non altro per toccare con mano il corpo più vicino e simile a quello che lei desiderava.

Ma Pau s’innamora di Marta, figlia del capo-cava, e altrettanto fa sua madre con quello.
O, perlomeno, trovano ricovero alla vastità del dolore letteralmente buttandosi l’uno sull’altra, disordinatamente parlando e amandosi.

Il trovarsi e ritrovarsi lava quindi la ferita, mentre le ceneri vanno perse, cadono accidentalmente per terra e vengono mescolate ad altre.

Il fatto che nessuno sapesse all’inizio del suicidio e pensasse ad un incidente automobilistico, non sposta la nuova struttura attorno o sulla quale sono andati riorganizzandosi i rapporti e le persone.

Evidentemente costoro cercavano altro, una ridefinizione che passa attraverso un sacrificio, quasi un atto rituale agito fuori scena, o se vogliamo all’inizio del film, con la “morettiana” scena della cremazione.

Il problema è che la regia troppo schematicamente si mette a lato degli eventi e ogni scelta altrove minimalista qui appare rinunciataria.


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EXSTASIS
di Mariano Barroso

Tra gli effetti del PFF2002 c’è anche quello di “attualizzare”, col solo fatto di proiettarle, pellicole prodotte in anni recenti e mai distribuite oltre i confini d’origine. La sensazione è infatti di aver comunque assistito - al di là dell’aspetto puramente anagrafico – a film “nuovi”, perché liberi dall’aura che darebbe loro una retro-spettiva, ma al contempo arricchiti di significato dall’essere chiaramente inquadrati in un preciso contesto produttivo, sociale e politico.

E’ così che un film come EXSTASIS – datato ‘96 – ci permette di giudicare il talento (evidente soprattuto nella direzione degli attori) di Mariano Barroso, e di comprendere quale è stata (e potrebbe forse essere) la strada iberica di un cinema d’autore lontana dall’immagine almodovariana d’esportazione.

Non serve conoscere l’opera che ne costitusce lo scheletro – La vida es sueno, di Caldernon de la Barca – per cogliere l’essenza di un’operazione narrativamente a pieni giri, la cui svolta prende i toni di un thriller senza crimini, retto da un sistema di convenienza, istinti e peso reale di valori come amicizia e stretta parentela.

Un film teatrale che non ha i difetti che spesso accompagnano pellicole troppo poggiate sui dialoghi e lontane dal vero cinema. Javier Bardem non era ancora stato la coppa Volpi Reinaldo Reinas per Schnabel (BEFORE NIGHT FALLS), ma qui dimostrava già appieno la sua capacità di reggere fisicamente ruoli di peso (anche estetico), e di sapersi trattenere mantenendo sempre l’equilibrio necessario ad un interprete di spessore.

Se qualcosa non funziona è nel finale “americano”, nel senso dispregiativo che molti spesso danno al termine. Se il racconto prende la svolta forse meno coraggiosa, negli ultimi tre minuti sembra di assistere alla chiusa di uno di quei mille prodotti thriller/horror di mezza estate, che si spengono con una battuta e l’auto che si allontana da una mdp fissa e che finisce col puntare il cielo.


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