Dopo Cuba, il delta del Mekong e il Maghreb, quest’anno il Festival apre le
porte ai paesi del Sud-est asiatico – Singapore, Indonesia, Malaysia e
Thailandia – regione a cui è dedicata la sezione "Open Doors". Il
progetto, che vede la collaborazione della Direzione dello sviluppo e della
cooperazione DSC, intende promuovere film e progetti provenienti da paesi la
cui industria cinematografica è in via di sviluppo attraverso due momenti
distinti: Open Doors Screening, in cui recenti produzioni locali
vengono proiettate per il pubblico festivaliero e Open Doors Factory,
laboratorio in cui sono i progetti non ancora realizzati ad essere visionati
e discussi perchè possano concretizzarsi grazie all’intervento dei
professionisti, prevalentemente europei, presenti in questi giorni a
Locarno. Inoltre, per la prima volta quest’anno sono stati assegnati dei
contributi in denaro per aiutare materialmente la loro realizzazione: a
vincere il premio di 50.000 franchi svizzeri sono stati due progetti
(degli undici presentati) di provenienza indonesiana,
The Photograph di Nan
Achnas e Jermal di
Ravi Bharwani, mentre un terzo premio di 10.000 euro è stato assegnato a
Living Quietly della regista
malese Tan Chui Mui.
Entrando nel merito del fatto cinematografico è legittimo domandarsi se
l’etichetta “Sud-est asiatico” possa servire ad identificare una forma
linguistica unica e riconoscibile. La risposta è negativa per varie ragioni.
Sarebbe infatti molto difficile parlare di una realtà univoca quando a
questa dovrebbero fare riferimento paesi la cui popolazione varia dagli
oltre 200 milioni dell’Indonesia ai neanche 4 milioni di Singapore, in cui
la densità abitativa passa dai 67 ab./kmq della Malaysia ai 6636 ab./kmq
dello stesso Singapore, dove la forma di governo cambia dallo stato
federale, alla repubblica presidenziale, alla monarchia costituzionale.
Sotto la stessa bandiera nazionale, inoltre, convivono solitamente diversi
gruppi etnici (tra cui cinesi, indiani, europei, pakistani, aborigeni) con
differenti religioni (musulmana, buddista, induista, confucianesimo,
taoista, animista, cristiana) divisi anche da una eterogeneità linguistica.
Anche le forme urbane si diversificano drasticamente passando dalle
megalopoli di Bangkok o Jakarta agli sperduti villaggi delle isole
indonesiane. Tutto ciò porta evidentemente all’impossibilità di trovare una
identità comune, una cultura nazionale.
In un simile contesto la produzione cinematografica indipendente è
schiacciata tra pochi grossi studios e una distribuzione in cui sono le
catene di multiplex a decidere il mercato facendo solitamente pendere l’ago
della bilancia verso le grandi produzioni hollywoodiane. Nessun aiuto
proviene dallo stato che, piuttosto, interviene in termini di censura a cui
va aggiunta la propaganda mossa dai gruppi religiosi. L’unico elemento che
lega le diverse cinematografie sembra la fortuna di cui gode il genere
horror - moderna trasposizione delle favole, dei racconti di fantasmi, delle
superstizioni locali - che permette di contenere i costi di realizzazione e
di ottenere buoni incassi dentro e fuori i confini nazionali. Un genere,
dunque, dove è forse possibile trovare tracce della tradizione locale ma
che, purtroppo, non compare nella lista dei film selezionati qui a Locarno.
Sarà perciò opportuno limitarsi a parlare al singolare dei film e degli
autori presenti al festival: sono diciassette le pellicole proiettate,
equamente distribuite tra i quattro paesi invitati.
Da Singapore arriva Be with
me, terzo lungometraggio di Eric Khoo. Tre diverse storie
legate in maniera abbastanza vaga dallo stesso soggetto: la sofferenza. Un
vigilante timido, solo, vessato dai propri parenti, silenziosamente
innamorato di una sconosciuta; l’amore non corrisposto di una ragazza per
una sua coetanea visto attraverso i display dei cellulari; la storia di
Theresa Chan, sorda e cieca fin dall’infanzia raccontata dalla stessa donna.
Tre cortometraggi montati insieme piuttosto che un vero lungometraggio: Khoo
ricerca una dimensione poetica sviluppando un linguaggio fatto di gesti
silenziosi e invece sfocia nella noia di una forma stilistica ormai abusata.
Tre volti del dolore (la solitudine, l’amore deluso, la malattia) per
un’estetica che confonde qualità con pietà.
L’indonesiano The rainmaker,
opera prima di Ravi Bharwani, mostra, filtrata da una fotografia
ambrata e stucchevolmente suggestiva, i gesti dei protagonisti delle cui
vite si riesce a capire davvero poco. Il film sembra girato appositamente
per un pubblico che ama vestire i panni del cinefilo intellettuale, che
ritiene che un silenzio estenuante e un’azione inesistente siano segno di
raffinata poeticità. Il programma indica che la pellicola è in indonesiano e
la proiezione è sottotitolata in inglese: se solo ci fosse stato del parlato
sarebbe stato possibile verificarlo.
Sempre dall’arcipelago indonesiano arriva
Whispering
sands, primo lungometraggio
di finzione di Nan Triveni Achnas: la storia è quella di Daya, una
quindicenne che vive sola con la severa madre in un piccolo paese di mare.
Costretta ad abbandonare il proprio villaggio, la ragazza vivrà i momenti
drammatici che la condurranno all’età adulta. Ben diretto e supportato dalla
buona prova degli attori, il film cattura le emozioni del pubblico senza
lasciarsi troppo distrarre dalla suggestione dei paesaggi.
Il tailandese Ekachai Uekrongtham sceglie per il suo esordio
nel lungometraggio la sorprendente ma vera storia di Nong Toom, campione di
Muay Thai (la kick boxing tailandese) che nel 1999 ha avverato il proprio
sogno: operarsi e divenire donna. Giocato su situazioni buffe e spiazzanti,
Beautiful
boxer è una pellicola
divertente e, nelle riprese degli incontri di boxe, avvincente.
Il lavoro di Chui Mui Tan, giovane regista malese che qui a
Locarno ha presentato tre cortometraggi è sicuramente uno dei più
interessanti tra quelli presentati. Tre momenti diversi per tre piccoli
film: South
of
south, quadro di una famiglia
cinese che vive in riva al mare; A tree
in tanjung
malim, passeggiata notturna
di una giovane spigliata ragazza e di un vecchio amico;
Company
of
mushrooms, il ritrovo di
quattro vecchi amici davanti a una pizza e numerose bottiglie di birra. In
particolare questi ultimi due film rivelano la capacità della giovane
regista di adattare proficuamente il proprio linguaggio alle precarie
condizioni in cui ha dovuto operare quali l’assenza di un budget e, di
conseguenza, l’utilizzo del video anziché della pellicola, la concentrazione
del soggetto in una dimensione spaziale e temporale unica, l’uso di amici
piuttosto che di attori, l’improvvisazione. Una sincera voglia di divertirsi
attorno allo strumento cinematografico che si traduce qui in un prodotto
fresco, vibrante, gradevole.
Cinque lavori, cinque autori, quattro nazioni: stili, atmosfere e luoghi
diversi non sono tuttavia sufficienti a dare a questo cinema un’identità,
una forma peculiare, quell’errore grammaticale che si tramuta in una
riformulazione linguistica nuova, unica, inimitabile. L’assenza di una
cultura propria per questi popoli, così mescolati, così cinematograficamente
deboli rispetto a colossi quali Cina, India e Giappone che dominano il
mercato della regione, è sicuramente alla base di questa carenza.
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Locarno, 07:08:2006 |