59.mo festival di locarno

02/12:08:2006

locarno

 

di Marco FERRARA

 

Dopo Cuba, il delta del Mekong e il Maghreb, quest’anno il Festival apre le porte ai paesi del Sud-est asiatico – Singapore, Indonesia, Malaysia e Thailandia – regione a cui è dedicata la sezione "Open Doors". Il progetto, che vede la collaborazione della Direzione dello sviluppo e della cooperazione DSC, intende promuovere film e progetti provenienti da paesi la cui industria cinematografica è in via di sviluppo attraverso due momenti distinti: Open Doors Screening, in cui recenti produzioni locali vengono proiettate per il pubblico festivaliero e Open Doors Factory, laboratorio in cui sono i progetti non ancora realizzati ad essere visionati e discussi perchè possano concretizzarsi grazie all’intervento dei professionisti, prevalentemente europei, presenti in questi giorni a Locarno. Inoltre, per la prima volta quest’anno sono stati assegnati dei contributi in denaro per aiutare materialmente la loro realizzazione: a vincere il premio di 50.000 franchi svizzeri sono stati due progetti (degli undici presentati) di provenienza indonesiana, The Photograph di Nan Achnas e Jermal di Ravi Bharwani, mentre un terzo premio di 10.000 euro è stato assegnato a Living Quietly della regista malese Tan Chui Mui.

Entrando nel merito del fatto cinematografico è legittimo domandarsi se l’etichetta “Sud-est asiatico” possa servire ad identificare una forma linguistica unica e riconoscibile. La risposta è negativa per varie ragioni. Sarebbe infatti molto difficile parlare di una realtà univoca quando a questa dovrebbero fare riferimento paesi la cui popolazione varia dagli oltre 200 milioni dell’Indonesia ai neanche 4 milioni di Singapore, in cui la densità abitativa passa dai 67 ab./kmq della Malaysia ai 6636 ab./kmq dello stesso Singapore, dove la forma di governo cambia dallo stato federale, alla repubblica presidenziale, alla monarchia costituzionale. Sotto la stessa bandiera nazionale, inoltre, convivono solitamente diversi gruppi etnici (tra cui cinesi, indiani, europei, pakistani, aborigeni) con differenti religioni (musulmana, buddista, induista, confucianesimo, taoista, animista, cristiana) divisi anche da una eterogeneità linguistica. Anche le forme urbane si diversificano drasticamente passando dalle megalopoli di Bangkok o Jakarta agli sperduti villaggi delle isole indonesiane. Tutto ciò porta evidentemente all’impossibilità di trovare una identità comune, una cultura nazionale.
In un simile contesto la produzione cinematografica indipendente è schiacciata tra pochi grossi studios e una distribuzione in cui sono le catene di multiplex a decidere il mercato facendo solitamente pendere l’ago della bilancia verso le grandi produzioni hollywoodiane. Nessun aiuto proviene dallo stato che, piuttosto, interviene in termini di censura a cui va aggiunta la propaganda mossa dai gruppi religiosi. L’unico elemento che lega le diverse cinematografie sembra la fortuna di cui gode il genere horror - moderna trasposizione delle favole, dei racconti di fantasmi, delle superstizioni locali - che permette di contenere i costi di realizzazione e di ottenere buoni incassi dentro e fuori i confini nazionali. Un genere, dunque, dove è forse possibile trovare tracce della tradizione locale ma che, purtroppo, non compare nella lista dei film selezionati qui a Locarno.
Sarà perciò opportuno limitarsi a parlare al singolare dei film e degli autori presenti al festival: sono diciassette le pellicole proiettate, equamente distribuite tra i quattro paesi invitati.

Da Singapore arriva Be with me, terzo lungometraggio di Eric Khoo. Tre diverse storie legate in maniera abbastanza vaga dallo stesso soggetto: la sofferenza. Un vigilante timido, solo, vessato dai propri parenti, silenziosamente innamorato di una sconosciuta; l’amore non corrisposto di una ragazza per una sua coetanea visto attraverso i display dei cellulari; la storia di Theresa Chan, sorda e cieca fin dall’infanzia raccontata dalla stessa donna. Tre cortometraggi montati insieme piuttosto che un vero lungometraggio: Khoo ricerca una dimensione poetica sviluppando un linguaggio fatto di gesti silenziosi e invece sfocia nella noia di una forma stilistica ormai abusata. Tre volti del dolore (la solitudine, l’amore deluso, la malattia) per un’estetica che confonde qualità con pietà.

L’indonesiano The rainmaker, opera prima di Ravi Bharwani, mostra, filtrata da una fotografia ambrata e stucchevolmente suggestiva, i gesti dei protagonisti delle cui vite si riesce a capire davvero poco. Il film sembra girato appositamente per un pubblico che ama vestire i panni del cinefilo intellettuale, che ritiene che un silenzio estenuante e un’azione inesistente siano segno di raffinata poeticità. Il programma indica che la pellicola è in indonesiano e la proiezione è sottotitolata in inglese: se solo ci fosse stato del parlato sarebbe stato possibile verificarlo.

Sempre dall’arcipelago indonesiano arriva Whispering sands, primo lungometraggio di finzione di Nan Triveni Achnas: la storia è quella di Daya, una quindicenne che vive sola con la severa madre in un piccolo paese di mare. Costretta ad abbandonare il proprio villaggio, la ragazza vivrà i momenti drammatici che la condurranno all’età adulta. Ben diretto e supportato dalla buona prova degli attori, il film cattura le emozioni del pubblico senza lasciarsi troppo distrarre dalla suggestione dei paesaggi.

Il tailandese Ekachai Uekrongtham sceglie per il suo esordio nel lungometraggio la sorprendente ma vera storia di Nong Toom, campione di Muay Thai (la kick boxing tailandese) che nel 1999 ha avverato il proprio sogno: operarsi e divenire donna. Giocato su situazioni buffe e spiazzanti, Beautiful boxer è una pellicola divertente e, nelle riprese degli incontri di boxe, avvincente.

Il lavoro di Chui Mui Tan, giovane regista malese che qui a Locarno ha presentato tre cortometraggi è sicuramente uno dei più interessanti tra quelli presentati. Tre momenti diversi per tre piccoli film: South of south, quadro di una famiglia cinese che vive in riva al mare; A tree in tanjung malim, passeggiata notturna di una giovane spigliata ragazza e di un vecchio amico; Company of mushrooms, il ritrovo di quattro vecchi amici davanti a una pizza e numerose bottiglie di birra. In particolare questi ultimi due film rivelano la capacità della giovane regista di adattare proficuamente il proprio linguaggio alle precarie condizioni in cui ha dovuto operare quali l’assenza di un budget e, di conseguenza, l’utilizzo del video anziché della pellicola, la concentrazione del soggetto in una dimensione spaziale e temporale unica, l’uso di amici piuttosto che di attori, l’improvvisazione. Una sincera voglia di divertirsi attorno allo strumento cinematografico che si traduce qui in un prodotto fresco, vibrante, gradevole.

Cinque lavori, cinque autori, quattro nazioni: stili, atmosfere e luoghi diversi non sono tuttavia sufficienti a dare a questo cinema un’identità, una forma peculiare, quell’errore grammaticale che si tramuta in una riformulazione linguistica nuova, unica, inimitabile. L’assenza di una cultura propria per questi popoli, così mescolati, così cinematograficamente deboli rispetto a colossi quali Cina, India e Giappone che dominano il mercato della regione, è sicuramente alla base di questa carenza.

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Locarno, 07:08:2006