vai al 04-08-2001
05-08-2001

CHAN IS MISSING (1982)
Recensione di Daniela Kappler
Frisco, ossia la città di San Francesco costruita dagli hispano-americani che ospita una delle più grandi e interessanti miscellanee linguistiche e culturali americane. Qui si perdono le tracce di Chan, un immigrato cinese la cui ricerca mostra che la vita nel paese delle mille possibilità prende che anche dei turns più ambigui e complessi, man mano che ci si addentra nell'io vagante tra mille luci e ombre. Chi ha una doppia vita? Chi è il vero ricercato dai due tassisti a cui Chan deve dei soldi? Chan è un genio o solo un mentecatto opportunista? Come fa la figlia a credere che sia una brava persona? Chi è cinese e chi non lo è più? Dei due personaggi che lo rincorrono, tra viuzze e blocks rigorosamente in bianco e nero, uno si dichiara blandamente americano e i suoi "What the fuck about this identity shit man, I can tell you man that Chan could not cope with America man, I know that, fuck, I'm…" e l'aspetto da Richard Pryor non fanno che sottolineare la sua risposta superficiale alla questione esistenziale. L'altro più anziano e riflessivo, si sottomette quotidianamente ad una negoziazione identitaria e non si lascia intrappolare da risposte propagandistiche del colore dei soldi che rende uguali tutti gli uomini. E' un processo più doloroso e le sue continue interrogazioni mentali accompagnate da una varietà sonora tendente a preferire il jazz, arrivano al punto di dire "non importa se arrivo a trovare Chan - who is missing". Wang Wayne, affascinato dal cinema indipendente, con questo lavoro riesce a dimostrare subito che è in grado di crearne uno tutto suo, l'inizio della regia e autonomia cinematografica asiatica in America. E in questo suo primo lungometraggio mette in scena attori professionisti e non e si distacca da un mieloso dramma con happy end, perché la ricerca dell'io è un affare di tutti e non ha mai fine.
Voto 27/30


ENTRE NOUS
Regia di Serge Lalou
35mm, 85'- CINEASTI DEL PRESENTE
Recensione di Sandra Salvato
Se ne potrebbe parlare per un anno intero. Dai suoi cortometraggi di finzione Lalou chiede distanza e ne ottiene il doppio. Letteralmente Tra di Noi racconta di un isola, di una famiglia, della pace, della paura, della morte. Il continente di idee e sentimenti è un atollo a poca distanza dalla Bretagna sui cui rimbalzano disperdendosi le luci notturne della città dall'altra parte del mare. Un mare ripreso con insistenza, affresco di un colore dominante, il grigio che si nasconde nel blu. E' oceano freddo e calmierato da morbide correnti, è acqua che rompe gli scogli nei giorni dove parla soltanto il forte vento. Si traduce in poesia l'opera prima del regista che nell'87 è entrato a far parte dei "Film D'ici" con cui ha prodotto anche il film in concorso Avec Tout mon amour di Amalia Escriva. Tuttavia non è la licenza poetica che cerca di ottenere, bensì un faro acceso sull'eterno bisogno-timore dell'uomo, la solitudine. L'età, come il tempo, che entra a far parte di uno stato di quiescenza, non ha più importanza se non fosse per chi ne ha. Come poter dire a tre giovani nel guado tra la pubertà e l'adolescenza che i minuti, le ore e gli anni contano solo alle ricorrenze? Emmanuelle Grangé nel ruolo della madre, è l'unica, per dolore, capace di assorbire lo spazio-tempo. Ma la disgregazione della comunità familiare iniziata con la misteriosa scomparsa del padre confina ancora di più questa figura di donna in un ineluttabile percorso verso l'autodistruzione. Qualcosa muore e qualcuno deve ricominciare a vivere. Per consegnare tutto allo spettatore, il regista sceglie il principio latino del "in medium". In parte cercando la realistica sembianza delle cose con la telecamera a spalla in un fare simile al Dogma, in parte costruendo la metafora con lunghe inquadrature fisse su paesaggi senza fine. In questo senso anche Angelopulos che però firma una coerenza che Lalou sceglie come maschera per due stili non sempre complementari. Il dramma che si consuma ha la stessa profonda e insondabile lentezza delle tragedie greche e, anche se siamo abituati ad un cinema francese implosivo, poco loquace e talora poco scorrevole, ci piacerebbe sperimentare visivamente qualcosa di leggermente diverso. Sono gli unici nei ma non mi sembrano trascurabili.
Voto 24/30

THE DRAGON PAINTER (1919)
Recensione di Daniela Kappler
Sessue Hayakawa, il primo attore orientale a mettere piede e diventare famoso in quella Hollywwod che mostrava apertamente i suoi tratti razzisti e discriminatori agli inizi del secolo scorso. Sullo sfondo ben poco giapponese, si vede spesso una stupenda panoramica del Yosemite Park californiano oppure un murales pseudo-orientale. Saltare tra rocce finte e parchi zen, troviamo il nostro eroe che spinto dalla disperazione-illusione di avere come amore una principessa, schizza e dipinge esclusivamente dragoni e riesce a diventare il discepolo di un famoso pittore. La figlia di quest'ultimo diventa la musa ispiratrice delle opere del giovane genio Tatsu e tranquilizza la sua anima bisbetica, fino al punto che questo diventa completamente privo di ispirazione. Crolla l'illusione e la donna, che, come in molti romanzi orientali è la vera eroina del racconto, ne ha capito il motivo, finge di gettarsi in una cascata e di morire per la rinascita della sua arte. E così avviene, Tatsu dipinge come prima, meglio di prima, e quindi la sposa ritorna davanti agli occhi dell'artista in carne ed ossa. L'happy-end è garantito, siamo a Hollywwod. Basata sul romanzo di Mary McNeil Fenollosa, l'opera mostra anche l'evoluzione annuale delle tecniche cinematografiche del momento. Più spazio per i dialoghi scritti e recitazione più fluida e meno teatrale, caratterizzano questa simpatica produzione multiculturale.
Voto: 27/30

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