CHAN
IS MISSING (1982)
Recensione di Daniela Kappler
Frisco,
ossia la città di San Francesco costruita dagli hispano-americani
che ospita una delle più grandi e interessanti miscellanee linguistiche
e culturali americane. Qui si perdono le tracce di Chan, un immigrato
cinese la cui ricerca mostra che la vita nel paese delle mille possibilità
prende che anche dei turns più ambigui e complessi, man mano che
ci si addentra nell'io vagante tra mille luci e ombre. Chi ha una
doppia vita? Chi è il vero ricercato dai due tassisti a cui Chan
deve dei soldi? Chan è un genio o solo un mentecatto opportunista?
Come fa la figlia a credere che sia una brava persona? Chi è cinese
e chi non lo è più? Dei due personaggi che lo rincorrono, tra viuzze
e blocks rigorosamente in bianco e nero, uno si dichiara blandamente
americano e i suoi "What the fuck about this identity shit man,
I can tell you man that Chan could not cope with America man, I
know that, fuck, I'm…" e l'aspetto da Richard Pryor non fanno che
sottolineare la sua risposta superficiale alla questione esistenziale.
L'altro più anziano e riflessivo, si sottomette quotidianamente
ad una negoziazione identitaria e non si lascia intrappolare da
risposte propagandistiche del colore dei soldi che rende uguali
tutti gli uomini. E' un processo più doloroso e le sue continue
interrogazioni mentali accompagnate da una varietà sonora tendente
a preferire il jazz, arrivano al punto di dire "non importa se arrivo
a trovare Chan - who is missing". Wang Wayne, affascinato dal cinema
indipendente, con questo lavoro riesce a dimostrare subito che è
in grado di crearne uno tutto suo, l'inizio della regia e autonomia
cinematografica asiatica in America. E in questo suo primo lungometraggio
mette in scena attori professionisti e non e si distacca da un mieloso
dramma con happy end, perché la ricerca dell'io è un affare di tutti
e non ha mai fine.
Voto 27/30
ENTRE
NOUS
Regia di Serge Lalou
35mm, 85'- CINEASTI DEL PRESENTE
Recensione di Sandra Salvato
Se ne potrebbe parlare per un anno intero. Dai suoi cortometraggi
di finzione Lalou chiede distanza e ne ottiene il doppio. Letteralmente
Tra di Noi racconta di un isola, di una famiglia, della pace, della
paura, della morte. Il continente di idee e sentimenti è un atollo
a poca distanza dalla Bretagna sui cui rimbalzano disperdendosi
le luci notturne della città dall'altra parte del mare. Un mare
ripreso con insistenza, affresco di un colore dominante, il grigio
che si nasconde nel blu. E' oceano freddo e calmierato da morbide
correnti, è acqua che rompe gli scogli nei giorni dove parla soltanto
il forte vento. Si traduce in poesia l'opera prima del regista che
nell'87 è entrato a far parte dei "Film D'ici" con cui ha prodotto
anche il film in concorso Avec Tout mon amour di Amalia Escriva.
Tuttavia non è la licenza poetica che cerca di ottenere, bensì un
faro acceso sull'eterno bisogno-timore dell'uomo, la solitudine.
L'età, come il tempo, che entra a far parte di uno stato di quiescenza,
non ha più importanza se non fosse per chi ne ha. Come poter dire
a tre giovani nel guado tra la pubertà e l'adolescenza che i minuti,
le ore e gli anni contano solo
alle ricorrenze? Emmanuelle Grangé nel ruolo della madre, è l'unica,
per dolore, capace di assorbire lo spazio-tempo. Ma la disgregazione
della comunità familiare iniziata con la misteriosa scomparsa del
padre confina ancora di più questa figura di donna in un ineluttabile
percorso verso l'autodistruzione. Qualcosa muore e qualcuno deve
ricominciare a vivere. Per consegnare tutto allo spettatore, il
regista sceglie il principio latino del "in medium". In parte cercando
la realistica sembianza delle cose con la telecamera a spalla in
un fare simile al Dogma, in parte costruendo la metafora con lunghe
inquadrature fisse su paesaggi senza fine. In questo senso anche
Angelopulos che però firma una coerenza che Lalou sceglie come maschera
per due stili non sempre complementari. Il dramma che si consuma
ha la stessa profonda e insondabile lentezza delle tragedie greche
e, anche se siamo abituati ad un cinema francese implosivo, poco
loquace e talora poco scorrevole, ci piacerebbe sperimentare visivamente
qualcosa di leggermente diverso. Sono gli unici nei ma non mi sembrano
trascurabili.
Voto 24/30
THE
DRAGON PAINTER (1919)
Recensione di Daniela Kappler
Sessue Hayakawa, il primo attore orientale a mettere piede e diventare
famoso in quella Hollywwod che mostrava apertamente i suoi tratti
razzisti e discriminatori agli inizi del secolo scorso. Sullo sfondo
ben poco giapponese, si vede spesso una stupenda panoramica del
Yosemite Park californiano oppure un murales pseudo-orientale. Saltare
tra rocce finte e parchi zen, troviamo il nostro eroe che spinto
dalla disperazione-illusione di avere come amore una principessa,
schizza e dipinge esclusivamente dragoni e riesce a diventare il
discepolo di un famoso pittore. La figlia di quest'ultimo diventa
la musa ispiratrice delle opere del giovane genio Tatsu e tranquilizza
la sua anima bisbetica, fino al punto che questo diventa completamente
privo di ispirazione. Crolla l'illusione e la donna, che, come in
molti romanzi orientali è la vera eroina del racconto, ne ha capito
il motivo, finge di gettarsi in una cascata e di morire per la rinascita
della sua arte. E così avviene, Tatsu dipinge come prima, meglio
di prima, e quindi la sposa ritorna davanti agli occhi dell'artista
in carne ed ossa. L'happy-end è garantito, siamo a Hollywwod. Basata
sul romanzo di Mary McNeil Fenollosa, l'opera mostra anche l'evoluzione
annuale delle tecniche cinematografiche del momento. Più spazio
per i dialoghi scritti e recitazione più fluida e meno teatrale,
caratterizzano questa simpatica produzione multiculturale.
Voto: 27/30
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