festival DI CANNES

 

16/27:05:2007

CANNES

di Marco GROSOLI

 

QUINZAINE DES RéALISATEURS

smiley face

di Gregg Araki

USA 2006, 85'

 



Se Van Sant comincia a sembrare un po’ troppo prigioniero dell’estetica anni 90, Gregg Araki, con il penultimo Mysterious Skin e il suo ultimo Smiley Face presentato alla Quinzaine, pare accorgersene e provare a porre rimedio. La sua ultima fatica, appunto, modella la commedia adolescenziale americana più scema (la protagonista, non a caso, è la Anna Faris dei vari “Scary Movie”) su misura per un saggio sul concetto marxiano di plusvalore (sic). In sé come proposito non è male, ma l’insieme tutto sommato rimane un po’ accademico, un esercizio intellettualistico travestito da mainstream alla stessa maniera, ammirevole ma limitata e limitante, dei fratelli Coen. La Faris interpreta un’attricetta disoccupata alle prese coi debiti da droga (leggera) e da bolletta della luce. Tutto facile, se non fosse che il suo essere perennemente strafatta genera un’infinità di equivoci e ributta tutto dalle parti della commedia slapstick più demenziale. Tra gli assurdi chiamati in causa, addirittura la copia originale del Manifesto di Marx-Engels che capita nelle mani della ragazzetta e che alla fine finisce divelto, con le sue pagine che invadono la California. In fondo, la cosa non stupisce: il meccanismo economico “drogato” e esploso del post-capitalismo (c’è anche una scena in cui la Faris recita un polpettone rivoluzionario in una fabbrica) genera un meccanismo di debito perpetuo che paradossalmente elimina se stesso: altrettanto paradossalmente una delle accezioni date da Marx alla sua utopia era l’eliminazione del plusvalore, ergo possiamo dire che l’attuale post-capitalismo drogato sia il Manifesto marxiano “disciolto” e realizzatosi anche “oltre” la teoria stessa – da cui il Manifesto che invade la California. Tutto questo va bene, come va bene la forma della commedia per incarnare questo perpetuo squilibrio che si autocompensa che è il plusvalore. Ma il sospetto di appiccicaticcio rimane. 20/30
 

 

in concorso

we owe the night

di James Gray

USA 2006, 120'

 


 

Nel caso di James Gray invece il sospetto è che sia stato ingiustamente sopravvalutato per anni. Il suo We own the night è un dramma assai letterario (di intenzioni vagamente dostojevskiane) su due fratelli degli anni '80 newyorchesi. Uno poliziotto come il padre, l’altro gestore di un night. La lotta al crimine prima li divide, poi, soprattutto dopo la morte del padre, li unirà per sempre: il secondo addirittura si arruola nella polizia. Un film lasciato in mano soprattutto alla grande abilità degli attori, che nel tentativo di ricostruire un mondo e raccontare i legami profondi tra le sue particelle finge di essere “classico”, finge l’asciuttezza e la capacità di lasciarsi scorrere insieme all’azione. Invece c’è il trucco: negli snodi chiave Gray si attacca al concetto di famiglia (specie nella sanguigna accezione importata dalla comunità russa newyorchese) e gli fa infondere il calore necessario a far quadrare tutti i cerchi. Ma in tutto questo si perde la sostanziale fantasmaticità del cinema classico, in cui i cerchi quadravano non per furbizia narrativa ma per l’inesorabile automatismo dei suoi ingranaggi. 24/30
 

 

UN CERTAIN REGARD

california dreamin' (nesfarsit)

california dreamin' (endlesssit)

di Cristian Nemescu

Romania 2007, 155'

 


 

Altra operazione furbetta è senza dubbio il rumeno California Dreamin' (nesfarsit), il cui regista Nemescu è morto l’estate scorsa prima di ultimare il montaggio. 1999: gli americani sono di passaggio in un piccolo villaggio rumeno e per un contrattempo burocratico non possono ripartire per la loro missione in Serbia. Per due ore e mezza non succede niente, e alla fine (come insegna qualunque manuale di sceneggiatura riguardo a casi del genere) c’è il prevedibile massacro catartico. Nel frattempo, ampio spazio ai personaggi e al ritratto di ambiente, con una macchina da presa frenetica che rincorre i pezzettini sparsi dell’azione per dare l’impressione posticcia del “bello della diretta”. Il tutto ha un sapore piuttosto nostalgico e incline alle strizzatine d’occhio, anche verso un’appartenenza comune più o meno nazionale: ambo le cose lasciano piuttosto perplessi. 18/30
 

 

QUINZAINE DES RéALISATEURS

Elle s’appelle Sabine

di Sandrine Bonnaire

Francia 2007, 85'

 


 

Ispira perplessità anche Elle s’appelle Sabine, documentario presentato alla Quinzaine in cui Sandrine Bonnaire ritrae affettuosamente la sorella autistica Sabine, rovinata da cinque anni di ospedale psichiatrico. Lavoro sicuramente lodevole e benintenzionato, ma che fallisce perché troppo attaccato al suo obiettivo dichiarato, che è quello di criminalizzare (giustamente, peraltro) la “reclusione” psichiatrica, soprattutto con un ossessivo montaggio alternato di filmini casalinghi di Sabine prima e dopo la “cura”. è vero che non mancano momenti in cui la programmaticità del progetto vacilla (come quando Sabine si rivolge direttamente alla sorella che la sta filmando, infrangendo il dispositivo spettacolare come quando la regista stessa qua e là balza davanti alla macchina da presa per parlare con la sorella), ma fondamentalmente ci troviamo davanti all’illustrazione di un dato che è gia chiaro dal primo minuto di film. 22/30

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