in
concorso
promise me this
di Emir Kusturica
Serbia/Montenegro/Francia 2006, ***'

Infilato a forza nel concorso principale (per
forza, c'è dietro Canal Plus), l'ultimo Kusturica
Promise me this è, come
previsto, una stanchisima ripetizione dei cliché del pluripremiato regista
di Underground. Bisognerebbe
gettare la spugna già al primo minuto, quando in uno slavo paesaggio
innevato entra in campo una Trabant piena di gente che balla con la musica
gitana a tutto volume che esce dall'autoradio. A quel punto si sa già che si
sta per vedere esattamente tutto quello che ci si aspetta da lui, a
cominciare dalla musica che copre tutto il film con un tappeto ben presto
fastidioso di ottoni, percussioni e tutto quello che Goran Bregovic ha
lasciato in eredità abbandonando l'amico cineasta. Tra uomini volanti,
tacchini innamorati, nani scatenati eccetera eccetera, Kusturica abusa del
proprio stile esagitato sfiancando qualunque buona volontà spettatoriale. Le
sue continue accelerazioni sono totalmente prive di ritmo: il ritmo si ha se
e solo se si sanno collocare le pause al punto giusto. In caso contrario,
come appunto questo dove di pause non ce ne sono affatto, si ha solo un
agitarsi paonazzo e insulso. 20/30
in
concorso
Une
vieille maitresse
di Catherine Breillat
Francia 2007, ***'

Chi invece sorprende assai positivamente è
Catherine Breillat. Una regista che nei suoi venti e passa anni di
carriera ha sempre dato l'impressione di molto talento, ma che a ogni film
rimaneva un po' al di qua delle attese, non arrivando mai a convincere del
tutto vuoi per ingenuità vuoi per presunzione vuoi per troppa ambizione. La
quadratura del cerchio la Breillat l'ha ottenuta con questo
Une
vieille
maitresse, film in costume
tratto da un romanzo di Barbey d'Aurevilly. 1836: un giovane e altolocato
avventuriero si sposa con una virginale e ricca fanciulla dopo dieci anni di
un amore clandestino e rovente con una spagnola di dubbio lignaggio (Asia
Argento). I sensi si risveglieranno ben presto sotto la pudica apparenza
coniugale. Tutto qui? Sì, tutto qui. Perché l'intuizione forte della
Breillat è mettere in scena la storia più vecchia e risaputa del mondo non
limitandosi alla solita duplicità maschile combattuta tra “la mamma e la
puttana”, ma scoprendo questa duplicità tra le pieghe stesse del linguaggio
filmico, lacerato in due in maniera quantomeno arrovellata. Due sono i
registri impiegati: da una parte una sintassi bolsa, allentata, in prosa,
uno scialbo “riferire” narrativo come nei film in costume più polverosi;
dall'altra un linguaggio che si limita alla secca immediatezza del dato
carnale: uno sguardo tagliente, la Argento che lecca la ferita sanguinante
del protagonista, l'assurda parentesi fulminea nel deserto algerino. In
pratica, la contrapposizione tra soft e hard, che corrisponde guardacaso ai
due tipi femminili in ballo nel film. Il bello appunto è che quando si
racconta della passione hard per la focosa spagnola lo si fa in una cornice
soft (un lungo flashback in cui lui la racconta alla nonna della moglie), e
la situazione soft della vita coniugale è raccontata con intransigenza
stilistica hard anche se non c'è niente di “spinto” (da brivido il momento
in cui il protagonista e la spagnola, adulteri, non riescono a farlo perchè
sentono la presenza della moglie che invece, anche dopo aver controllato
fuori dalla porta, non c'è). Il risultato, dunque, è la radicale
interdipendenza tra le due cose – non solo a livello “concreto” di “tipi
femminili”, con l'uomo eternamente indeciso tra la santa e la sgualdrina, ma
a livello puramente di linguaggio. La duplicità maschile è questione di
linguaggio, non di sesso; tuttalpiù è il sesso stesso ad essere
essenzialmente questione di linguaggio. Tant'è che uno dei personaggi più
anziani dice più volte che situazioni del genere sono dovute unicamente al
fatto che “oggigiorno le donne leggono romanzi come quelli di Laclos”... La
Breillat, che in tanti film ha affrontato l'abisso del sesso, si scontra
ora, al cuore stesso di questo abisso, con gli slittamenti puramente di
superficie del linguaggio. 27/30
in
concorso
Mogari no mori
the
mourning forest
di Kawase Naomi
Giappone/Francia 2007, ***'

Impressionante la consonanza di tutto ciò con il nuovo lavoro di un'altra
regista, la straordinaria Kawase Naomi. Il suo nuovo
Mogari
no
mori racconta di una donna,
che ha perso il figlio, e della sua amicizia con un anziano con problemi
mentali (ancora segnato dalla perdita della moglie più di trent'anni prima)
dell'ospizio in cui lavora. I due insomma sono il riflesso l'una dell'altro,
e colmano il reciproco dolore per la perdita l'una con l'altra, proprio come
il protagonista della Breillat era il perno attorno a cui ruotavano le due
figure assolutamente speculari della santa e della sgualdrina. Questa
specularità però (in entrambi i film) è destinata a spezzarsi: l'anziano e
la donna nel corso di una gita si perdono per giorni in una foresta, e
vengono così a contatto con il vuoto stesso al centro dell'esistenza. Le
lunghissime, appassionanti sequenze nella foresta, con il sublime tentennare
della cinepresa (spesso a mano) della Kawase a contatto della materia,
aprono la percezione alla pura percezione di se stessa (“ci sono due modi di
vivere: vivere e sentirsi mentre si vive” dice il monaco all'inizio)
coincidente con la natura (vedere il magnifico prologo, che macina insieme
in una cosa sola la foresta e la lavorazione del suo legno). Nessuna
contemplazione, piuttosto disagio estatico dell'esserci: materializzazione
del presentimento, enunciato chiaramente dal finale del film, che l'assenza
abitata da chi non c'è (più) coincida con lo spaesamento che proviamo
davanti al “qui e ora” di qualsiasi semplicissimo istante. La macchina da
presa ultrasensibile della Kawase, insomma, si spinge al limite della
presenza sensoriale immediata per farci baluginare l'assenza in lontananza.
Per superare l'assenza non serve crearsi dei riflessi artificiali di quello
che non c'è, sostituire l'assente con qualcosa di presente che lo richiami
come fanno inizialmente i due protagonisti (“non esistono regole formali”
per superare la perdita, ripete spesso uno dei personaggi secondari), bensì
scoprire l'assenza nel cuore stesso del presente in cui siamo immersi.
24/30
un certain
regard
ye
che
night
train
di Yinan Diao
Hong Kong/Francia 2007, ***'

Non di assenza, ma di assoluta rarefazione
narrativa tratta invece Ye
Che di Yinan Diao,
storia di una poliziotta terribilimente sola che si intrallazza col marito
di una condannata a morte che lei stessa ha avuto per le mani. Ammirevole
freddezza linguistica, un film ghiacciato da qualche parte tra Olmi,
Kaurismaki, Soldini e Suleiman (sic), con scene che galleggiano nel vuoto
risolte da un dettaglio improvviso, da un bagliore fulmineo, da un accenno
di discorso subito trattenuto, da un'allusione discreta. Una sospensione
tenuta fino alla fine del film, rifiutando una chiusura alla trama che
rimane invece ambigua. Un mondo di terrificante solitudine, malinconicamente
lontano e di struggente immobilità, che attutisce anche gli sconvolgimenti
più estremi, come l'omicidio, in una cappa persistente di dolcissimo
grigiore. Yinan Diao sa costruire atmosfere con davvero pochissimi elementi
utilizzati al meglio, per pura perizia sintattica dell'immagine: una coltre
impersonale in cui i personaggi sono ombre indifese che alzano la testa di
tanto in tanto. 29/30
in concorso
secret sunshine
night
train
di Lee Chang-Dong
Corea 2007, ***'

Molto più giocato sul filo della scrittura è il bellissimo
Secret Sunshine di Lee
Chang-dong, melodramma su una donna che si trasferisce da Seoul nella
provincia natale del defunto marito, insieme al figlio che morirà dopo
essere stato rapito. Per via dell'enorme dolore, la donna subirà una breve
folgorazione religiosa volatilizzata quando scopre che Dio ha perdonato
l'assassino del figlio senza prima chiedere il suo parere (comunque incline
al perdono). Da lì in poi, piomba nel caos etico e mentale, da cui forse
uscirà grazie all'amore di un controverso scapolo locale. Lee è
straordinariamente attento alle sfumature, si attiene rigorosamente alla
fenomenologia del personaggio anche davanti agli eventi più estremi,
registrandone i riverberi a fior di pelle più che sacrificare il tutto in
un'impalcatura narrativa. Ciò si vede assai bene anche a livello compositivo:
nell'inquadratura (in cinemascope), il personaggio principale è molto
chiaramente il perno intorno a cui si organizza tutto, un perno che tanto
sembra preordinato dalla scrittura quanto aperto alla rivelazione sul campo,
in un acrobatico equilibrio che è da sempre la cifra distintiva di Lee (Peppermint
Candy,
Oasis...). È lui (cioè lei)
l'oscuro e misterioso (nella sua semplicità) oggetto da seguire
pazientemente e scrupolosamente (come fa lo scapolo innamorato), da
comprendere anche nei più destabilizzanti accessi di follia, per tentare
quel rischioso (ma necessario) compromesso tra visibile e invisibile, tra
realtà crudele e speranza trascendente, tematizzato dal sottotesto che
percorre sotterraneamente l'intero film fino all'indimenticabile
inquadratura finale. 25/30
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- 26 maggio, fine :::
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