festival DI CANNES

 

16/27:05:2007

CANNES

di Marco GROSOLI

 

in concorso

promise me this

di Emir Kusturica

Serbia/Montenegro/Francia 2006, ***'

 



Infilato a forza nel concorso principale (per forza, c'è dietro Canal Plus), l'ultimo Kusturica Promise me this è, come previsto, una stanchisima ripetizione dei cliché del pluripremiato regista di Underground. Bisognerebbe gettare la spugna già al primo minuto, quando in uno slavo paesaggio innevato entra in campo una Trabant piena di gente che balla con la musica gitana a tutto volume che esce dall'autoradio. A quel punto si sa già che si sta per vedere esattamente tutto quello che ci si aspetta da lui, a cominciare dalla musica che copre tutto il film con un tappeto ben presto fastidioso di ottoni, percussioni e tutto quello che Goran Bregovic ha lasciato in eredità abbandonando l'amico cineasta. Tra uomini volanti, tacchini innamorati, nani scatenati eccetera eccetera, Kusturica abusa del proprio stile esagitato sfiancando qualunque buona volontà spettatoriale. Le sue continue accelerazioni sono totalmente prive di ritmo: il ritmo si ha se e solo se si sanno collocare le pause al punto giusto. In caso contrario, come appunto questo dove di pause non ce ne sono affatto, si ha solo un agitarsi paonazzo e insulso. 20/30

 

 

in concorso

Une vieille maitresse

di Catherine Breillat

Francia 2007, ***'

 


 

Chi invece sorprende assai positivamente è Catherine Breillat. Una regista che nei suoi venti e passa anni di carriera ha sempre dato l'impressione di molto talento, ma che a ogni film rimaneva un po' al di qua delle attese, non arrivando mai a convincere del tutto vuoi per ingenuità vuoi per presunzione vuoi per troppa ambizione. La quadratura del cerchio la Breillat l'ha ottenuta con questo Une vieille maitresse, film in costume tratto da un romanzo di Barbey d'Aurevilly. 1836: un giovane e altolocato avventuriero si sposa con una virginale e ricca fanciulla dopo dieci anni di un amore clandestino e rovente con una spagnola di dubbio lignaggio (Asia Argento). I sensi si risveglieranno ben presto sotto la pudica apparenza coniugale. Tutto qui? Sì, tutto qui. Perché l'intuizione forte della Breillat è mettere in scena la storia più vecchia e risaputa del mondo non limitandosi alla solita duplicità maschile combattuta tra “la mamma e la puttana”, ma scoprendo questa duplicità tra le pieghe stesse del linguaggio filmico, lacerato in due in maniera quantomeno arrovellata. Due sono i registri impiegati: da una parte una sintassi bolsa, allentata, in prosa, uno scialbo “riferire” narrativo come nei film in costume più polverosi; dall'altra un linguaggio che si limita alla secca immediatezza del dato carnale: uno sguardo tagliente, la Argento che lecca la ferita sanguinante del protagonista, l'assurda parentesi fulminea nel deserto algerino. In pratica, la contrapposizione tra soft e hard, che corrisponde guardacaso ai due tipi femminili in ballo nel film. Il bello appunto è che quando si racconta della passione hard per la focosa spagnola lo si fa in una cornice soft (un lungo flashback in cui lui la racconta alla nonna della moglie), e la situazione soft della vita coniugale è raccontata con intransigenza stilistica hard anche se non c'è niente di “spinto” (da brivido il momento in cui il protagonista e la spagnola, adulteri, non riescono a farlo perchè sentono la presenza della moglie che invece, anche dopo aver controllato fuori dalla porta, non c'è). Il risultato, dunque, è la radicale interdipendenza tra le due cose – non solo a livello “concreto” di “tipi femminili”, con l'uomo eternamente indeciso tra la santa e la sgualdrina, ma a livello puramente di linguaggio. La duplicità maschile è questione di linguaggio, non di sesso; tuttalpiù è il sesso stesso ad essere essenzialmente questione di linguaggio. Tant'è che uno dei personaggi più anziani dice più volte che situazioni del genere sono dovute unicamente al fatto che “oggigiorno le donne leggono romanzi come quelli di Laclos”... La Breillat, che in tanti film ha affrontato l'abisso del sesso, si scontra ora, al cuore stesso di questo abisso, con gli slittamenti puramente di superficie del linguaggio. 27/30

 

 

in concorso

Mogari no mori

the mourning forest

di Kawase Naomi

Giappone/Francia 2007, ***'

 



Impressionante la consonanza di tutto ciò con il nuovo lavoro di un'altra regista, la straordinaria Kawase Naomi. Il suo nuovo Mogari no mori racconta di una donna, che ha perso il figlio, e della sua amicizia con un anziano con problemi mentali (ancora segnato dalla perdita della moglie più di trent'anni prima) dell'ospizio in cui lavora. I due insomma sono il riflesso l'una dell'altro, e colmano il reciproco dolore per la perdita l'una con l'altra, proprio come il protagonista della Breillat era il perno attorno a cui ruotavano le due figure assolutamente speculari della santa e della sgualdrina. Questa specularità però (in entrambi i film) è destinata a spezzarsi: l'anziano e la donna nel corso di una gita si perdono per giorni in una foresta, e vengono così a contatto con il vuoto stesso al centro dell'esistenza. Le lunghissime, appassionanti sequenze nella foresta, con il sublime tentennare della cinepresa (spesso a mano) della Kawase a contatto della materia, aprono la percezione alla pura percezione di se stessa (“ci sono due modi di vivere: vivere e sentirsi mentre si vive” dice il monaco all'inizio) coincidente con la natura (vedere il magnifico prologo, che macina insieme in una cosa sola la foresta e la lavorazione del suo legno). Nessuna contemplazione, piuttosto disagio estatico dell'esserci: materializzazione del presentimento, enunciato chiaramente dal finale del film, che l'assenza abitata da chi non c'è (più) coincida con lo spaesamento che proviamo davanti al “qui e ora” di qualsiasi semplicissimo istante. La macchina da presa ultrasensibile della Kawase, insomma, si spinge al limite della presenza sensoriale immediata per farci baluginare l'assenza in lontananza. Per superare l'assenza non serve crearsi dei riflessi artificiali di quello che non c'è, sostituire l'assente con qualcosa di presente che lo richiami come fanno inizialmente i due protagonisti (“non esistono regole formali” per superare la perdita, ripete spesso uno dei personaggi secondari), bensì scoprire l'assenza nel cuore stesso del presente in cui siamo immersi. 24/30

 

 

un certain regard

ye che

night train

di Yinan Diao

Hong Kong/Francia 2007, ***'

 

 

Non di assenza, ma di assoluta rarefazione narrativa tratta invece Ye Che di Yinan Diao, storia di una poliziotta terribilimente sola che si intrallazza col marito di una condannata a morte che lei stessa ha avuto per le mani. Ammirevole freddezza linguistica, un film ghiacciato da qualche parte tra Olmi, Kaurismaki, Soldini e Suleiman (sic), con scene che galleggiano nel vuoto risolte da un dettaglio improvviso, da un bagliore fulmineo, da un accenno di discorso subito trattenuto, da un'allusione discreta. Una sospensione tenuta fino alla fine del film, rifiutando una chiusura alla trama che rimane invece ambigua. Un mondo di terrificante solitudine, malinconicamente lontano e di struggente immobilità, che attutisce anche gli sconvolgimenti più estremi, come l'omicidio, in una cappa persistente di dolcissimo grigiore. Yinan Diao sa costruire atmosfere con davvero pochissimi elementi utilizzati al meglio, per pura perizia sintattica dell'immagine: una coltre impersonale in cui i personaggi sono ombre indifese che alzano la testa di tanto in tanto. 29/30

 

 

in concorso

secret sunshine

night train

di Lee Chang-Dong

Corea 2007, ***'

 


Molto più giocato sul filo della scrittura è il bellissimo Secret Sunshine di Lee Chang-dong, melodramma su una donna che si trasferisce da Seoul nella provincia natale del defunto marito, insieme al figlio che morirà dopo essere stato rapito. Per via dell'enorme dolore, la donna subirà una breve folgorazione religiosa volatilizzata quando scopre che Dio ha perdonato l'assassino del figlio senza prima chiedere il suo parere (comunque incline al perdono). Da lì in poi, piomba nel caos etico e mentale, da cui forse uscirà grazie all'amore di un controverso scapolo locale. Lee è straordinariamente attento alle sfumature, si attiene rigorosamente alla fenomenologia del personaggio anche davanti agli eventi più estremi, registrandone i riverberi a fior di pelle più che sacrificare il tutto in un'impalcatura narrativa. Ciò si vede assai bene anche a livello compositivo: nell'inquadratura (in cinemascope), il personaggio principale è molto chiaramente il perno intorno a cui si organizza tutto, un perno che tanto sembra preordinato dalla scrittura quanto aperto alla rivelazione sul campo, in un acrobatico equilibrio che è da sempre la cifra distintiva di Lee (Peppermint Candy, Oasis...). È lui (cioè lei) l'oscuro e misterioso (nella sua semplicità) oggetto da seguire pazientemente e scrupolosamente (come fa lo scapolo innamorato), da comprendere anche nei più destabilizzanti accessi di follia, per tentare quel rischioso (ma necessario) compromesso tra visibile e invisibile, tra realtà crudele e speranza trascendente, tematizzato dal sottotesto che percorre sotterraneamente l'intero film fino all'indimenticabile inquadratura finale. 25/30

::: << 11 - 26 maggio, fine :::