festival DI CANNES
16/27:05:2007 CANNES |
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IN CONCORSO death proof di Quentin Tarantino USA 2007, 127'
Death Proof, film migliore del concorso finora insieme a Kim Ki-Duk e Bela Tarr, è già dal titolo un richiamo all’erotismo di Bataille già acciuffato e superato per sempre da Crash di Cronenberg. “Fare finta di morire” è il gioco di “Stuntman Mike” (Kurt Russell), controfigura semifallita e folle che ammazza giovani automobiliste andandogli addosso a 300 all’ora con la propria auto “a prova di morte”. “Fare finta di morire” è la logica maschile del Fantasma, godere dell’assenza altrui per illudersi di essere presenti: è anche la logica del feticismo, cui Tarantino allude dall’inizio alla fine con innumerevoli primissimi piani di piedi femminili. Death Proof è una battaglia (“Bataille”) tra sessi, bruscamente diviso in due parti: nella prima Mike (dietro a cui si scorge come in Bill di Kill Bill Tarantino stesso: “I’m not a cowboy, I’m a stuntman”, faccio le cose sul serio ma rigorosamente per finta, come artificio retorico) uccide le ragazze, nella seconda l’esatto contrario. Due stili, due luoghi, due squadre femminili, due ritmi, due cinema differenti. Nel primo ci si compiace feticisticamente dell’assenza (sovente vengono troncati dei fotogrammi per dare l’idea che la pellicola salti, e per donare un’allure mimetica da anni 70 – e una delle ragazze ha una maglietta con scritto “L’ultimo Buscadero”, Peckinpah), della discontinuità violenta. Nella seconda questo vuoto si trasfigura e diventa il vuoto da un fotogramma e l’altro, e non a caso i titoli di coda vengono genialmente riempiti di “code”, quei fuggevoli fotogrammi con scritto “Kodak” e con la faccia di una ragazza che a volte si vede alla fine di un rullo: il femminile stesso è allora il vuoto tra un fotogramma e l’altro – non il vuoto creato ad arte per compiacere lo sguardo (maschile) come nella prima parte, ma suprema forza meccanica propellente che autosupera automaticamente la propria assenza, come già nella Sposa di Kill Bill. La potenza sublime del cinema americano, automatismo spettrale e senza volto, diventa allora (come sempre in Tarantino) gioco del e sul vuoto. Il vuoto come unica benzina del motore del cinema. Un vuoto tanto pieno che si spacca in due, e la simmetria binaria in cui si divide il film serve proprio a farci con scontrare con l’ambiguità: fantasia masochista-maschile del mettere in scena per finta la propria nemesi o passaggio effettivo del testimone al femminile? 30/30
QUINZAINE DES RéALISATEURS yumurta di Semih Kaplanoglu Turchia/Grecia 2007, 97'
In una Quinzaine da cui ci si aspettava
qualcosina di più, fa la sua figura
Yumurta del turco Kaplanoglu, apologo letterario sulla solita
scia della “riconciliazione con le proprie radici”, innescata come da
copione dalla morte della madre del protagonista (Yusuf) e dal conseguente
ritorno al paesello (nel quale troverà una ragazza che, dopo averlo convinto
dopo mille riluttanze al sacrificio rituale prescritto dalle volontà
testamentarie della madre, si innamorerà). L’oscillazione romanzesca tra
oggettivo e soggettivo si traduce, con ottimo acume strutturale, in
intermittenza tra focalizzazione sul protagonista e pause
contemplativo-paesaggistiche, rese con ammirevole sobrietà e al riparo da
tentazioni pittoricistiche. Concedendosi anche qualche azzeccata parentesi
onirica (stupenda quella del cane che tiene in ostaggio Yusuf tutta una
notte in un campo coltivato), Kaplanoglu fa parlare luoghi e oggetti
(dialoghi al minimo) tessendoli insieme in un’atmosfera sospesa che riscatta
la limitata originalità del progetto. |