festival DI CANNES
16/27:05:2007 CANNES |
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fuori concorso Chacun son cinema to each his own cinema di AAVV Francia 2007, 100'
Si storce sempre il naso davanti a operazioni quali Chacun son cinema. Gilles Jacob ha radunato 35 cineasti che hanno fatto la gloria di Cannes e ha commissionato a ciascuno tre minuti che in qualche modo coinvolgessero una sala cinematografica. Il risultato giustifica senza dubbio lo storcersi del naso. Accanto a nomi inutili che hanno confermato la propria inanità (un nome su tutti: Bille August – ma anche Lelouch o Inarritu), purtroppo molti grandi e grandissimi hanno capitolato con scemenze indifendibili: dalla Campion (da denuncia) a Ruiz (caricatura di se stesso) a Van Sant (che sembra Salvatores) a Polanski a Wong a Wenders a Chahine a Assayas a Kiarostami. Si salva in corner Cimino, che in virtù di ritmo e di senso miracoloso del cinema (come vento che spazza via tutto) si permette di irridere la nozione stessa di autore: il protagonista del suo segmento è un registucolo che assomiglia un po’ a Wenders e un po’ a Godard che crede di sovrapporsi con le proprie ideuzze infime al fascino automatico e immediato di una cantante che, filmata e rovinata su celluloide, se la prende giustamente con lui. Al vertice il sommo de Oliveira, che firma un geniale incontro tra Krusciov e il papa che sembra davvero voler illustrare lo smisurato “L’Uomo Comune al Cinema”, primo e unico libro sul cinema di Jean-Louis Schefer. Incredibile sorpresa di Walter Salles che redime tutta la sua inutile carriera con tre minuti assolutamente esilaranti in cui strizza l’occhio con sovrana irriverenza al cliché dei brasiliani “col ritmo nel sangue”. Grande Kitano che ribadisce che il cinema è un’ellisse comica e spietata, e Kaurismaki che riannoda in senso palindromo l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumiere facendola a vedere a operai veri appena usciti dalla fabbrica ed entrati in una sala. Stupefacente come al solito la padronanza dei meccanismi comici di Suleiman. Più che interessante il lasciarsi andare dei Coen e Cronenberg al proprio intellettualismo. Stupenda l’ennesima rincorsa di Bresson da parte dei Dardenne. E poi basta. n.d.
QUINZAINE DES RéALISATEURS garage di Lenny Abrahamson Irlanda 2007, 85'
Langue ancora la Quinzaine, con Garage di Lenny Abrahamson, innocua parabola bucolica e minimale su un sempliciotto di buon cuore travolto da una vita cattiva e in malafede: film che perde per strada il proprio vago fascino stralunato per colpa di sfondoni di grana grossa. 15/30
QUINZAINE DES RéALISATEURS Dai Nipponjin di Hitosi Matumoto Giappone 2007, 113'
Ma con Dai
Nipponjin si risolleva bruscamente: è senz’altro, finora, la vera
sorpresa del Festival. Un reportage televisivo (di una troupe che non
vedremo mai) sulla vita ordinaria di un impopolare supereroe (le sue imprese
vengono mandate in onda in TV alle due di notte passate, brulicano scritte
sui muri contro di lui), impegnato ogni tanto in feroci lotte con mostri
deformi e cattivissimi ma che per il resto è una persona terribilmente
normale. Allucinante la discrasia tra le interviste all’individuo in
questione (Dai Sato), assolutamente quotidiane e orizzontali (“Si cucina lei
i propri pasti?” “Come mai porta sempre l’ombrello con sé?” “Mah non si sa
mai”), e gli scontri coi mostri, spericolate invenzioni di computer grafica
che piazzano follie figurative assolute in un ambiente urbano
spaventosamente normale. Attenzione: non è una parodia dei supereroi:
piuttosto si tratta di una misura sorprendentemente indovinata tra azione
“vera” e dissacrazione, dove la “realtà” e la “trasfigurazione” lasciano
posto a qualcosa che non è né l’una cosa né l’altra. Le due cose (un po’
come nel film di Hou Hsiao-Hsien) abitano lo stesso spazio, e ci viene fatto
subodorare questo stesso spazio più che l’una cosa o l’altra. Il regista
Hitosi Matumoto azzecca così (con scelte visive che distinguendo al
massimo realismo e artificio riesce lo stesso a far sì che il “pallino” non
sia né dell’una né dell’altra parte) un punto di indifferenza tra i due
elementi (discrepanti come non mai) di una naturalezza quasi rosselliniana,
quasi un Inoshiro Honda “impossibilmente” postmoderno, che sconta la
consapevolezza del progetto recuperando non si sa neanche bene dove
un’innocenza inedita. E si permette così di sbeffeggiare apertamente, nel
finale, il filone hollywoodiano recente dei supereroi, ancora imbrigliato
dalla pesantezza spettacolare: tutto questo senza rinunciare a uno spessore
teorico che a prezzo di qualche lungaggine (ma succede al 90% dei film
giapponesi) dice cose nient’affatto banali sul rito, sulla tradizione,
sull’ambigua assenza contemporanea di autorita’ “paterne”. 30/30 |