festival DI CANNES

 

16/27:05:2007

CANNES

di Marco GROSOLI

 

in concorso

breath

soom

di Kim Ki-duk

Corea del Sud 2007, 84'

 

 

Respiro (Soom) di Kim Ki-Duk è il primo film del regista coreano a chiamarsi come tutti i suoi film avrebbero dovuto chiamarsi. Teorico insuperabile (oggi) della ripetizione, Kim si rifà con questo titolo a ciò che più naturalmente ripetiamo ogni istante. La trama (appunto), melodramma a tinte forti strutturato rigorosamente secondo la ripetizione ossessiva degli stessi segni fulminei sospesi nel vuoto, sa di già sentito, sa di altri film di Kim: l’ex fidanzata di un galeotto va a trovare quest’ultimo (pluriaspirante suicida) in carcere (mandando il marito su tutte le furie) esibendosi ogni volta in stucchevoli siparietti che ritraggono le quattro stagioni, fino a che l’inevitabile catastrofe deflagra. Sempre gli stessi gesti e gli stessi luoghi, ritmicamente e ossessivamente ripetuti. Il tutto sotto gli occhi del direttore del carcere (che non vediamo mai in faccia, se non di riflesso) che spia su uno schermo i brevi convivi amorosi del carcerato e della donna: lo sguardo insomma, il nostro sguardo, come agente primo della ripetizione (a partire dalla ripetizione regolare dei fotogrammi che ci illude del movimento), come membrana tra gli elementi della ripetizione (cioè tra i due mondi, dentro e fuori il carcere, dei protagonisti), e come ostacolo a che la ripetizione possa avvitarsi su se stessa, producendo invece la radicale delocalizzazione illustrata nel finale con un lancinante montaggio alternato. Chi è dell’avviso che Kim ora sia la maniera di se stesso poteva smettere di seguirlo molti anni fa, perchè grazie al cielo Kim da sempre vive e respira la ripetizione come nessun altro, e come nessun altro ce ne sa consegnare il segreto. 30 e lode

 

 

un certain regard

bikur hatizmoret

the band'svisit

di Eran Kolirin

Israele/Francia 2007, 90'

 

 

Davanti a tanto, non si sa bene cosa farsene poi di esempi diligenti di cinema “medio” come i due israeliani the band'svisit di Eran Kolirin e Tehilim, di Raphael Nadjari - quest'ultimo in concorso. Davanti al primo, in realtà, ci si diverte parecchio. La storiella dell’orchestrina egiziana capitata per caso in uno sperduto villaggio israeliano, oltre a essere piuttosto godibile di per sé, viene assecondata con un talento comico vero, che sa quando azzeccare i tempi e soprattutto quando sbagliarli (elemento fondamentale nella commedia). Una sapienza autentica delle meccaniche comiche che fortunatamente fa sobbalzare un po’ la perdurante ruffianeria “multietnica” dell’assunto, ovvi retrogusti dolceamari compresi. 24/30

 

 

in concorso

tehilim

di Raphaël Nadjari

Israele/Francia 2007, 96'

 

 

Quanto al secondo, racconta di una normalissima famiglia il cui padre scompare, sprofondando nella crisi. Il figlio, assai più vicino ai religiosissimi parenti di ramo paterno che alla madre, tenterà davanti al vuoto di certezze una scappatoia “integralista” ma tornerà presto coi piedi per terra. Ebraicissima storia di assenza paterna che è evidentemente l’assenza (ebraica) di Dio – di conseguenza il film suona un po’ come un appello alla maturità, a non sfociare nell’integralismo credendo di averlo trovato o di poterlo trovare, il padre (e Dio). Il guaio è che Raphael Nadjari, per quanto squassi la macchina da presa e restituisca tranche de vie quotidiane grezze, disorientate e volutamente prive di un punto di vista particolare, non riesce ad aderire all’ordinaria assenza di coordinate che è la quotidianità, non riuscendo a fare a meno di mettere faticosamente in piedi un discorso, che di suo è pure un po’ scontato e programmatico. Si affanna, insomma a tenere insieme la tentazione della misoginia (sempre in agguato in una società del genere), l’abbraccio vitale ma ambiguo della comunità (che conta su una forza secolare e vivissima) e altri tasselli inconfondibilmente israeliani, perdendo di vista proprio il disorientamento realista, pragmatico da cui il discorso prende le mosse e a cui tenta di arrivare. 22/20

 

 

fuori concorso

sicko

di Michael Moore

USA 2007, 120'

 

 

Certo, molto meglio questi esempi che l’esecrabile, come al solito, Michael Moore. Il suo Sicko sbaglia completamente il bersaglio, crede che il problema “salute” possa ridursi a chi non può pagarsi le cure, trascurando il ben più nevralgico nodo della “biopolitica” (che pure sfiora parlando di Guantanamo), e tutto quel filone foucaultiano che ci ricorda come l’arma più pericolosa e mortale del potere sia farci restare in salute. Senza nemmeno accorgersi che la sua pacchianata di andare a Cuba con degli americani per farsi curare gratis è identica a quei programmi televisivi trash (che impazzano non solo negli States) in cui viene scelta una famiglia a caso e gli si ricostruisce la casa trasformandolo da tugurio in reggia. 18/30

 

 

eventi speciali

he femgminge

Chronique d’une femme chinoise

di Wang Bing

Hong Kong 2007, 186'

 

 

Molto meglio il documentarista cinese Wang Bing, che con le tre ore e passa del suo He Fengming cancella la propria presenza registica finalizzandola tutta in funzione dell’ascolto della sua interlocutrice, un’anziana cinese sopravvissuta a decenni disumani tra campi di lavoro (fu accusata di essere controrivoluzionaria) e Rivoluzione Culturale, e che ora si impegna a fondo per far sopravvivere la testimonianza dei molti che hanno vissuto i suoi stessi orrori. Macchina fissa di fronte alla anziana narratrice per la quasi totalità del tempo, un racconto da brivido, anche per la maniera insieme distaccata e partecipe (in una parola: cinematografica) con cui la donna racconta. Wang Bing non documenta la realtà, ma prolunga il filo della testimonianza: il documentario si conclude con la donna che lavora alla sua ambiziosa raccolta di testimonianze. La conservazione della memoria, così, si palesa attiva tanto al di qua quanto al di là della macchina da presa. 30/30

 

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