biennale teatro 2011
sette peccati Teatro La Fenice (Sale Apollinee e Sala Rossi), Ateneo Veneto (Aula Magna e Biblioteca), Conservatorio B. Marcello (Sala Concerti e Sala Prove), Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti (Sala del Portego)
16 ottobre h21, Teatro Goldoni
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LABORATORIO TEATRALE, di Anna Trivellato |
sette peccati: scheda |
7 laboratori con: Thomas Ostermeier, Romeo Castellucci, Jan Lauwers, Rodrigo García, Ricardo Bartís, Calixto Bieito, Jan Fabre, per la realizzazione di 7 spettacoli brevi sul tema: “I sette peccati capitali contemporanei”. Percorso in 7 spettacoli brevi: Teatro La Fenice, Sale Apollinee – Romeo Castellucci: Attore, il tuo nome non è esatto Teatro La Fenice, Sala Rossi – Calixto Bieito: Envidia Ateneo Veneto, Aula Magna – Jan Fabre: The Holy Gangster Ateneo Veneto, Biblioteca – Ricardo Bartís: Burocracia, Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota Conservatorio B. Marcello, Sala Concerti – Jan Lauwers: The Slow Lie Conservatorio B. Marcello, Sala Prove – Rodrigo García: Desconocer nuestra propia naturaleza Istituto Veneto, Sala del Portego – Thomas Ostermeier: Death in Venice |
media: 25/30 |
Teatro Indignado
Fucina d virtù…
Assumiamo che teatro e drammaturgia siano strumenti di rivoluzione, nell’accezione artaudiana e, un po’ meno, brechtiana. La fucina alchemica di Biennale Teatro, che sia diretta da Romeo Castellucci (edizione 2005, artaudiana) o Alex Rigola (brechtiana), è il luogo in cui ragionare su possibili rinascite delle coscienze e ha quindi il compito di produrre il fuoco inesausto della ricerca sulla messa in scena intesa come viatico per il cambiamento. Diventa oro la materia immateriale di un’arte che si esaurisce nel momento in cui la si fa, indisponibile in copie ripetute e non downloadabile. La catena che unisce Laboratori, Festival vero e proprio e Asac (quest’ultimo inteso come luogo in cui si tenta di archiviare, fissandoli, quel fuoco e gli altri eventi prodotti dalla Biennale), produce, dopo la teoria di gruppo o sul singolo (lab/oratorio) la pratica biennale fatta di spettacoli. Oggi affermiamo che tale catena dev’essere tenuta viva da chi proseguirà, si spera, l’opera di Paolo Baratta, il primo alchimista, che, come tutti i direttori da lui scelti in questi anni, ha peccato. Non d’ira, avarizia, accidia, invidia o superbia: ha peccato di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Negli ultimi anni, poi, vedendo scorrergli davanti un’imbarazzante teoria di personaggi autoproclamatisi ministri dell’arte, pastori di cultura, si è reso responsabile persino di atti di fede, speranza e carità. L’intera Italia della vera Cultura ha peccato di ogni tipo di virtù teologali o cardinali, sino ad arrivare a limiti di disumana sopportazione. Quanto più il Paese si trova in uno stato di totale abbandono e le giovani generazioni non trovano appigli di sorta, che siano nel passato, nell’ideologia, in semplici ideali o nella battaglia nella e per la Polis, tanto più l’arte diventa incredibilmente necessaria, radicalmente indispensabile, in quanto indicatrice dello stato complessivo della comunità e unico, vero terreno di lotta politica. Sempre di più, negli anni a venire, vogliamo diventare schiavi della Bellezza, come in Dostoevskij, e sempre meno potremo prescindere da chi questa bellezza la gestisce, la indirizza, la fonda, come fa da sempre l’istituzione veneziana.
…laboratorio di Peccati
Nei morality plays tardo-quattrocenteschi, a un certo punto la danza macabra della morte fa irruzione nel testo e si prende cura di chi si è reso colpevole dei peccati capitali: qui e ora, ministri, portaborse, parassiti, politici. Il Teatro Indignado di questa Biennale, per dirla con la lingua di Alex Rigola, ragiona sull’attualissima contrapposizione tra virtuosità paziente della pietas (Castellucci) e devastazioni dei poteri forti (il brechtian-declamatorio Fabre), tra miseria della burocrazia e delle istituzioni (Bartis/Sette Peccati, Anagoor) e minimalistica solidarietà familiare (Sieni), avendo già una risposta chiara sul chi combattere e mettendosi alla ricerca del come farlo. La sfera privata, violata dalla bestiale ignoranza dei media, braccio armato del progetto eversivo che mira a cancellare le coscienze delle ultime due o tre Generazioni X, non è fatta per ritirate e ripiegamenti autoriflessivi, ma si autocostruisce come area protetta dei valori. Là fuori, con l’Italia e la Spagna unite in questa Biennale, ma pronte a seguire la Grecia nel baratro del disastro economico-finanziario, ci sarà solo da ricostruire una comunità sfatta, ma solo dopo che avremo camminato sulle macerie dei palazzi del potere. La riuscitissima edizione diretta da Rigola, costruita su spettacoli difficili da dimenticare, per troppa generosità soffre un po’ nella coda, quindi nel laboratorio stesso. Forse perché disposti entro un unico affascinante continuum itinerante che scopre Venezie non turistiche, i lampi scenici dei sette registi non vengono còlti come un corpus coerente, ma come un’ostinata quanto disordinata variazione sul nucleo tematico centrale, che – a distanza di un anno dalle prime intuizioni- ha cominciato a rivelarsi un po’ debole e quindi necessitante attualizzazione e riforma. Non è un caso che gli autori, alla fine, siano usciti dal solco, inventandosi neo e sottopeccati o siano rimasti intrappolati in una rappresentazione convenzionale. Pur lavorando a tema, solo Romeo Castellucci, Jan Lauwers, Calixto Bieito e in parte Jan Fabre sono riusciti a interpretare l’input del direttore artistico rimanendo coerenti sia con le premesse del loro spettacolo principale presentato alla Biennale, sia con le linee della propria poetica. Stabilito ciò, è necessario capire, brevemente, su cosa abbiano ragionato e si siano confrontati i registi coinvolti nel laboratorio, ovvero cosa significhino, in questo contesto, “Peccare e/o sotto peccare”.
Sottopeccare, ergo guardare
Dopo aver tentato di espellerlo nell’affannosa rincorsa di dio, la contemporaneità ha incluso il peccare come plusvalore o necessità utile a produrre simulacri per società opulente.Nel Medioevo corrente, che abitiamo illusi di attraversare l’epoca dei Lumi, osserviamo una tale proliferazione di sottocategorie di peccati (mortali e non) , da avere difficoltà a stabilirne la collocazione. Ficcata la Vanità (attualissima) tra gli scaffali di Superbia, dove sistemiamo Falsità? E se Pedofilia s’insinua tra le derive di Lussuria, il Guardare dove sta? Non quello innocente dell’actio involontaria, ma quello dell’opzione scopica: esso sembra rimanere in un limbo perturbante. è il guardare per essere visti o per non esserlo mentre si continua a fissare l’oggettistica del proprio desiderio. Guardare come desiderare incompleto, forse, passando vicino a diverse case, senza entrare in nessuna. Un mix di accidia, invidia e lussuria che, più o meno inaspettatamente, sembra fin d’ora porsi come il peccato proprio della messa in scena e del contesto teatrale.Sta di fatto che l’uno e l’altro, esibizionismo atque voyeurismo - non l’uno contro l’altro - sono due lati di uno stesso ambiente, ovvero quello, come detto, della messa in scena. Non come strutturazione di una rappresentazione o lavoro attoriale d’identificazione, ma solo in forma di tango tra voyeuristi (pubblico) ed esibizionisti (attori). TO WATCH come trasversale insinuarsi tra vari peccati mortali, senza esserne al medesimo livello di gravità. Impossibile non riconoscere in noi stessi i quotidiani peccatori, ad esempio quando andiamo a teatro (ovvero nel luogo perfetto, in greco tò theatron, da theàomai, “sono spettatore, guardo”).Durante uno spettacolo pecchiamo noi insieme agli attori per troppo guardare desiderando o per troppo desiderare d’essere guardati, il ché rende necessario l’atto di espiazione e dunque il sacrificio.
Guardare, ergo desiderare
René Girard (fondamentale il suo La violence et le sacré (1972)) sostiene che ogni desiderio è aspirazione, brama di una pienezza attribuita a un modello, entro uno schema in cui il rapporto tra soggetto desiderante e oggetto desiderato non è diretto e lineare, ma sempre triangolare: soggetto, modello, oggetto desiderato. Girard sostiene, nello sviluppo del concetto di desiderio mimetico, che si finisca quasi sempre col desiderare solo ciò che un’altra persona, vertice o lato del triangolo, da noi stimata e ammirata, vuole e brama. Stabilito questo sistema di specchi, è evidente come nel teatro l’attore costituisca il modello, per lo spettatore, in grado di trascinare, nell’evocazione immaginifico-testuale, compagini storiche, figure del Mito, idee (oggetti del desiderio, anche solo “conoscitivo”). Girard definisce il proliferare di tale poli-riflessione - nella societas e nel doppio della sua koinè - come crisi mimetica. Moltiplicandosi le crisi mimetiche, ovvero abbandonandosi la società a un caos di desideri imitativi e, insomma, alla loro deriva (invidia), si destabilizzano i principi della Comunità e bisogna riportare ordine. Anche il guardare desiderando è un pericoloso atto di sovversiva convenzionalità. Le religioni pagane riconoscevano la necessità di un atto sacrificale, dove la violenza agita imitava e sostituiva quella reale del caos poli-desiderante.Dopo tale sacrificio, la comunità si acquietava in un eros unanime (Girard). Il teatro ha l’incredibile peculiarità di raccogliere in un unico prolungato istante il peccato in azione e la redenzione stessa, il desiderare entro crisi mimetiche e l’espulsione simbolica di tali crisi, uccidendo-sacrificando l’attore o gli attori che devono morire/scomparire in/dalla scena, grazie a un artificio narrativo. Dopo lo spettacolo, la comunità di spettatori esperisce un momento di sedazione sociale.
Autore, il tuo sacrificio è incompleto
Era naturale attendersi dai vari autori posti di fronte alla natura primigenia della loro arte uno scandaglio analitico e uno sforzo espressivo. Ciò che interessava dei SETTE PECCATI di Biennale Teatro era dunque la possibilità di mettere in scena per spettatori itineranti (sempre dei peccatori) il frutto di un lavoro sul Guardare e sul Desiderio e non rappresentazioni-quadri di uno qualunque dei sette peccati capitali o di una loro discutibile variazione. Cosa che ha fatto, ad esempio, Thomas Ostermeier con la “pedofilia”.
01: Death in Venice Thomas Ostermeier/ Tango immobile al ristorante Ostermeier Al piano terra dell’Istituto Veneto in Campo Santo Stefano, il regista è partito col piede sbagliato, quasi volesse dar credito agli ostinati detrattori (Fabre, Lauwers, etc). Per mettere in rappresentazione nientemeno che Pedofilia, non ha trovato niente di meglio o meno prevedibile della “Morte a Venezia” di manniana e britteniana ascendenza. Filtrata la visione con l’uso di fastidiosepalmette tra le quali ci si è disposti scomodamente, Ostermeier ha fissato in una natura morta acroma e dimessa, anche se ripresa da un video in movimento, due gruppi teoricamente desideranti. L’anziano Gustav Von Aschenbach Mahler liedereggia con voce stentorea rivolto all’imberbe Tadzio, da sinistra a destra, ma, come viene detto di Ralph Fiennes e Juliette Lewis in STRANGE DAYS, we “don't feel anything between you. Your trouble is you assume there's something where there's nothing”. L’attore-cantante, massiccio e inespressivo, non mette in atto dinamiche dell’attrazione e quasi sembra non curarsi del tavolo al quale siede la famiglia del ragazzino, interpretato da una bella esile attrice in divisa da marinaretto (tutto rigorosamente fedele al libro). Lei-Tadzio espone timidamente un improbabile moto d’animo, che sfocia nel brusco e goffo posizionarsi di fronte all’obeso tenore. Ad ogni modo, l’unica vera idea scenica è quella dell’improvviso ralenti del gruppo familiare di Tadzio, a destra, che sottolinea gesti convenzionali, cerimoniosità stanche di pura decadènce. In definitiva, il guardare desiderando dei due, oltre ad essere esangue o assente, non innesca alcunché, meno che meno nello spettatore: il “triangolo” è morto prima di nascere. Utilizzare il testo di Mann col pretesto della pedofilia, poi, è un atto di bestiale ignoranza. VOTO: 21/30
02: The Slow Lie Jan Lauwers & Needcompany/Jan’s Room (of Sex Music)
The Slow Lie
Segmento assai riuscito, forse dotato di una forza interna anche maggiore rispetto a ISABELLA’S ROOM dello stesso Lauwers. Nella sala concerti del Conservatorio Benedetto Marcello, mentre qualcuno è al pianoforte di destra di due, contrapposti, e sul palco c’è lo scheletro di un allestimento scenico fatto di panche, sedie, banchi in legno e plastica trasparente, che simulano un podio/trono, una ragazza in prima fila, sul terzo posto a sedere dalla destra, si masturba con intensità crescente dandoci le spalle. Noi, in prima fila del secondo settore, quindi otto dietro la performer, ci perdiamo nel suo viso estatico, restituitoci da uno schermo piatto posto in mezzo al passaggio della penultima fila del 1° settore. Una videocamera, che rimanda l’immagine della ragazza allo schermo, la fissa insistentemente, agendo in nostra vece. La temperatura del guardare desiderando è altissima, aumentata dall’intelligente definizione di una distanza. Lo schema è per certi versi molto simile a ciò che presenterà Romeo Castellucci nelle Sale Apollinee della Fenice. “Se non c’è conflitto non c’è arte” sostiene il fiammingo “conflitto con la moralità, le abitudini, per trovare una nuova ragione al fare arte”. Un’altra ragazza con funzioni di presentatrice, vestito attillato e microfono, introduce con sensualità anche gestuale lo spazio della sala, gli altri performer e le loro azioni, destinate a perdersi in una sequenza indistinta, ma solo dopo che un singolo, chiarissimo atto purificatore avrà diviso la performance in due micro-atti ben distinti. Una volta presentati, gli attori, con bellissimo effetto visivo, scompaiono dietro/sotto le file del primo settore, dalle quali riemergono spogliati e restituiti allo sguardo puro, assoluto dello spettatore, nient’affatto lussurioso, ma semmai svegliato dall’ignavia e indifferenza in cui si trovava. Dall’addormentata sopportazione di false armonie sceniche e dalla rigida spazialità della sala di conservatorio o da compiti e ruoli calati dall’alto, ci si sveglia in un nuovo rigenerante disordine nudo che è territorio della disobbedienza e dell’anarchia. Ciascuno, nel veloce finale, disattenderà gli ordini e le indicazioni della presentatrice. è imbarazzante come si possa pensare a certe soluzioni sceniche immaginando una presunta volontà di mettere in scena la “Lussuria”, scandalizzandosi per i nudi, le simulazioni di accoppiamenti e le masturbazioni di Lauwers, Fabre e Castellucci dopo ere infinite di ragionamento sul corpo e la visione. è disperante notare come spesso siano i ventenni - sospettiamo italiani e catto/catodici - i primi a ravvisare qua e là ciò (porno-grafia, da pornè e pèrnemi, “vendere, alienare”) che non esiste nella mente degli artisti, ma solo nella loro falsa coscienza di videodrogati, convinti di lavare sul piano scivoloso e irreale di un monitor morbosamente osservato il presunto lerciume del loro desiderare. Lauwers coglie perfettamente il senso della “lenta bugia” in atto nel meccanismo di certa rappresentazione, richiamando, ancora una volta come Fabre e Castellucci, il bisogno di una neo-neo-neo-liberazione dei sensi. I performer dilagano verso il trono, disattendendo le indicazioni della presentatrice e incastonandosi in una goffa morfè laocoontica, guidati però dallo splendido corpo di un’attrice rivoluzionaria. I cortocircuiti della visione desiderante hanno raggiunto l’acme, correttamente visualizzato anche nel viso sedato della ragazza che ha raggiunto il piacere nell’osservazione del tutto. VOTO: 30/30
03: Desconocer nuestra propia naturaleza Rodrigo Garçia/Carte in corte Debolissimo il terzo stadio del percorso tra i “Sette Peccati”. Garçia sparpaglia nella corte del B.Marcello alcuni attori coperti da un costume in lattice spugnoso bianco sporco, intenti a (non) coinvolgere il pubblico in un solitario a carte (azione ossimorica), mentre alcuni monitor ci mostrano la ripetizione della stessa azione scenica in un paio di campi veneziani e voci amplificate sottolineano l’empatia assente tra gli umani. Gli incappucciati, affiliati a un generico KuKluxKlan dell’anima che li isola dal mondo e li rende fantasmi innaturalmente uguali tra loro, fanno e “spandono” solitudine, che sarebbe il neo-peccato in questione. Non potevamo certo aspettarci per forza interazioni tra performer e pubblico, con simile premessa, ma il lavoro pecca comunque di notevole povertà (idee, costruzione scenica, costumi). VOTO: 10/30
04: “The Holy Gangster” Jan Fabre/Gangsta Sinna Siamo nella splendida Aula Magna dell’Ateneo Veneto, a un passo dalla Fenice e si parla del Peccato della Violenza.Veloce e ironica (come spesso in Fabre) incursione in un non-tempo molto nordeuropeo, popolato di figure archetipiche - qui il sinnerpuppet, pupazzo con funzione rappresentativa dell’idea di peccato - che vengono poi trasportate nel presente per assumere facies contemporanea, nella fattispecie di gangster, per comunicare il consueto messaggio di auspicata insurrezione delle coscienze, attraverso il medium teatrale o le arti visive. Il cortocircuito travestitistico dell’identità sessuale celata quanto più la si mostra, crea donne-gangster che sottomettono uomini-prostitute: iper-icone di liberazione & sovversione contro società e cultura dominanti? ambiguazione del sinner e disambiguazione del peccato? Più che altro, come in Lauwers, si utilizza una semplice idea scenica - identità ribaltata/azione sessuale/intervento finale della parola - per suscitare reazioni nel pubblico e portarlo a confrontarsi, in maniera diretta e a volte assiomatica, con questioni assolute (in genere il Potere e le sue derive estremistiche). Qui, una volta arrivati alla declamazione finale, ribaltando un po’ lo schema del PROMETHEUS, meditiamo, ascoltando uno degli attori citare Ghandi, sulle possibilità ancora aperte di relazioni interpersonali e di gruppo, quindi politiche, che non siano impostate sulla sopraffazione e la definizione di uno schema gerarchico prestabilito. Ancora una volta la superconnotazione sessuale la vede solo chi ne è ossessionato, mentre, come sempre e com’è giusto, essa si trascina dietro altro. Il gangster sacro è un pretesto, la sessualità un mezzo, la comunicazione di un semplice messaggio di pacificazione l’intento reale. VOTO: 29/30
05: Burocracia, Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota Ricardo Bartís/Amleticomico Passiamo al piano superiore dell’Ateneo, sala della biblioteca: sentori di passato e atti di archiviazione di testi considerati sacri, con sottofondo di regole, atti, ingiunzioni, anche se il territorio è quello del teatro e delle molteplici copie dell’Amleto shakespeariano che si suppone vengano conservate lì. Non siamo lontanissimi da Fabre (“burocrazia, meccanismo idiota e braccio armato della politica”). Amleto è un pretesto per indagare i meccanismi della sopraffazione e dell’ottusità di regole formali, contrapposti all’agire umanamente, adducendo come scusa il neo-peccato della Burocrazia, dietro al quale stanno Potere e Morte. Il breve spettacolo è abbastanza riuscito, pieno di entrate e uscite (significativa l’anziana signora che pensa di entrare in banca quando suona alla porta della biblioteca), insomma quello più simile a una rappresentazione compiuta. Il testo shakespeariano serve anche per rievocare un universo di umanità contrapposto alle derive del potere, con i personaggi che raccontano il loro personale “amleto”, sotto forma di contrasto tra dolore o lutto privato e cavilli del Sistema. VOTO: 26/30
06: Envidia Calixto Bieito/Envidia Sexual Sala Rossi della Fenice, quasi fossimo noi i protagonisti di una prova generale di qualche opera lirica, tra cavea lignea e fondale da simil-teatro greco: una schiera di attori ci urla contro, mentre la performer cantante, svariando tra BESAME MUCHO e recitazione accorata, si fa carico di chiarire i termini della mini-rappresentazione. Tutti gli altri hanno stampato in fronte “Envidia”, su fogli di carta, e in realtà provocano l’audience ambulante, sia per portarla sul forzatissimo tema dibattuto (invidia nei confronti di chi ottiene una parte in cambio di favori sessuali), sia per conquistarne l’attenzione attraverso seduzione. Con un altro titolo o fuori dal contesto, lo spettacolo sarebbe anche abbastanza riuscito, soprattutto per il coinvolgimento emotivo/interpretativo di alcune attrici. Ironicamente, data la location, non è il Bieito regista d’opera né quello di DESAPARECER. VOTO: 23/30
07: Attore, il tuo nome non è esatto Romeo Castellucci/Azione teorica: One and three Actions
Romeo Castellucci
Riprendendo il titolo dell’opera di Joseph Kosuth “One and three chairs” del 1965 si vuole sottolineare l’assoluta chiarezza espositiva che connota l’azione teorica, oltre che drammaturgica, dell’artista di Cesena e la definitività icastica di un’installazione scenica intesa come “idea di teatro”, ben oltre i sette peccati capitali di partenza. Sale Apollinee, ancora Fenice, luce satanica rossa riverberata dall’oro che qui ricopre tutto. A) Otto attori si alternano - a distanza variabile dal pubblico sistemato contro la parete di fondo - nel rivivere stati di possessione demoniaca, che accadono davanti ai nostri occhi (alcuni mimano il labiale del posseduto, uno si abbandona alle convulsioni, una ragazza si spoglia e si masturba). (B) Otto registrazioni ci consentono di ascoltare la traccia audio degli eventi rievocati e (C) altrettante didascalie su schermo restituiscono l’informazione corretta su luogo, tempo e nome delle persone possedute, tra cui lo spiritualista austriaco Rudi Schneider còlto nel suo stato di “cane di Satana”. La Cosa-evento (A), l’immagine-suono della Cosa-evento (B) e la sua definizione (C) sembrano coincidere, mentre sono radicalmente differenti, tenute insieme da qualcosa di esterno. Nel fare teatro, le raccoglie/unisce solo lo sguardo dell’Altro, agendole nello spettacolo, ovvero en tò theatron. Il tuo nome, attore, non è esatto: non agisci, ma sei agito. Con wittgensteiniana chiarezza d’intelletto, Castellucci espone un ready-made di corpi privi d’orpello e ribadisce: l’attore non è nulla senza lo spettatore; invece di colui che agisce, egli dev’essere passivo, mosso come in una possessione para-demoniaca da “forze che lo governano da dentro e da sempre”. Le “Potenze esogene che occupano il corpo dell’attore e lo fanno agire” stanno nel grande Altro, nello spettatore e nel suo Guardare. Lo sguardo d’intesa che gli 8 performer lanciano al pubblico al termine di ogni segmento scenico, infatti, non è lo sguardo di Satana, ma verso Satana, verso la forza esogena (NOI) che lo muove. Extra moenia, fuori dalle mura del teatro, lontano da questo scambio, tutto muore. Questo è il testo castellucciano e solo nel sottotesto si dice anche altro, di più vicino al tema del peccare. Secondo il cesenate, e anche secondo noi, ”il guardare è stato - infatti - privato della possibilità di critica, quindi di spessore” intellettuale e, nel contempo, di purezza e innocenza antiche. Dovremmo mettere a riposo l’indistinta matrice ottica che guida le nostre osservazioni quotidiane dello schermo televisivo o del monitor, ri-azionando l’altra, profonda forma del guardare che trova un senso solo nell’incontro con qualcosa che è fuori da noi. Un oggetto d’arte, un paesaggio, il corpo e gli occhi dell’attore. VOTO: 30 e lode
«Certo il teatro non risolve i problemi finanziari - dice il regista - ma, rimettendo al centro dell' attenzione l' individuo, può analizzare, quindi oggettivare i problemi morali, la crisi dei valori etici. Perché il teatro - conclude - aiuta a pensare» (Alex Rigola). |
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biennale teatro 2011 sette peccati
10 ottobre > 16
ottobre 2011
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