The venice project
going beyond buildings

 

di Gabriele FRANCIONI

The Venice Project: Sviluppo >>

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a) Premessa

 

Le derive autoreferenziali dell’Arti Visive e dell’Architettura sono sempre seguite da movimenti di opposizione tesi a recuperare il dialogo col contesto, il luogo, l’ambiente. Siamo ormai vicini agli anni Dieci del nuovo secolo, solitamente tempo di avanguardie. Nell’attesa, non assistiamo a un’alternanza temporale tra i due atteggiamenti, ma ad una compresenza, all’interno del dibattito, della pratica e del mercato, di:

- una nuova e chiusa oggettualità che produce macro-edifici disegnati dalle grandi star e micro-macro opere d’arte impegnate a costruire una sorta di cosmogonia privata dell’autore, da un lato;

- rinascita di videoarte, fotografia, performance, installazioni a forte/inevitabile connotazione “concettuale” dall’altro.

 


 

Espulse queste ultime dai territori del nuovo collezionismo globalizzato,  affermatosi peraltro nei soli Est del mondo, esse tornano a rivolgersi a paesaggi urbani e nuove interstizialità periferiche, dove l’urgenza dialettica crea dibattito e comunione d’intenti tra i talenti che escono dalle migliori biennali dedicate ai giovani.
Non è una nuova primavera, perché il discrimine tra passato e pres
ente è segnato dall’avvento di capitali prima sconosciuti, responsabili di inimmaginabili (un tempo) alti e bassi nella valutazione delle opere.

 


Resta, comunque, il fatto che anche da parte di istituzioni storiche viene sottolineata la necessità di uscire dal vicolo cieco della spettacolarizzazione (in questo caso architettonica) e di buttarsi “là fuori” - out there -  per recuperare uno sguardo libero che vada oltre il valore, estetico e non, degli edifici considerati mainstream.


b) La nuova sede di Fondazione Prada

L’illuminata gestione dei capitali, attenta a valorizzare ciò che appunto sta out there, rappresenta la terza via e, di fatto, l’unica attuale da percorrere per far passare da invisibilità a visibilità il nuovo e il già trascorso.
Nell’ascolto di un’arte che copre diversi decenni precedenti quello attuale e in attesa di rivolgersi verso ulteriori territori di sperimentazione - come dovrebbe essere il cinema - Fondazione Prada ha dimostrato di saper stare “là fuori” e di essere in grado di leggere con attenzione l’intera letteratura visuale prodotta negli ultimi quarant’anni, coniugando qualità ormai sedimentate nell’humus del tempo (Louise Bourgeois, David Smith, Eliseo Mattiacci, Michael Heizer, Dan Flavin, Giulio Paolini, De Maria), star affermate quando non erano ancora tali (Anish Kapoor reduce dalla Biennale di Venezia del 1990) e chi lo è diventato successivamente (Francesco Vezzoli, Tom Sachs, Mariko Mori, Sam Taylor-Wood, Carsten Holler, tra gli altri).
Sempre con la ferrea volontà di stabilire connessioni tra una precisa stagione, il 1968, che riconvertiva in  rivoluzionarie linee di forza la precedente breve stagione del Concettuale franco-italiano di Yves Klein e Piero Manzoni.
L’Arte Povera definita da Germano Celant torna ciclicamente a ridare linfa all’arte italiana (e non solo) e ciclicamente viene evocata da artisti/critici/curatori come l’ultimo grande momento espressivo del nostro paese.

 


è emozionante seguire la crescita, ad esempio, di personaggi come Sachs e Taylor-Wood o Carsten Holler su quella linea da tempo tracciata.
Tra alcuni di loro la pratica del ritorno alla videoarte, anche se non esclusivo, è ormai felicemente consolidata.
Non è difficile immaginare, quando l’esemplare edificio di Rem Koolhaas verrà portato a termine, una riproposizione delle loro opere all’interno del nuovo contesto, con il video-wall e la torre della collezione permanente posti a mo’ di monoliti kubrickiani che fanno dialogare la stratificazione del passato e l’urgenza (anche) multimediale dell’oggi.
La scelta della periferia milanese, il riuso di spazi interstiziali rintracciati tra i sette corpi di fabbrica originari, restituiscono l’immagine fortissima di un riposizionamento dei capitali dell’arte, quasi un manifesto da mostrare al mondo, piuttosto che una semplice dimostrazione di “capacità locale” nell’indicare vie alternative alle istituzioni cittadine (lo abbiamo letto da qualche parte…).

 


Certo, la nuova sede di Viale Isarco sembra costruita appositamente per mettere definitivamente di fronte alle proprie responsabilità l’amministrazione cittadina e a mostrane l’inadeguatezza nell’impegno per la promozione del contemporaneo.
Come ho scritto nel numero di settembre 2008 del magazine “Venezia News”, non esiste altra via, per la promozione alta della cultura e delle arti contemporanee in Italia, che l’istituto delle fondazioni e la loro natura privata.
Il contesto semi-periferico, poi, avvicina ancor di più le future installazioni/azioni performative/mostre a quell’avanguardia (per ora) di reietti, che hanno scelto per elezione le forme espressive ora più o meno  bandite, ad esempio, dai vari “Art Basel” e che presumibilmente verranno qui invitati negli anni a venire.
 

 

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