going beyond buildings
Sviluppo

 

di Gabriele FRANCIONI

Going Beyond Buildings: Introduzione >>

 

a) Peter Greenaway & Peggy Guggenheim

 

L’iniziativa di portare Peter Greenaway al Museo Guggenheim di Venezia nasce dalla mia personale convinzione che l’arte del regista gallese sia  legata ad alcuni elementi fondamentali che caratterizzano sia la città in sé, sia la Fondazione.

Ciò che lo accomuna alla prima è la presenza fondamentale della Storia in atto: non elemento passivo, ma motivo di continua e vitale riscoperta delle nostre radici culturali. Di riflesso, la Storia dell’Arte è il secondo elemento: Greenaway, lui stesso artista, ha costantemente applicato una fortissima composizione pittorica a molti dei tableaux vivents che lo hanno reso celebre, da “The Draughtman’s Contract” (1982) a “The Cook, the Thief, His Wife and her Lover” (1989), dove lenti carrelli si soffermano su una scena di convivio che può ricordare “L’ultima cena” leonardesca, sulla quale interverrà nel 2007 con la nota installazione.

 

 

Le sue passioni sono Vermeer e, in subordine, Rembrandt - cui è ispirato invece “Nightwatching” (2007) - ma spesso l’immagine cinematografica di Greenaway si fa più “carica”, pesante, scura e percorre una deriva che semmai chiama in causa Goya e Velazquez.

In terza battuta, il regista gallese è un appassionato collezionista, il ché lo avvicina a Peggy Guggenheim, sia nel senso proprio del termine, sia come accumulatore indefesso di livelli semantici tesi a configurare un universo dove la sapienza enciclopedica conta più del racconto tradizionale, sequenziale.

P.G. & P.G., quindi, si specchiano idealmente tra loro e sull’acqua dell’amatissima Venezia.

Non basta, perché tanto amore rivolto verso il Passato non esclude, per entrambi, la spinta verso il nuovo, verso diverse forme di avanguardia: per Peggy è rappresentato dagli avamposti della rivoluzione pittorica dei primi decenni del XX° secolo, mentre per Peter sta tutto nelle moderne tecnologie di montaggio applicate al cinema.

Entrambi, peraltro, hanno, seppur con diversa intensità, sempre dimostrato la loro totale e profonda adesione a Venezia come opera d’arte tridimensionale, amata in maniera incondizionata e irrazionale.

 

b) Greenaway regista e Venezia

 

Greenaway è al terzo, importante ritorno a Venezia - se escludiamo le numerose partecipazioni alla Biennale Cinema poiché vi ha girato “Intervals”, cortometraggio deleuziano del 1969 con musiche di Vivaldi, e ha potuto esporre al Museo Fortuny l’installazione “Watching Water” nel 1993, sul tema esplicito dell’acqua, che invece non appariva in alcun modo nell’esordio del ’69.

 

 

c) Il rapporto con la forma narrativa

 

Passato e Futuro, Storia e Tecnologia, dunque, in un cortocircuito senza fine, dove, se dobbiamo leggere il filo rosso dell’arte greenawayana, esso sta sicuramente nel difficile rapporto con la costrizione narrativa della forma-film, che rifiutava da giovane e tornerà ad abbandonare dal 1991 in poi, attirato sempre più dalle potenzialità delle risorse multimediali e dal richiamo alla sua formazione strutturalista degli anni ‘60/’70.

Ciò che stupisce, e che ci ha convinti a pensare all’evento veneziano, è la capacità del gallese di essere allo stesso tempo assolutamente rigido nella continua messa in scena di universi simbolici, metaforici, metonimici e pieni di allusioni, rimandi, citazioni, ma anche lieve e brillante, ironico e divertente.

 

d) The Venice Project.

Il collage moderno e la multimedialità

 

The Venice Project” promette di essere altro da ciò. è un’azione performativa che fa leva su tutti i suoi “footage” riguardanti Venezia, estrapolati dai film e rimontati dal vivo insieme ad un accompagnamento musicale coerente con il sito in cui la performance avrà luogo.Molti materiali decostruiti e riutilizzati seguendo tecniche di campionamento simili al collage, provengono da “The Tulse Luper Suitcases”, film-saga diviso in 3 parti e 92 brevissime storie sul tema dell’internamento e della prigionia, declinate seguendo i consueti registri dell’ironia e della leggerezza.

La stessa colonna sonora viene rimontata dal vivo dall’amico musicista Dj Radar, laddove Greenaway diventa di fatto un moderno “VJ”.

Anche nell’uso del campionamento e del collage, tecnica dadaista per eccellenza, il regista si avvicina alla temperie culturale vissuta da Peggy, anche se quest’ultima svilupperà una predilezione per la successiva filiazione surrealistica.

Anche l’altro campo d’elezione della Guggenheim - l’astrattismo e il seguente espressionismo astratto - interessarono il giovane Greenaway, che, per dimostrare la natura profondamente artificiale del mezzo-cinema, asseriva di voler creare “film astratti” capaci d’intrattenere il pubblico.

 

 Inclassificabile e realmente trasversale, rispetto ad esempio al multimediale Matthew Barney, Greenaway varia temi e contesti per le sue installazioni, che non attingono a cosmogonie private da rappresentare con rigore e progettata continuità, bensì aspirano più di ogni altra cosa ad aderire al genius loci, che deve poter rivivere nelle performance del gallese.  Oltre a ciò, il multiforme e sfaccettato serbatoio cui attingere per mettere in rappresentazione l’identità iconografica nazionale (Barney), non interessa G., aperto ad assimilare apparati segnici rintracciabili nelle culture visive con cui è chiamato a confrontarsi.

 “A master of increasingly baroque indulgence”, come è stato definito da Marcia E. Vetrocq in “Identity crisis – 1993, Venice Biennale art exhibition”.

 

 

Approfondimenti

 

e) Analisi del periodo di formazione/ i lavori giovanili. Uno strutturalista che ama le performance

 

Nei lavori giovanili (1966-1978), dominati da un atteggiamento di “self-conscious filmaking” ispirato allo strutturalismo di Deleuze (“Immagine/Tempo”) e contemporanei alla sua attività come montatore, il 24-36enne Greenaway vive un’intensa fase al medesimo tempo godardiana e concettuale. Riutilizza materiali poveri, con mezzi poveri, come riprese scarne e brevi di vita quotidiana, montate più volte.

In modo diverso e con diversa colonna sonora, fino a seguire le strutture musicali utilizzate da Vivaldi nelle “Quattro stagioni”, oltre che strategie filmiche basate su sequenze numeriche.

Intende così realizzare “entertaining abstract films”, dove “the actors are often unnecessary”. Questo rigoroso atteggiamento deleuziano, che gli fa ricercare le strutture originarie del linguaggio in  opere che corrodono ogni conformismo semantico e fanno del regista un filosofo   ( oggi afferma che  lo stesso ruolo l’ha acquisito il film edito r)  è perfettamente coerente con la temperie culturale dei secondi anni Settanta. 

Trent’anni dopo, lo stesso collagismo, la medesima vocazione a “campionare” segmenti di realtà quotidiana o, a un secondo livello, estratti dai propri film e cortometraggi, ritorna in opere come   “Prospero’s Books” o nel fondamentale “Tulse Luper Suitcases”, poi diventato una performance.

Allora come ora, proponendo con atteggiamento concettuale questi lacerti di brevi film “poveri”, lascia libero lo spettatore di operare le più disparate connessioni: in esse, non ha importanza se e come i vari “texts”, filmati direttamente, siano connessi a una narrazione visiva o a un’altra. Accade in “Intervals (Venezia 1969), accade in “Dear Phone”, ma anche in “Windows”.

In definitiva, i lavori d’esordio e le attuali performance hanno infiniti punti di contatto e denotano un mai  abbandonato atteggiamento concettual-strutturalista, in cui l’enciclopedismo è, insieme,  filosofeggiante e antinarrativo. Il racconto tradizionale è ritenuto inutile, superfluo, conformistico.

 Assolutamente non secondario, per Greenaway, anche l’ambiente, il sito dove ha luogo l’installazione/azione   performativa, che può essere anche lo spazio bucolico della campagna inglese, o una Venezia “rovesciata” o i  paesaggi urbani Inghilterra tempestata di cabine telefoniche, così come le vastità della provincia americana di “Tulse Luper”.

 

 

f) L’evento veneziano

 

“The Venice Project” è pronto da tempo, con il suo meraviglioso bagaglio espressivo di immagini acquatiche proiettate su grandi schermi al plasma.

Sarà la variazione in forma di omaggio alla città di una o più performance già portate in tournée, durante le quali Greenaway diventa vero e proprio Vj, ovvero un campionatore d’immagini tratte, dal vivo e secondo l’ispirazione del momento, dall’archivio filmico di cui può disporre. Per Venezia ci sarà un recupero di “Intervals” e di altri segmenti dai citati lavori giovanili, fatti reagire in situ con le immagini elaborate e scintillanti di “Tulse Luper Suitcases”, il cui episodio veneziano è stato già ampliato con scene inedite.

Dj Radar, abituale collaboratore, manovrerà la consolle davanti allo stesso Greenaway, il quale sceglie le scene da rimandare agli schermi al plasma direttamente da un “touchscreen” digitale, azionato semplicemente sfiorandone la superficie.

Anche la colonna sonora viene rimontata al momento: tutto avviene e prende corpo in base all’improvvisazione performativa, alla quale contribuisce anche il pubblico, che è libero di muoversi o di sostare davanti agli schermi.

Questa nuova Multimedialità Condivisa  rifiuta il film tradizionale e la sua sequenzialità narrativa: si basa, piuttosto, sul libero campionamento, sul collagismo, sul bricolage neodada di Greenaway, che definisce l’atto unico della  performance legata al sito specifico (impossibile da scaricare da internet, vera “non downloadable art”).

 

 

Venezia, città-scultura

 

Aaron Betsky, introducendo la prossima Biennale Architettura, ha negato cittadinanza - almeno per quest’anno - alle scintillanti archi-sculture delle star internazionali.

Assai affascinante è il fatto che i ragionamenti, i dibattiti più arditi sul futuro avvengano nella città definitivamente consolidata - Calatrava a parte - in un’inattaccabile fissità temporale, peraltro del tutto lontana da motivazioni di ordine amministrativo o da pigrizia gestionale. Quel poco che si farà a Venezia, ovvero il Mose, è anzi segnale di una frenesia degli enti locali nel costruire grandi opere inopportune per il contesto lagunare, nonostante l’ineludibilità delle motivazioni che hanno portato a certe scelte operative.

Abbiamo forse evitato o procrastinato la metropolitana, che sfiorerà solo il limite della città verso Nord per poi puntare al Lido e alle isole, ma intanto le nuove bocche di porto hanno ridotto la silouhette più esterna della città, quella verso l’Adriatico, a un imbarazzante orizzonte costruito su linee spezzate.

La città lagunare è il Passato che accoglie il Futuro (le mostre, le biennali) e si presenta,a differenza delle sculture non-dialoganti delle archistar, come un’unica scultura a scala urbana, un enorme corpus edilizio di soprendente plasticità, un unicum irripetibile che deve rimanere com’è per almeno il 90 per cento del suo territorio –alla Giudecca e al Lido si può lavorare e, decenni orsono, si sarebbero dovuti portare a compimento i meravigliosi progetti di Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, se non quello di Louis Kahn- impossibilitata com’è, per costituzione, a subire innesti di altre micro sculture in un denso magma litoide che altrimenti le rigetterebbe.

 

 

Venezia, strategie alternative

 

Le modalità d’intervento su Venezia, le possibilità di costruire qualcosa in termini artistici e non di generica programmazione, devono essere reinventate. è opportuno seguire strategie alternative, rispetto al semplice uso della città-museo, destinata a far pagare il biglietto d’entrata per i turisti in arrivo a Piazzale Roma.

Le uniche possibili sono nuove sculture sonore, sculture visive, sculture gestuali, sculture umane (Beuys non c’entra in alcun modo).

Qui non si vive di nuovi edifici? è bene, allora, dar vita ad Eventi giocati sulla vera, reale multimedialità spinta: non beauty-case tecnologico a supporto di spettacoli  identici per ogni luogo, ma azioni performative studiate ad hoc per il sito specifico (giardino/squero/campo) e per Venezia nel suo senso complessivo.

Occorre pensare sculture di suoni, d’immagini pixelate che trascorrono su screens al plasma.

Costruire edifici con diaframmate pareti che sono schermi double-face e dove raggi laser o spot in policromia lancino fasci luminosi come fossero colonne, pilastri. Un’azione di danza, il gesto che lascia segni nell’aria, i corpi dei ballerini e degli attori; i SUONI, la musica strutturata, tutto va a costituire un insieme organico che –ribadiamo- deve avere la caratteristica della specificità, in quanto pensato solo per Venezia o con variazioni sul tema ispirate dal luogo.

Non avremo più azioni performative in stile Anni Settanta, ma una Multimedialità nuova, oserei dire “condivisa”, collettiva, che ci fa riscoprire la nozione di Evento, utile a questa città  per comprendere che Venezia è del mondo, non appartiene alle moderne baruffe municipali. Devono capire, i veneziani che essi sono una piccola parte di questa scultura continua, quasi sempre incapaci di leggere la loro stessa storia, ormai andata ben al di là del 1797, l’anno cruciale della fine della Serenissima per mano di Napoleone.Sul breve termine, si reinventano i rapporti tra i media in atto, densi, concentrati in un sito, capaci di una reale MODIFICAZIONE “plastica” del senso del luogo, anche se questa non si pietrifica, anche se non diventa “muro”.

 

Testo e ideazione di “The Venice Project” a cura di Gabriele Francioni

Direttore Editoriale e Responsabile di Kinematrix

Concept, Coordinamento e Direzione Artistica di “The Venice Project”

 

 

going beyond buildings
Sviluppo