64.ma mostra internazionale d'arte cinematografica |
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INTERVISTA A kitano takeshi regista di “glory to the filmaker!”
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KINEMATRIX: Qual è il significato principale del film o cosa l’ha spinto a farlo? KITANO TAKESHI: Più di ogni altra cosa si tratta di un suicidal act.
Come mai lei è così interessato al tema del suicidio? Intanto bisogna dire che in questo senso esiste comunque una certa continuità con il precedente TAKESHI’S, perché, sia che si tratti di omicidio o suicidio, m’interessa la violenza intesa in senso autodistruttivo, il mio scopo è l’indagine dell’autodistruzione applicata alla narrazione. Questo tema va correlato alla mia irritazione e insofferenza verso lo stato attuale del cinema e, per quanto mi riguarda da vicino, anche del mio cinema. Per essere più preciso, sono irritato a causa del fatto che mi sento irritato per lo stato in cui versa il cinema! Tutto ciò è molto frustrante… Ad ogni modo, per tornare al suicidio strictu sensu, non è un tema di per sé negativo e distruttivo: a tutti gli effetti il suicidio può essere un atto costruttivo. Per me ciò significa rappresentare una sorta di messa i crisi e uccisione delle opere precedenti e dare inizio quasi a una nuova carriera, a una nuova fase della mia carriera rivolta verso il futuro.
E come si dovrebbe configurare questa sua nuova carriera? Si tratterà comunque di nuovo cinema, di nuovi film, visto che, per quanto questo GLORY TO THE FILMAKER! sia, appunto, autodistruttivo, mentre lo dirigevo cominciavo già a fare piani per le prossime pellicole e a pensare concretamente ad esse. Ecco allora che questo pensare ai prossimi progetti diventa una sorta di polizza assicurativa psicologica, grazie alla quale mi sento protetto e posso essere libero di parlare di distruzione o autodistruzione. Mentalmente non è stato così duro fare il film e il tema, come l’ho trattato, non è così devastante come potrebbe sembrare.
Ci è sembrato che il senso di KANTOKU BANZAI! potesse risiedere, data la sua autoreferenzialità, in una risposta indiretta alle critiche ricevute dopo TAKESHI’S, quasi a voler dire “guardate, posso essere, se voglio, anche più autoreferenziale!”… A essere sincero, io non presto molta attenzione a quello che la critica dice nei miei confronti. TAKESHI’S era, comunque, senza dubbio qualcosa che trattava il tema del dover affrontare la pressione cui un artista come me, sia in veste di regista sia di attore, viene sottoposto da parte della critica, dei media e del mondo del cinema in generale. KANTOKU, invece, riguarda più un commento rivolto solo al mio cinema, uno sguardo analitico rivolto retrospettivamente verso la prima parte della mia carriera. Il tema dell’autocritica, che è al centro di quest’ultimo film, è dunque molto differente dal senso ultimo di TAKESHI’S. Non mi interessa proprio, invece, il parere degli altri riguardo ai miei precedenti film.
Perché lei esprime un’irritazione così forte, comunque, verso la tradizione giapponese, il cinema d’autore e quello più modernista? La mia è più che altro un’irritazione dovuta alla frustrazione nel vedere, nell’audience mondiale in generale, nessuna forma di evoluzione nel rivolgersi verso questo medium. Sembra quasi che, sia i registi che gli spettatori, siano sempre e solo interessati a un gruppo ristretto di tematiche, senza eccezioni di sorta. Certo, molto ha a che fare con l’evoluzione tecnologica applicata al cinema, che permette di fare e mostrare praticamente tutto quello che si vuole. Mi sembra che i registi non si pongano tanto in una condizione di utilizzo creativo del mezzo tecnologico, dominandolo e piegandolo a esigenze poetiche, quanto siano invece dominati da esso. La computer graphic, ad esempio, oggi come oggi è ormai diventato uno sterile cliché, perché i registi non sono abbastanza sicuri di sè nel tentare di usare la tecnologia per esprimere la loro artistic vision. A essere completamente sincero, la mia irritazione è anche dovuta allo scarso successo commerciale dei miei film rispetto a quelli degli altri registi… Intendo quelli dotati di meno talento!
è un discorso che lei fa in generale, certo, ma cosa ci può dire riguardo all’industria cinematografica del suo paese? La situazione è addirittura peggiore in Giappone, perché le logiche di mercato sono falsate. I distributori seguono i dati delle previews “pubbliche”, dopodichè decidono se tentare di vendere i vari film all’estero. Il problema è che le varie case di produzione comprano enormi quantità di biglietti in prevendita, che distribuiscono a persone addette al riempimento fittizio delle sale che proiettano la pellicola “x”, da spingere, piuttosto che un'altra ritenuta meno vendibile. Sono trucchi del mercato, frutto di patti che vengono stretti in precedenza… Solo ed esclusivamente in base a una logica mercantile. Non credo che l’Europa abbia mai avuto logiche di questo tipo, così strane, perverse, per cui la vostra situazione è addirittura migliore di quella giapponese.
In questo contesto privo d’innovazione, cosa pensa di Miike Takashi, anche lui presente a Venezia, che è un simbolo di sperimentazione e ricerca linguistica (si veda IZO, progetto in cui Kitano era stato coinvolto tra gli altri, n.d.r.)? Beh, questo potrebbe far infuriare i produttori di IZO! Io partecipai al progetto per tutta una serie di motivi personali relativi a favori che dovevo ad altri esponenti del mondo produttivo, non per altro. A dir la verità, io non sono proprio interessato all’attività degli altri registi giapponesi! Non guardo nemmeno i loro film. Alla fine ti trovi in una situazione in cui finisci per andare a vederli comunque, ma non mi sento parte di nessun movimento giapponese e se mi capita di vederli è perché, come quelli di altri registi provenienti da altre parti del mondo, ho trovato un motivo valido perché debbano essere visti. Ad ogni modo, su Miike, e non so se questo è un complimento o meno, io credo che lui stia tentando di fare qualcosa di stupido (sic), nel senso che non ha alcun problema a mostrare una stupidità interna al proprio essere, il proprio lato ridicolo, cosa che altri giapponesi non riescono fare. In questo senso apprezzo Miike.
Spesso gli spettatori occidentali non riescono a comprendere a fondo lo humour giapponese presente nelle vostre commedie o nei programmi televisivi. Come spiega tutto ciò? Direi che esiste un modo di produrre una comicità universale, ma apparteneva solo ed esclusivamente al cinema muto. Come comico, quello che ho fatto e faccio in tv è creare situazioni riguardanti l’oggi, quelle più ricorrenti, e bisogna dire che bisogna vivere in Giappone 20 o 30 anni per poterle comprendere a fondo. In KANTOKU BANZAI ho volutamente inserito gags di questo tipo, relative a situazioni e argomenti ricorrenti nella mia comicità televisiva, in modo molto autoreferenziale, anche se meno aggiornate all’oggi, quindi forse K.B. è meno strettamente giapponese e potrebbe essere compreso da un’audience internazionale. Buster Keaton e Chaplin, oggi come oggi, rischiano di sembrare datati.
Il punto esclamativo del titolo esprime ironia o ottimismo rivolto verso il futuro? Può essere entrambe le cose, visto che la scritta “BANZAI” appariva sugli aerei dei kamikaze della seconda guerra mondiale, quindi, ancora, ha un doppio senso.
Conosciamo due Kitano: il regista e l’attore e autore televisivo. Questo non genera in lei una sorta di schizofrenia? Alle Olimpiadi esiste il decathlon, dove si praticano non al meglio diversi sport nella stessa competizione. Io probabilmente non otterrei mai una medaglia d’oro nei campi in cui mi esprimo, ma sicuramente alcune medaglie di bronzo. Come entertainer, posso fare cose versatili e diverse fra loro.
Hotel Excelsior, Lido di Venezia, 30/08/2007
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