64.ma mostra internazionale d'arte cinematografica

 

INTERVISTA A

TIM BURTON

LEONE D'ORO ALLA CARRIERA 2007

 

di Chiara ARMENTANO

 

Sbarcato al Lido per ricevere il solenne premio alla carriera che l’anno scorso fu di Lynch, Tim Burton ha portato con sé oltre all’esperienza decennale di sublime forgiatore di sogni e incubi non propriamente per bambini, la versione in Disney Digital 3D del suo Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas diretto da Henry Selick, più un lieve assaggio di sequenze del non ancora uscito Sweeney Todd, in cui comparirà un Johnny Deep improvvisato cantante e una serie di trovate degne del miglior cinema del regista di Batman (il primo della serie è ovviamente il più significativo). Sembra che il sodalizio Deep-Burton sia divenuto inossidabile, siamo già alla sesta collaborazione, e stavolta il giovane bello e dannato incarnerà un barbiere vendicativo pronto persino a esibire le sue doti canore. Durante la conferenza stampa il regista statunitense è stato accolto con grande entusiasmo da  pubblico e giornalisti.

 

 

KINEMATRIX: Il suo cinema risente di un’estetica da fiaba, che riesce a rinnovarsi in un senso sempre creativo mai ripetitivo. Quante fiabe ha letto veramente e quali l’hanno segnata nel profondo tanto da entrare nella sua opera?

TIM BURTON: Tutti, giornalisti e pubblico, parlano della mia affiliazione alla fiaba e alla tradizione per bambini, ma in realtà io non ho una favola preferita nè sono mai stato segnato da un autore in particolare. Sono invece sempre stato legato al concetto, ben diverso, di “folklore” e a tutto ciò che vi ruota intorno. Mi ha intrigato la “tradizione”, il senso profondo di essa insita nelle visioni di fantasia che provengono dalla mia mente e che saranno state pur alimentate dalle favole ma non in modo così deterministico come tutti pensano e dicono della mia cinematografia.

 

E questo ultimo film “Sweeney Todd” porta in sé il “folklore” di cui parla e la visionarietà che la caratterizza?

Assolutamente. Mi sono subito innamorato dello script e soprattutto della commistione di generi che da sempre è una questione che mi riguarda dato che immagino non sia affatto semplice etichettare il mio cinema solo come “fantasy”, o “commedia” o quant’altro. L’unione di “horror” e “musical” (per cui ho un debole da tempo) mi hanno permesso di realizzare un piccolo sogno e di mettermi in gioco in qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. E sono molto soddisfatto.

 

Come si sente a prendere un leone d’oro alla carriera essendo il regista più giovane a conseguire un premio come questo?

Mi sento estremamente onorato di ricevere questo premio e di essere qui, ma soprattutto sento di essere fortunato ad aver navigato in acque sempre sconosciute, né gli Studios né Hollywood, quindi sempre libero di fare quello che ho voluto, attuare scelte personali senza l’angoscia o il fiato di qualcuno sul collo. E poi sono più vecchio di quello che sembra.

 

Lei parla da regista quasi independente e a tal proposito viene in mente se esiste un “brand” Tim Burton, poiché è innegabile che esistano caratteri riconoscibilissimi nella sua vasta produzione..

Sono sempre stato incuriosito e molto interessato alle persone dall’aspetto “strano”. Sono cresciuto col cinema senza guardare altro se non l’effetto delle immagini, del visivo sulla mia percezione della realtà e più queste erano buffe, o bizzarre più mi piacevano, suscitavano in me sensazioni forti, speciali, misteriose. Se esiste un “brand” Burton è decisamente in questo.

 

A proposito di brand o di marchio stilistico, alcuni critici hanno riconosciuto nella sua produzione la continuità con il motivo della spirale, che ritorna anche in “Big Fish” come in altri film per cui si è parlato di barocchismo della sua estetica. La riconosce come simbologia oppure no?

No, non credo proprio. In realtà non ho mai esaminato coscientemente la cosa né ho intenzione di farlo. Faccio i film senza analizzarmi o consultare il mio inconscio, anzi preferisco che esso venga fuori da solo e che sia parte integrante e non-psicanalizzata della mia materia filmica. Il mio cinema è sogno e come tale porta con sé lo stato ipnotico che l’essere umano vive quando è dentro il sogno. La spirale che qualcuno ha riconosciuto potrebbe semplicemente essere l’esternazione di questo stato ipnotico di cui i miei film sono intrisi, che è poi anche l’essenza ultima del cinema.

 

 

Quanto è importante la musica di Danny Elfman nei suoi film e quanto invece lo è Johnny Deep?

Entrambi hanno avuto un ruolo molto importante nella mia produzione anche se con mansioni ed effetti completamente diversi. Da un lato Danny è un compositore eccezionale la cui centralità ai fini del risultato filmico è così forte da poterlo considerare un personaggio a tutti gli effetti. Muove i fili sonori in modo perfetto, ma la sua vera bravura sta nel sapere inventare sempre qualcosa di nuovo, creare e ricreare da zero garantendo esiti sempre ottimali. Dall’altro Jhonny è anche lui un personaggio sorprendente. Non è solo bravo ma, come Elfman, è capace di  reinventarsi continuamente. In questo ultimo film il suo ecclettismo è visibile: si è tramutato in un cantante d’eccezione riuscendo a cogliere perfettamente quello che avevo in mente per il personaggio. Ho riconosciuto la sua vulnerabilità ma anche la voglia di essere a suo agio nella parte e assistere a questo processo è stato molto interessante anche come regista.

 

Cosa pensa dell’eccesso/saturazione degli effetti speciali? Pensa che sia un vantaggio o uno svantaggio per il cinema come arte?

Non voglio schierarmi dalla parte di chi ipocritamente sostiene che gli effetti speciali rovinino il cinema, o  snaturino l’artisticità del film e via dicendo. Piuttosto sono convinto che l’abuso (non l’uso) di special effects sia uno spreco di creatività e denaro (spesso i film si possono fare con meno soldi e con più trucchi da “artigiano”). Io cerco in tutti i modi di inventare i “miei” effetti speciali, ma com’è noto non si può, a certi livelli, fare tutto artigianalmente. L’ideale sarebbe trovare un accordo tra i due, la maniera di amalgamare finzione e realtà camuffata così da ottenere un prodotto più autentico e se vogliamo, artistico.               

 

 

Hotel Excelsior, Lido di Venezia, 08/09/2007

 

 

La recensione