US
versus the U.S.
CAPITOLO 2
"When the LEVEES", non "when
the LEAVES", innanzitutto. Anche il programma ufficiale e definitivo
ripropone ostinatamente la versione scorretta, che è semplicemente omofona
di "leaves", foglie, ma basta conoscere un paio di canzoni (dei Led
Zeppelin, di Don Mc Lean) per sapere che si tratta di argini, barriere.
Barriere spezzate, fiumi umani che tracimano verso un altrove che qualcuno
provvede a rendere inaccessibile o a preparare come una trappola per topi.
Topi scuri, incazzati, pronti a mordere qualunque cosa e a saccheggiare i
resti di una città abbandonata, certo, dal destino, ma principalmente
vittima di un difetto di fondo: New Orleans, come ogni altro piccolo o
grande ghetto nero, non porta voti alla destra repubblicana, non è
funzionale a nulla, non serve e, nel momento del bisogno, ritorna ad essere
pezzo d'Africa sovrapposto, giustapposto al territorio dei bianchi.
Seguendo un ragionamento paradossale potremmo dire che l'uragano Katrina ha
fatto più danni (morali, s'intende) alla white culture che a quella
nera, ridefinendo, al contempo, l'onda emotiva causata dal 9/11.
Mentre, infatti, migliaia di colored morivano anche per colpa di
argini mal costruiti dalla municipalità bianca, nonostante un progetto
vecchio di 40 anni, l'amministrazione Bush si preoccupava di inviare nuovi
contingenti in Iraq, lanciando un chiaro segnale al mondo e agli
statunitensi allibiti: esiste anche un'America povera che non c'interessa
perché non è forza lavoro trainante e, se vota, pende dalla parte dei
democratici, quindi risolva la situazione da sola o al massimo con l'aiuto
dell'amministrazione locale (anch'essa sorda e cieca), ma non conti sulla
Guardia Nazionale e sull'esercito.
Spike Lee, in una fase di straordinaria sintesi creativa dopo l'impasse di
qualche anno fa, separa scientemente prodotto di massa zeppo di sottintesi
(INSIDE MAN) e dissezionamento chirurgico del cadavere StatiUniti,
sottoposto a una lucida e spietata autopsia condotta attraverso l'approccio
docu-fiction dello straordinario SUCKER FREE CITY (San
Francisco) o il taglio indagativo, serrato, spietato di questa
indagine thriller sul disastro di New Orleans, montata in un anno
scarso di lavoro.
La divisione del lavoro in due settori ben definiti ha fatto chiarezza
all'interno della sua produzione: quando ha tentato, sempre in tempi
recenti, l'intersezione tra i due piani di attività, ha prodotto un
capolavoro (THE 25TH HOUR) e una pellicola irrisolta (SHE HATE ME).
Grazie anche alla HBO, che insieme a VH1 nel caso di THE US
vs JOHN
LENNON (vedi
recensione, N.d.R.)
rappresenta ormai la nuova frontiera, o salvezza, per i registi indipendenti,
Lee ha avuto carta bianca realizzando quello che è, insieme a AN AMERICAN
FAMILY e UN'ORA SOLA TI VORREI, il capolavoro tra i documentari di nuova
generazione.
Il taglio è quello dell'incalzante inchiesta, che riporta la scena agli
ultimi giorni dell'agosto 2005, sdoppiando i piani percettivi del disastro:
l'obscaenitas, la pornografia visiva della morte in azione che va
costruendosi in dettagli insostenibili, ma straordinariamenti evocativi,
emozionanti, necessari, e che è contenuta nei footage più o meno amatoriali
versus la gelida ricomposizione, da teatro di posa, del dramma nei vari
telegiornali locali e nazionali, colpevoli di aver cancellato le immagini
sgranate color seppia (i corpi dei neri, l'acqua fangosa, il legno degli
alberi) con i blu e i gialli acidi di Katrina in fase di formazione e poi
crescita sui monitor dei computer, o con l'insopportabile split screen
tipicamente american-Tv dei collegamenti con gli inviati sul posto.
In questo contrasto sta il senso della contraffazione messa in atto dal
cinema e dalla televisione, capaci addirittura di spacciare uno
studio di posa illuminato male per la superficie lunare di un'impresa mai
avvenuta (e il vero intento non era tanto battere sul tempo i sovietici,
quanto distrarre l'attenzione dal Viet Nam), e quindi abilissimi a
seppellire la scomoda tragedia dell'enorme
ghetto di New Orleans sotto un'altra ondata, altrettanto nefasta, fatta
questa volta di schermi elusivi, false verità, ipertrofia della narrazione
giornalistica che copre con le parole la colpevole, progettata assenza
d'immagini.
Spike Lee monta in pochi mesi una quantità di materiali che bruciano, tanta
è la forza contenuta, realizzando una specie di reportage a posteriori,
ma ancora attualissimo, sugli eventi di 12 mesi fa.
Il regista è convinto, a ragione, di poter tener sveglia l'attenzione sulle
tappe delle via crucis iniziata allora, garantendo un'ininterrotta catena di
aiuti a chi è rimasto sul posto e a chi è stato dislocato altrove (in genere
i più giovani) per trovarsi una qualche occupazione e che, integrato a tappe
forzate, non vuole tornare indietro. La televisione definì refugees
gli sfollati, quasi fossero stranieri in patria, figli di un dio
dannatamente e reiteratamente minore, discendenti degli schiavi e come
quelli trattati nel nuovo esodo, questa volta dal Sud verso il Nord del
nuovomondo.
Il mondo nuovo non è Crialese, è Katrina, sono i bianchi di
discendenza francese preoccupati per il loro pick-up e non della marea nera
che abitava sotto il livello del mare; è Condoleeza Rice che fa shopping di
scarpe mentre il suo popolo cammina scalzo sul letto d'asfalto di un
fiume che prima non c'era; il mondo nuovo è l'immondo presidente di
2/3 di americani, che si merita un'altra Katrina mentre è in volo con l'Air
Force One o un altro uragano, magari soprannominato"Lady Vengeance", che
faccia piazza pulita del suo ranch mentre è lì che caccia anatre.
Voto: 30++/30
09:09:2006 |