venerdì
23 aprile
DANCE WITH THE WIND
di Park Jun-woo
con Lee Kan-hee
Corea del Sud, 2004
Spinto dalla suo incredibile amore per il ballo, Poongshik prima lascia
mogie e figlio per mettersi alla ricerca di maestri di cui carpire tecnica
ed eleganza, e poi finisce suo malgrado col fare il Gigolò in un giro di
squallide balere. Tallonato da una poliziotta infiltrata che indaga su una
serie di truffe a danno di signore benestanti di mezza età, per Poongshik
sarà dura poter vivere liberamente la sua passione in un paese che relega ai
margini chi si dedica ad una attività considerata deprecabile come il ballo
da sala. La prima proiezione serale si apre con questa commedia agrodolce,
opera prima di uno dei più noti sceneggiatori coreani (presente in sala
insieme all’interprete principale). Il tipico canovaccio orientale che
sfrutta fino al fondo del barile una idea esilissima, mischiando commedia
sentimentale, farsa, dramma, comicità di grana grossa e altro ancora al fine
di accontentare il maggior numero di potenziali pubblici. Regia scolastica,
personaggi monolitici la cui caratterizzazione non evolve di mezzo
millimetro nemmeno dopo il passare degli anni e delle più varie peripezie,
numeri di danza inflazionati e scarsamente coinvolgenti nonostante il
dispendio scenografico.
Voto: 17/30 (LS)

CELL PHONE
di Feng Xiaogang
con Ge You
Cina, 2003
Un noto presentatore televisivo cinese benestante dalla vita sentimentale
complicata è costretto a fare le acrobazie per riuscire a gestire attraverso
il cellulare un complicato ménage di mogli, amanti, amicizie e lavoro.
Commedia sui rapporti umani nella Pechino di oggi, in cui la diffusione di
cellulari e altre tecnologie invece di aiutare la comunicazione finisce per
creare altri canali su cui far scorrere incomprensioni e bugie. Qualche
interessante spunto sociologico e la buona interpretazione degli attori però
non salvano un film impalato, verboso, e che non riesce a coinvolgere mai
veramente lo spettatore nelle fisime dei personaggi. E dopo venti minuti di
squilli di cellulari che interrompono riunioni e massaggini compromettenti
già non se ne può più di questo genere di gag.
Voto: 17/30 (LS)

SABATO
24 aprile
GREEN TEA
di Zhang Yuan
con Zhao Wei
Cina, 2003
Lei (Zhao Wei) - una studentessa occhialuta e riservata - incontra lui
(Jiang Wen) in un appuntamento al buio. Lui insiste per rivederla e comincia
a tallonarla, lei fa la difficile, prima si ritrae poi si concede solo per
brevi momenti in cui, davanti ad un bicchiere di tè verde, racconta curiose
storie sulla madre becchina di una sua amica. Il tira-e-molla degli incontri
fugaci tra i due nei piazzali antistanti l’università e nei caffè pechinesi
si complica quando lui incontra una avvenente pianista che presenta una
somiglianza incredibile con lei. Ma si tratta della stessa persona? Uno di
quei film elegantissimi e inconcludenti, pieni di raffinerie di regia e che
potrebbero essere girati in qualsiasi posto della terra tanto sono avulsi
dalla realtà in cui si svolge la vicenda (qui Pechino è solo una ovattata
successione di locali trendy aperti a tute le ore). Il tipico esempio di
film in doppio petto che il pubblico colto, ma che va al cinema solo nelle
occasioni mondane, scambia per capolavoro. Ma è solo un ricamo manieristico
con qualche bella suggestione di fotografia; i cinesi sono diventati
particolarmente bravi a fare queste scatole vuote.
Voto: 20/30 (LS)

INFERNAL AFFAIRS 2
di Andrew Lau & Alan Mark
con Anthony Wong
Hong Kong, 2003
Prequel del film che l’anno scorso al FEF si aggiudicò il premio del
pubblico. Scandito da tre blocchi temporali, dal 1991 fino al 1997, anno del
passaggio di Hong Kong alla Cina, narra delle lotte per il controllo dei
traffici criminali da parte del potente clan Ngai - che riesce a piazzare un
suo “uomo”, il giovane Ming, nella polizia - e dei metodi legali ed illegali
con cui l’ufficiale Wong cerca di contrastare l’operato dell’organizzazione
criminale, anche lui riuscendo ad infilare una talpa nel covo del nemico.
Tra intrighi e doppi giochi incrociati ne è uscito un film ancora più
articolato e corale del primo, che coniuga echi epici che rimandano al
PADRINO di Coppola alla solida confezione del poliziesco hongkonghese. Un
prequel non banale, che antepone l’approfondimento dei personaggi alle
esigenze di spettacolarizzazione del cinema action anche a costo di perdere
in ritmo, relega la violenza a pochi contati ammazzamenti e pecca solo in un
eccesso di enfasi retorica qua e là.
Voto: 25/30 (LS)

DOMENICA
25 aprile
JIANG JIE
di Zhang Yuan
con Zhang Houding
Cina, 2004
In prima mondiale qui al FEF il film che il regista di
17 anni
Zhang Yuan ha tratto da un opera teatrale del ‘64 in cui si narra la storia
di Jiang Jie, figura quasi mitica in patria in cui è ricordata come la come
la “Giovanna d’Arco cinese”. Nel 1949, alla vigilia della rivoluzione, la
giovane attivista comunista Jiang Jie continua con passione il suo impegno
con il partito nonostante la barbara uccisione di suo marito. Tradita da un
ex compagno, accetterà la tortura e la morte a testa alta nel nome della
causa comunista. Una riproduzione fedele, girata su set teatrali con attori
che mimano le azioni dell’opera considerata il punto più alto dell’arte
prodotta dalla propaganda maoista. La famosa cantante dell’Opera di Pechino
Zhang Houding incarna con dedizione ascetica l’ideale utopistico del
progetto comunista. Un film austero, in cui la staticità tipica del teatro
filmato viene compensata da una ricamata combinazione di inquadrature e
fotografia, orchestrate in modo da esaltare la presenza scenica degli
attori.
Voto: 26/30 (LS)

TRUTH OR DARE: 6TH FLOOR REAR FLAT
di Barbara Wong
Con Karena Lam
Hong Kong, 2003
Le avventure di un gruppo di ventenni che condividono un appartamento a Hong
Kong, il cui passatempo preferito è organizzare party in cui si beve, si
ride e si gioca a “truth or dare” (praticamente, il nostro dire, fare,
baciare,...). Scherzando ma non troppo, il gruppo una sera decide di fare un
bizzarro fioretto: tutti dovranno scrivere su un foglio di carta quello che
sperano si realizzi nei successivi dodici mesi; colui che non realizzerà
l’impegno dovrà pagare uno spiacevolissimo pegno: mangiare la cacca di una
anziana signora che vive nel loro stesso stabile. Così, per un anno,
seguiamo le vicende questo gruppo di squinternati giovani intenti a
realizzare i propri desideri: c’è chi vorrebbe trovare marito, chi
pubblicare un libro, chi diventare ricco, chi sfondare nel mondo della
musica. Commedia giovanilistica girata con scioltezza da una regista
esordiente. La sceneggiatura distribuisce spunti comici, romanticherie e
piccoli drammi quotidiani nell’intendimento di osservare con occhio complice
e veritiero l'età più bella della vita, quella sospesa tra infantilismi e
maturità, tra sogni per il futuro e le prime dure capocciate che fanno
crescere. Qui predomina l'ironia, il dramma non ha mai la meglio sulla
commedia, e alla fine le cose bene o male si aggiustano eppure questo
manipolo di ragazzini riesce a catturare per la sua simpatia e l’insieme ha
una freschezza e una sincerità lontana anni luce dalle patacche coreane di
simile soggetto.
Voto: 24/30 (LS)

ONCE UPON A TIME IN HIGH SCHOOL: SPIRIT OF JEET KUNE DO
di Yoo Ha
con Kwon Sang-woo
Corea del Sud, 2003
Fine anni settanta. Nei licei vige una disciplina ferrea che non lesina
l’uso della forza per raddrizzare gli elementi più facinorosi. Il film segue
le vicende di tre studenti (il timido, il duro e la bella) enfatizzando la
difficoltà con cui sentimenti di amicizia, lealtà e amore possono farsi
largo attraverso un sistema in cui domina la violenza e l’individualismo. Un
“anno vissuto pericolosamente” in un istituto scolastico in cui vige una
specie di regime carcerario, dove violenza fisica e repressione sono la
norma. La ricostruzione storica di una realtà molto diffusa nella Corea di
quegli anni ostenta una confezione solida e una buona cura della
recitazione. Per il resto è il tipico affastellamento coreano di generi
diversi, in cui le meticolose scene dei pestaggi sono coreografate con il
tipico - e un po’ inutile - esaltato realismo.
Voto: 19/30 (LS)

LUNEDì
26 aprile
TADON AND CHIKUWA
di Ichikawa Jun
con Yakusho Koji
Giappone, 1998
Un taxista percorre le strade di Tokyo,
osserviamo alcuni suoi clienti, il loro vuoto chiacchiericcio. Una sera sul
taxi sale Anzai, che dice di saper fare tadon (carbonella in pezzi).
Sentitosi preso in giro, il taxista perde il controllo, estrae una pistola e
costringe Anzai a fargli dei tadon con il fango. Poi ci troviamo a seguire
uno scrittore con l’impermeabile. Prima in una libreria, poi per le vie
della città, infine in un piccolo ristorante gestito da un suo amico, lo
scrittore sembra vagare senza una meta precisa. Mentre mangia al ristorante,
riflette sull’assurdità dell’esistenza e, accortosi di non avere più il
pene, perde il controllo e si avventa sui clienti del locale facendone
sprizzare la vernice colorata che imbratta le pareti. La mattina dopo, il
taxista, Anzai e lo scrittore si incontreranno e tutto continuerà nella
normalità. Parte bene, con alcune suggestive immagini di una città caotica e
distante, e poi si risolve nella più classica delle masturbazioni d’autore.
Il pubblico che ha resistito alla sonnolenza prodotta dagli incomprensibili
dialoghi letterari della prima parte ha potuto fare due risate con
l’involontaria comicità della seconda, dove domina un demenziale e fasullo
nonsense.
Voto: 10/30 (LS)

MARTEDì
27 APRILE
TEAR-LADEN ROSE
di
Chor Yuen
Hong Kong, 1963.
Esempio apprezzabile di mélo spudoratamente tradizionale. Protagonista è un
affermato pittore in preda ai sensi di colpa più svariati, soprattutto verso
il suo migliore amico, aspirante (e non meno talentuoso) pittore destinato a
un bruciante insuccesso. A complicare le cose, un amore impossibile con l'ex
moglie morta dell'amico e la sorella di lei, ora pericolosamente in bilico
tra i due. Al di là dei vari elementi che oggi potrebbero sembrare indigesti
o anacronistici, è da notare un moderato uso del flashback che comprime bene
lo schema "quadrangolare" di personaggi abbozzato poc'anzi in un reticolo
temporale chiaro ed immediato, l'uso simbolico di quadri e soprattutto
ambientazioni (memorabili le vetrate dell'istituzione artistica che ospita
le varie mostre e i festeggiamenti che vedono i due a turno protagonisti,
nonché la balconata che incornicia in modo efficacissimo le apparizioni
fantasmatiche delle due sorelle), uno dei più irrinunciabili e fondamentali
ingredienti del melodramma classico.
Voto: 25/30 (MG)

THE UNINVITED
di
Lee Su-Yeon
Sudcorea, 2003.
La
categoria, oggi terribilmente in voga, degli horror nati vecchi vede in
The Uninvited uno degli
esemplari più rappresentativi. Non tanto perché non ci vengano risparmiati
cliché come "il bambino allucinato che disegna le spirali", quanto perché,
come in molti horror coreani recenti, (non ultimo
Phone presto in uscita nelle
sale italiane), c'è una concezione della scrittura del film così naif che
nemmeno a vederlo ci si crede. Non è l'inquietudine a nascere
dall'attorcigliarsi di mille piste narrative tutte peraltro della stessa
pasta, ma la noia. Per più di due ore si assiste a un intrico inutilmente
complicato di traumi infantili che si generano e provocano a catena senza
sbocchi o soluzioni. E, quel che è peggio, ognuno di essi ha il suo bravo
flashback che tenta di gonfiarne la presa patetica sullo spettatore, con
conseguenze devastanti in termini di pesantezza narrativa. Strano poi che il
regista non sembra poi così scandalosamente incompetente; sa quel che fa,
come regista di spot potrebbe anche funzionare molto bene, però i suoi
tentativi di produrre un minimo di atmosfera, di sospensione e pensosa
dilatazione temporale, sono irrimediabilmente fuori luogo. Proprio come
qualsiasi spettatore capitato malauguratamente in sala.
Voto: 15/30 (MG)

WINTER LOVE
di
Chor Yuen
Hong Kong, 1968.
Quando è troppo è troppo. Al millesimo flashback, la speranza svanisce
miseramente. quello che era partito come un film tutto sommato quadrato
(flashback in apertura destinato a ritoccarsi circolarmente alla fine,
struttura suddivisa temporalmente in blocchi corrispondenti a un incontro
natalizio dei protagonisti nel medesimo locale di anno in anno) svacca in un
allibito susseguirsi di meccanici colpi di scena. Perciò il tragico epilogo
che chiude la storia d'amore impossibile e "maledetta" tra uno scrittore e
una "call girl" che sta con (sorpresa!) il suo miglior amico cui deve la
carriera, non fa il minimo effetto perché largamente consumata dal forzoso
susseguirsi precedente di disgrazie e colpi di scena a scalciare l'azione in
avanti con le cattive. Certo, dal punto di vista visivo si vede una certa
mano in corrispondenza delle scene emotivamente più ambiziose (come il lungo
confronto di notte in uno stadio calcistico tra i due amici) ben sfruttate a
livello di ambientazione, però sono disgraziatamente soprattutto queste
scene a sforare tragicamente i tempi di sviluppo della situazione, tirando
per le lunghe la melensaggine in modo, alla fin fine, difficilmente
tollerabile. Ugualmente, si intravede una regia smaliziata, abile quando si
tratta di rimandi di punti di vista, giochi di specchi, elementi svelati
dalla messa in scena al momento giusto; però le redini del discorso a metà
pellicola sfuggono senza più rimedio.
Voto: 13/30 (MG)

TWILIGHT SAMURAI
di
Yoji Yamada
Giappone, 2002.
Il
veterano Yamada firma un'opera dotata di una curiosa aura retrò. Si nota,
molto chiaramente, la voglia di infarinare la storia di Seibei (un impiegato
vedovo che riemerge dal grigiore della propria esistenza, e riacquista
credito presso i conterranei, vincendo prima un duello e poi sconfiggendo un
ribelle asserragliato in una casa) con un fiero respiro d'altri tempi,
d'altro cinema. La narrazione è robusta, ariosa, attenta ai dettagli, di
forte impatto senza mai cedere alle facili lusinghe della spettacolarità,
concentrata, e mirabilmente fluente. Scorre via senza intoppi, fino a quello
che è il grandioso vertice del film, il duello finale con il ribelle, girato
tutto in interni senza rinunciare a un'ampiezza miracolosa di movimenti di
macchina, che abbracciano con calore i personaggi e smorzano la tensione in
un compassato mood crepuscolare che è poi la tonalità che tutto il film
accenna, fa incarnare al disilluso Seibei e fa straripare in questa
bellissima ultima parte.
Voto: 28/30 (MG)

MERCOLEDì 28 APRILE
A MAD WOMAN
di Chor Yuen
Hong Kong, 1964
Melodramma di non poca complessità, che trascina egregiamente nella
narrazione anche temi importanti come il conflitto tradizione/modernità così
"traumatico" per la società hongkonghese (specie in quegli anni, possiamo
immaginare). è ambientato in
un villaggio che si crede infestato dai malefici di una donna impazzita per
aver partorito una femmina (portatrice di sventura per eccellenza in quel
contesto sociale); in questo villaggio una famiglia benestante, agognando un
maschio per continuare la discendenza, se la prende ferocemente con la
moglie del rampollo quando il figlio che mette alla luce muore dopo il
parto. Il film è strutturato in modo maturo, con tre-quattro nuclei
drammatici principali dilatati a dovere e senza strafare, e il resto è
sviluppo narrativo corretto e con pochissime sbavature. Al di là della
diligenza della narrazione, a colpire è anche lo spazio concesso tra le
maglie del film alle "performance" della donna impazzita (che con il più
classico dei colpi di scena si rivelerà madre della ragazza perseguitata),
che unito a una puntigliosa attenzione ai molti caratteri rappresentati nel
film testimonia una certa modernità di regia.
Voto: 27/30 (MG)

HEROIC DUO
di Benny Chan
Hong Kong, 2003
Continua il triste crepuscolo del cinema di
Hong Kong. E' un action fiacchino, incentrato sul rapporto prima di ostilità
e poi di scontata "amicizia virile", tra un poliziotto e un ipnotizzatore
immischiato col crimine. I due finiranno per coalizzarsi tacitamente per
debellare il mentore-mandante dell'ipnotizzatore. Chan tenta di mettere una
pezza alla mancanza evidente di senso visivo dell'azione in modo scontato,
cioè attraverso l'enfasi buttata contro alle situazioni più spettacolari
(due che si inseguono sopra una scala sospesa nel vuoto tra due palazzi) e
mediante la patinatura sedicente glam di fotografia eccetera. A tratti prova
a farlo anche in modo meno scontato, ad esempio facendo sobbalzare il doppio
subplot amoroso (sia tra il poliziotto e la spasimante che tra
l'ipnotizzatore e la moglie) ben oltre l'importanza subordinata che "da
manuale" dovrebbe essere in film del genere, ritagliando squarci lirici
"passionali" che, ahimé, non si spingono comunque oltre la pura velleità.
Oppure, calcando la mano sulle inverosimiglianze (l'ipnotizzatore che,
bendato, indovina il luogo dove moglie e figli sono rinchiusi), che
rimangono comunque troppo in ombra nel complesso del film per fargli
compiere una svolta "delirante" degna di interesse; se non forse un po' nel
lungo scontro finale, dove tutti i conflitti della trama vengono alla luce,
si accavallano ed esplodono all'impazzata, di modo che mischiati al ritmo
frenetico inculcato a forza nell'azione, generano una furia confusa che se
non altro non addormenta. Ma è troppo poco e arriva troppo tardi.
Voto: 21/30 (MG)

THE HUNTER AND THE HUNTED
di Izuru Narushima
Giappone, 2004
Il grande Koji Yakusho interpreta un
poliziotto (ruolo per lui non insolito), vedovo, che vive con la figlia,
alle prese con un veterano del furto, prima nel segno di una bonaria e
distaccata amicizia al di là dei propri ruoli sociali, e poi in quello di
una cupa vicinanza nel dolore e nella solitudine (nel suo caso dovuto alla
crescita e relativa indipendenza della figlia, e nel caso dell'amico alla
vecchiaia). Narushima azzecca la scelta di puntare tutto sulla tonalità
della narrazione, di ritrarsi dalla storia per concendersi solo di sfumare
le situazioni con discrezione e sensibilità sussurrata. La azzecca perché è
una via innegabilmente efficace per superare senza impacci il cambiamento di
tono che spacca il film a metà. Esemplare, in questo senso, il lentissimo e
impercettibile trascolorare del volto del ladro, nell'ultimo toccante
colloquio tra i due, da una bolsa impassibilità al pianto più sfrenato. Come
in molte commedie "minori" nipponiche, l'assenza di una vera e propria spina
dorsale strutturale, di una traccia stringente e rigorosa, in favore di un
piacevole divagare narrativo, non fa difetto, anzi ammanta il film di una
singolare fragilità che non lascia indifferente lo spettatore. Forse la
malinconia nella seconda parte è cercata un po' troppo ostinatamente per
convincere davvero, ma l'insieme coinvolge con delicatezza e lascia
indubbiamente soddisfatti.
Voto: 26/30 (MG)

BRIDAL SHOWER
di Jeffrey Jeturian
Filippine, 2004
Zingarata senza pretese che è un po' ambizioso ascrivere al genere "comico".
Nulla di inguardabile, tecnicamente certo non merita la lode ma nemmeno
l'infamia. Solo che stavolta la grana della comicità è indiscutibilmente
troppo grossa, tra mille gag sbracate e allusioni sessuali da Bagaglino. Le
vicissitudini di tre donne in carriera nelle amenità della vita
privata/amorosa(/ma più spesso sessuale) non interessano, e soprattutto
purtroppo non fanno minimamente ridere, anche perché si va giù con mano
irrimediabilmente rozza. Non c'è molto altro da dire: un film che si ostina
a fingersi comico ma che non fa ridere, anche se non può dirsi completamente
una schifezza, si dimentica immediatamente
Voto: 20/30 (MG)

BAOBER IN LOVE
di Li Shaohong
Cina, 2004
La giovane e schizzata Baober, ossessionata da alcuni ricordi infantili -
sua mamma da piccola le diceva di averla trovata tra i rifiuti - si innamora
di un uomo sposato che ha conosciuto tramite una videocassetta trovata per
strada in cui quest’ultimo confessava ad una telecamera i suoi problemi
esistenzial-sentimentali. Quando per i due sembra coronarsi il sogno
d’amore, l’esplodere dei traumi infantili di Baober trasforma quella che
doveva essere una favola a lieto fine in un vero e proprio incubo. Per tre
quarti è un clone spudorato di
Amélie – identiche tonalità caramellose e profluvio di effetti
speciali da cartoon animato – e si conclude come un horror onirico
hongkonghese con il fantomatico dubbio: ciò a cui abbiamo assistito è reale
o si tratta solo delle visioni di una mente dissociata? Insomma, grande
prova di scopiazzatura, con l’aggiunta di qualche fastidiosa ambizione
d’autore.
Voto: 15/30 (LS)
MEN SUDDENLY IN BLACK
di Pang Ho-cheung
Hong Kong, 2003
Un gruppo di mariti approfitta della partenza delle rispettive consorti per
organizzare una gita fuori porta a base di sesso. Ma le mogli, mangiata la
foglia, si mettono subito sulle loro tracce e per i galletti saranno dolori.
Da una idea promettente – parodiare il poliziesco honkonghese con i suoi
uomini duri, onore e pallottole – un filmettino noioso e volgarotto, dove
una regia dilettantesca si dimostra incapace di sfruttare appieno sia gli
spunti comici che la verve degli attori.
Voto: 16/30 (LS)
GIOVEDì 29 APRILE
THE HOUSE OF 72 TENANTS
di Chor Yuen
Hong
Kong, 1973
Gradevole commedia "condominiale" che vede il cortile di un caseggiato
ospitare baruffe da vicinato. In particolare, una coppia di giovani ricconi
vede di volta in volta ribaltare le angherie che vorrebbero perpetrare agli
altri inquilini più poveri a danno proprio, grazie soprattutto a un "eroico"
calzolaio pronto a fare di ogni necessità virtù, e a un poliziotto che per
idiozia personale non riesce mai a fare ciò per cui lo si corrompe. Yuen
dimostra qui una notevole padronanza spaziale, riesce a cucire insieme le
molteplici fonti dell'azione (banalmente, i personaggi) senza che lo spazio
presupposto come collante dell'azione (banalmente, il cortile che vede
ritrovarsi di volta in volta tutti i personaggi) risulti troppo rigidamente
"scenico", troppo meccanicamente teatrale e statico. Una regia
ammirevolmente dinamica (anche grazie all'uso abbastanza forsennato dello
zoom a legare personaggio e ambiente) che comunque non perde mai la bussola
del discorso.
Voto: 27/30 (MG)

BAYSIDE SHAKEDOWN 2
di Motohiro Katsuyuki
Giappone, 1998
Tratto da un famoso sceneggiato televisivo, in questa seconda puntata
vediamo l’ispettore Aoshima Shunsaku alle prese con una serie di misteriosi
omicidi che riguardano importanti dirigenti d’azienda del quartiere. Ancora
una volta l’arrivo della squadra della polizia municipale, diretta dalla
poliziotta Okita, creerà tensioni a non finire con il gruppo di Aoshima
Shunsaku, che tra l’altro si vede anche costretto ad inseguire una specie di
misterioso “vamipro” che assalta giovani fanciulle nel quartiere
commerciale, ed una famigliola dedita al borseggio. Insulsa accozzaglia di
gadgets tecnologici e carrellate di cinepresa spacciata per cinema. Roba da
far venire nostalgia delle americanate hollywoodiane.
Voto: 10/30 (LS)
LOST IN TIME
di Derek Yee
Hong Kong, 2003
Una donna con figlio a carico, dopo la morte del marito autista di minibus,
decide per sbarcare il lunario di fare lo stesso mestiere di lui, e conosce
un altro autista che la aiuterà eccetera eccetera. La conclusione è ovvia e
prevedibile, ma questo non affossa completamente il film (comunque esangue),
sbilanciato sui mille inghippi della vita quotidiana, attraverso cui l'amore
tra i due si infiltra in modo molto lento, allusivo e graduale. Si sente al
lavoro una mano registica lodevolmente umile, che coraggiosamente limita al
minimo le scene ad effetto e rinuncia alle lacrime della morte iniziale del
morto marito sbrigando la cosa in quattro e quattro otto. Ma non riesce a
inculcare il minimo interesse in ciò che racconta, troppo impegnato in una
flebile fenomenologia della vita quotidiana che alla fin fine non ci dice
nulla e non ci emoziona.
Voto: 23/30 (MG)
JOSEE, THE TIGER AND THE FISH
di Inudo Isshin
Giappone, 2003
Uno dei molti film giapponesi assolutamente impensabile in qualsiasi altra
cinematografia. E' la storia di una paraplegica e di un ragazzo, tra cui c'è
un'amicizia che lentamente sfuma in amore, e una serie di cose di contorno
che con tutta la buona volontà è impossibile legare al troncone narrativo
principale. Il film fluttua terso e svagato fino alla fine senza il minimo
patema (nonostante la materia potenzialmente "calda"), e questo è un bene,
richiede un grande equilibrio registico. A parte qualche svolazzo poetico
evitabile (un interminabile e scialbo monologo di lei verso la fine) il
risultato è piacevole e spesso divertente, un gustoso e sorprendente (e
difficile) bilico tra la dolcezza e la catatonìa.
Voto: 27/30 (MG)
...ING
di Lee Eon-hee
Anno: 2004
Un lacrima-movie in cui lei, giovane carina con una mano deforme e segnata
da un male incurabile, alla fine muore tra le braccia e le lacrime di lui,
un giovane fotografo pagato segretamente dalla mamma di lei affiche facesse
trascorrere alla figlia gli ultimi momenti di felicità. Recitazione
spontanea e attori dalle facce pulite cospirano per elemosinare la tipica
overdose di commozione nel finale. Non che sia girato male, ma francamente
di questo genere di film ne abbiamo già abbastanza dei nostrani occidentali
senza doverli andare a cercare così lontano.
Voto: 18/30 (LS)
BAYSIDE SHAKEDOWN
di Katsuyuki Motohiro
Giappone, 1998
Poliziesco senza molte idee, che abbonda in accenni riempitivi di commedia
senza convincere. Il rapimento di un commissario di polizia viene risolto
anche grazie (pensa un po' che originalità) alle arguzie psicologiche di una
maniaca omicida che aiuta la polizia. Sullo sfondo, le vaghe ostilità
intestine e gli sgraditi sconfinamenti di campo tra polizia locale e polizia
metropolitana. Se i frequenti tentativi di far ridere illudono di una
qualche emulazione dell'hollywoodiana complementarietà tra generi, a
togliere ogni dubbio sono le micidiali impennate patetiche (un poliziotto
morente che per cinque minuti viene omaggiato col saluto militare da tutti
quelli che incrocia l'ambulanza), comiche (il poliziotto sembra morto e
invece russa) e drammatiche (improvvisamente, al distretto arriva la pazza
omicida con la pistola a minacciare tutti). A parte questo, non ci sono
sfondoni particolarmente vergognosi, ma l'interesse è nullo, e l'attore che
interpreta il poliziotto metropolitano Muroi sfoggia per due ore una parata
di espressioni facciali finto-tragiche veramente ridicola.
Voto: 22/30 (MG)

venerdì
30 aprile
YOUNG, PREGNANT AND UNMARRIED
di Chor Yuen
Hong Kong, 1968
Deludente commedia di pochi equivoci tirati
troppo per le lunghe. Due famiglie ricche alle prese con i figli da sposare,
con questi che recalcitrano e escogitano sotterfugi vari per sottrarsi alla
morsa familiare e fare di testa propria. Pochissima grazia informa questo
film peraltro poco originale, troppe esagitazioni superflue dei personaggi,
troppa mediocrità nel montaggio (che si limita salvo rare eccezioni a una
piatta esposizione della scena dissolvendo praticamente qualsiasi intenzione
comica), troppi spunti mal gestiti. Da dimenticare.
Voto: 22/30 (MG)

THE BEAUTIFUL BOXER
di Ekachai Uekrongtham
Thailandia, 2003
Un giornalista affronta il caos delle strade
di Bangkok per intervistare un thai-boxer travestito, Nong Tum, che racconta
la sua vita e le sue scelte. Si dipana così senza misura una biografia piana
e scontata, dello spessore sociologico di un talk show e dello spessore
registico di una ricostruzione di "Chi l'ha visto". Una pura operazione
commerciale riguardo a cui è superfluo cercare altre connotazioni. Semmai,
incuriosisce la reiterata centralità della predestinazione in questa storia
(il/la protagonista che capisce la sua vocazione di travestita semplicemente
vedendo per caso un rossetto da bambino, o che si rivela per magia
eccezionalmente dotato nella thai-boxe battendo un boxeur senza essersi mai
allenato), che però in una biografia non sta a dire niente, anzi annulla
clamorosamente ogni interesse.
Voto: 20/30 (MG)

THE COLOUR OF TRUTH
di Wong Jing e Marco Mak
Hong Kong, 2003
Film d'azione alla hongkonghese con tutte le carte grossomodo a posto,
alleggerito dove serve da accenni comici. Un giovane poliziotto si trova a
fianco a fianco col collega assassino del padre nel proteggere la casa di
uno spacciatore che ha deciso di collaborare con la polizia. Si vendicherà o
no? Fortunatamente il dilemma non appesantisce troppo l'insieme, anzi
funziona piuttosto bene come "esca" narrativa in un film abbastanza
scorrevole e inventivo (gli ultimi anni di cinema hongkonghese potrebbero
giustificare attese più pessimistiche). Le scene d'azione sono non
frequentissime ma efficaci, e il montaggio agevola una certa apertura e
dinamicità di regia, la quale pur senza esaltare è capace di movimentare il
discorso ben oltre la semplicità dello spunto iniziale.
Voto: 26/30 (MG)

TURN LEFT TURN RIGHT
di Johnnie TO, Wai Ka-fai
Hong Kong, 2003
Gli scherzi del destino a Taipei fanno si che il violinista John e la
traduttrice Eve - al loro primo incontro da scolaretti fu amore a prima
vista, ma subito le circostanze avverse li separarono - non riescano mai ad
incontrarsi nonostante i due alloggino nello stesso stabile e frequentino
gli stessi luoghi della città. L’ironia della sorte li conduce in
continuazione a pochi metri l’uno dall’altro ma tutte le coincidenze
sembrano remare contro il coronamento del loro sogno d’amore e a complicare
le cose saltano fuori anche una cameriera petulante innamorata di lui e un
dottore vanesio innamorato di lei. Frizzante commedia surreale che gioca
sull’ironia che scaturisce dal meccanismo delle coincidenze avverse del caso
che si accaniscono simmetricamente sui due sfortunati innamorati. Le trovate
originali già dopo mezz’ora cominciano a ripetersi ma il film tiene
nonostante tutto perché sorretto da un cast veramente azzeccato (in
particolare il dottore e la cameriera sono due guasconi simpaticissimi) e da
una regia che tratta con mano leggera situazioni che di solito nei film
orientali scadono nella comicità grossolana e nella volgarità. Anche se qui
a Udine è stato liquidato con una certa velocità, è un film senza pretese ma
meno superficiale di quello che sembra e porta con se un retrogusto amaro di
verità che fa pensare.
Voto: 25/30 (LS)

TAE GUK GI
di Kang Je-gyu
Corea del Sud, 2004
2° classificato nelle preferenze del pubblico
Corea, 1950. Lo scoppio della guerra costringe Jin-tae e suo fratello minore
Jin-seok a lasciare famiglia e fidanzata per arruolarsi nell’esercito.
Jin-tae, venuto a sapere che solo vincendo una Medaglia al Merito potrebbe
far si che il fratello venga congedato, inizia a offrirsi come volontario
per le missioni più rischiose. Ma il suo continuo coinvolgimento in azioni
estreme e sanguinarie lo renderà giorno dopo giorno sempre più freddo e
cinico, un atteggiamento che finirà per incrinare irrimediabilmente il suo
rapporto con il fratello minore Jin-seok. La produzione coreana più costosa
di tutti i tempi è uno dei film più brutti visti qui al FEF. Il
modello di riferimento è il cinema bellico americano di ultima generazione,
che pone al centro dello sviluppo narrativo i dilemmi etici e i drammi umani
di persone umili che si vedono costrette a fare gli eroi loro malgrado. Ma
si tratta di un eroismo senza epica perché nella carneficina della guerra
non c’è più spazio per l’onore e il prezzo da pagare sul campo non si può
compensare per quante stellette e medaglie si possano appiccicare su una
divisa. Se questi erano gli intenti, il film di di Kang Je-gyu alla fine
risulta essere solo un rumoroso petardo, che esce schiacciato
dall’inevitabile confronto con il SOLDATO RYAN di Spielberg di cui ricopia
pedissequamente lo stile delle insistite e alla lunga inoffensive scene di
battaglia. E anche l’evoluzione del rapporto tra i due fratelli, zeppo di
dialoghi da soap e di fastidiosa retorica, non riesce a sollevare dalla
mediocrità un blockbuster di estenuante lunghezza.
Voto: 13/30 (LS)

SABATO
01 MAGGIO
THE PRODIGAL
di Chor Yuen
Hong Kong, 1969
Un giovane espulso dalla scuola vive
emarginato dalla famiglia all'ombra del più brillante fratello; quest'ultimo
cadrà poi in netta disgrazia mentre lui riuscirà a emergere. Questo viene
poi intrecciato ad altri conflitti secondari (ad esempio con le due ragazze
che si contendono il protagonista) in modo abbastanza controverso e
discontinuo. Nonostante un utilizzo degli esterni interessante che riesce a
dare un certo spessore concreto al racconto, un salutare inturgidirsi del
dramma verso la fine dopo uno sviluppo fino ad allora troppo annacquato, e
alcune apprezzabili arditezze di messa in scena (soprattutto alcuni fulminei
e imprevedibili flashback), l'insieme fatica a staccarsi da psicologismi
incongrui (perché appicicati a personaggi monocordi) e prolissi e da un
andamento un po' troppo privo di nerbo.
Voto: 25/30 (MG)

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