LA LINGUA DEL SANTO
di Carlo Mazzacurati
con Fabrizio Bentivoglio, Antonio Albanese,
Isabella Ferrari e Marco Paolini
recensione di
Andrea DE CANDIDO
Dal 1996 (anno di VESNA VA VELOCE) ad oggi, il grande pubblico aveva un
po' perso le tracce di Carlo Mazzacurati. In realtà, in questi quattro
anni, il regista padovano ha compiuto un preziosissimo lavoro attorno
all'importanza che per lui riveste la dimensione del ricordo; perché ciò
che corriamo il rischio di perdere non ha a che fare esclusivamente con
la nostra esperienza personale, ma può riguardare un'atmosfera, il paesaggio
umano o il pensiero, non più ascoltato, di grandi uomini. Da qui - in
parte - ha avuto origine un film come L'ESTATE DI DAVIDE (1998), tv-movie
prestato quasi per sbaglio al cinema e dunque sconosciuto ai più; ma è
certamente a questa urgenza che si deve la genesi degli splendidi RITRATTI
(personalmente abbiamo visto solo quello dedicato a Mario Rigoni Stern,
ma volentieri, sulla fiducia, estendiamo il giudizio positivo agli altri
due) realizzati l'anno passato grazie anche alla collaborazione di Marco
Paolini, altro "fedele del ricordo".
Oggi, e con un buon successo di pubblico, Mazzacurati è tornato al cinema
con LA LINGUA DEL SANTO, quasi per intero ambientato nella sua città.
Elemento importante, questo, se pensiamo che finora il suo cinema ha sempre
narrato storie di difficile se non impossibile integrazione tra i suoi
protagonisti e l'ambiente urbano e sociale con il quale, di volta in volta,
venivano a contatto. E la vicenda di Willy e Antonio non è poi così lontana
dalle precedenti, nonostante i due agiscano nell'ambito di quella che
è anche la loro città natale. Ma Padova, nel 2000, non è più quella anche
solo di vent'anni fa, così come non lo sono Vicenza, Treviso, Rovigo e
tutta un'area - quella del celebre "Nordest" - che ha presto scordato
le proprie origini contadine per dare il via a quello che i media si ostinano
a definire "miracolo economico". Come tutto, però, anche un miracolo ha
la sua faccia oscura, e nel caso in questione - oltre all'ostinato appiattimento
nella succitata definizione - il rischio maggiore è che la dimensione,
anche dal punto di vista concettuale, del lavoro assuma proporzioni assolutamente
inadeguate al ritmo di vita di tutti, finendo, in un circolo vizioso che
dall'occupazione passa per i beni di consumo e gli status symbol, per
tagliare fuori chi non regge il passo. Antonio e Willy sono proprio due
che non ce l'hanno (più) fatta: il primo non ha mai avuto un posto fisso
e l'unica dimensione nella quale ha ancora un suo posto è quella del rugby,
non a caso uno sport profondamente radicato nella tradizione veneta e
ancora legato a tutta una serie di riti che nulla hanno a che fare con
la frenesia dell'agonismo professionistico. Il secondo, invece, per un
po', vendendo articoli di cancelleria, era riuscito a costruirsi un'identità
felice, con tanto di moglie e famiglia. Un'occasione fortuita li renderà,
per qualche tempo, i veri padroni della città dando loro, almeno in parte,
l'occasione per riscattarsi, anche se questo darà la sveglia all'orgoglio
cittadino per le proprie origini.
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Il punto di forza de LA LINGUA DEL SANTO è la leggerezza del tono adottato
da Mazzacurati per narrare una storia in fondo disperata, non solo in
senso umano ma anche civile; e forse ciò che conquista il pubblico con
maggiore forza va ricercato proprio nella scelta della commedia e della
coppia di attori protagonisti. Non è la prima volta che Fabrizio Bentivoglio,
milanese di nascita, adatta la sua parlata all'accento veneto: era già
accaduto in AMERICANO ROSSO di Alessandro D'Alatri e, seppur con una piccola
parte, ne LE ACROBATE di Soldini, ma in ognuna di queste occasioni ha
saputo mantenersi al di qua della facile caduta nella caricatura, che
ha fatto la fortuna di tanto cinema italiano del passato. Per Antonio
Albanese - come ci ha detto lui stesso (vedi Antonio
Albanese parla a Kinematrix) - recitare ne LA LINGUA DEL SANTO è stato
quasi la logica conseguenza di tutto un percorso artistico che lo ha visto
impegnarsi, con la costruzione di personaggi (come l'Ivo Perego di LA
FAME E LA SETE) ed interi spettacoli, attorno al tema del lavoro, centrale
anche per la sua Brianza. Indimenticabile, anche se fulminea, la partecipazione
di Marco Paolini…
Un film su cui non vale la pena spendere altre parole, perché - e senza
che ciò costituisca un difetto - non pretende di superare quelli che sono
gli spunti dati dalla narrazione che, cosa non secondaria, è assolutamente
sorretta da un attimo ritmo. Peccato per il sermone finale…
IL VOTO DI KINEMATRIX: 28/30
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