LITTLE SENEGAL
di Rachid Bouchareb
con Sotigui Kouyate, Sharon Hope,
Roschdy Zem e Karim Koussein-Tr
LITTLE SENEGAL è un viaggio dentro le origini delle discriminazioni razziali
ed è il frutto di una contaminazione fra culture diverse. Il regista è
nato a Parigi, ma è di cultura algerina, la troupe annovera tecnici francesi,
magrebini e senegalesi, la coprotagonista è un'affascinante afroamericana.
Ed il film racconta proprio la storia di un incontro tra realtà diverse
eppure simili: un vecchio lavora come guida in un museo dell'isola di
Gorèe. Ogni giorno Alloune mostra ai turisti commossi la "Porta del Non
Ritorno", il passaggio attraverso cui gli schiavi s'imbarcavano per le
Americhe, il luogo storico che ha segnato la storia degli Stati Uniti
e dove recentemente Clinton ha pensato bene di fare una visitina.
Un giorno l'uomo decide di partire per New York alla ricerca delle sue
radici, rovistando negli archivi per scoprire il percorso dei suoi antenati,
schiavi nelle piantagioni. Lo stesso Bouchareb si è recato negli archivi
storici per ricostruire la il remoto passato del suo personaggio, ma molti
documenti sono stati distrutti e spesso il nome africano degli schiavi
veniva sostituito con quello dei possidenti. Il massimo che sono riusciti
ad ottenere è il set di un archivio americano dove la bibliotecaria interpreta
se stessa. Ma come sappiamo, il cinema rende tutto possibile ed alla fine
Alloune riesce a rintracciare i suoi lontani parenti, una famiglia di
Harlem alle prese con le miserie della vita quotidiana. Una stentata comunità,
in tutto e per tutto americana, dimentica delle proprie radici africane,
in bilico tra lo sradicamento più completo ed un'integrazione difficile.
Sullo sfondo una New York di venditori ambulanti, chioschi, hamburger
ed adolescenti scappati di casa.
Diversamente dal corrosivo Spike Lee, il regista di LITTLE SENEGAL decide
di affrontare le tensioni razziali con un tono sommesso, umile, dolce
e riflessivo. Il problema non sono tanto le reazioni dei bianchi, quanto
l'autopercezione della comunità africana, una comunità smarrita e lacerata.
In questo caso il vecchio senegalese, con il suo viaggio assurdo e coraggioso,
si fa portatore di una memoria scomoda, anacronistica, ma necessaria.
La vera forza del film, un'energia pacifica e non aggressiva, sta nello
sguardo disarmato e saggio del protagonista, nel suo corpo magro, negli
abiti dimessi, ma puliti e curati, nel portamento dignitoso, umile e nobile
al tempo stesso. Alloune ricerca la verità, con una tenacia incrollabile,
ma estremamente paziente, un modo di fare sconosciuto agli occidentali.
L'uomo porta sulle spalle tutto il peso dei suoi valori, il rispetto per
la famiglia, per le tradizioni, per gli anziani, per quella terra magnifica
e violentata che è l'Africa. Ad un americano, tanto più se adolescente,
Alluone potrà sembrare un vecchio pazzo prigioniero della sua cultura,
ma è proprio la consapevolezza delle sue radici che ne fa un uomo completo,
in pace con se stesso e col mondo. Gli individui migliori cercano di dare
un senso alla propria vita, di percorrere una strada, non importa in che
direzione.
L'attore protagonista è una figura del tutto particolare, uno dei più
grandi attori di teatro contemporanei: Sotigui Kouyate, l'anima di molti
spettacoli di Peter Brook da "I am a phenomenon" al "Mahabharata".
Il regista racconta che durante le riprese, mentre si trovava in macchina
con Sotigui ed un tecnico magrebino, sono stati fermati dalla polizia
americana, per un controllo… Spike Lee avrebbe scatenato l'inferno, il
buon Bouchareb si è limitato ad un sorriso disarmante ed ha continuato
a girare.
Elena SAN PIETRO
berlinale
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