proiezione speciale di
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO
VERSIONE RESTAURATA
di Stanley Kubrick


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FOTOGRAFICA DEL FILM



Mille corpi "ibernati" come icone pagane in un rito collettivo: l'augurio di poter celebrare la periodicità dell'arte che rinasce. Avendo come sola banda sonora il metronomico respiro di David Bowman lanciato nell'attraversamento di ere, dimensioni, versioni alternative della logica, abbiamo officiato insieme davanti al "monolito" del cinema moderno. Un oggetto filmico levigato che solo pone interrogativi, totalmente aperto e radicalmente chiuso agli assalti dell'interpretazione, compasso di misurazione di ogni altra pretesa innovazione.
Kubrick aveva prodotto la "metafora" di se stesso [2001/monolito/Kubrick] lasciandola in consegna alle coordinate spazio-temporali di un "infinito" [non il 1968, non il 2001, ma il "sempre" o il "mai", l'"ovunque" o il "nowhere"] più adatti ad accoglierla. Quasi che, al posto della "critica cinematografica", potesse coglierne i nessi solo una entità dotata di parametri diversi, assoluti, superiori.



2001: ODISSEA NELLO SPAZIO non è un film. Non abbiamo "visto" una pellicola, questa mattina al Berlinale Palast. Il film ci ha visti. Siamo stati misurati da qualcosa che ci osservava, passava al vaglio la nostra capacità di stare "nel" tempo, accordandoci, sintonizzandoci su frequenze di futuro che sole definiscono la matrice dell'arte, la matrice del cinema [KINEMATRIX, non a caso]: anticipare restando, prevedere rivedendo, scoprire ricordando.
Dopo una rincorsa di trentatré anni, la cultura dell'immagine [ma non solo] non ha ancora "raggiunto" 2001, e lo stesso dicasi per "il" 2001. Guardandoci, il film non ha potuto trarre conclusioni appena consolanti. Siamo ancora all'alba dell'uomo creativo e un seppur grandissimo festival come la Berlinale non è ancora la navicella Discovery, se non per l'architettura immaginifica dei suoi spazi.

 

Gabriele FRANCIONI


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