BERLIN IS IN GERMANY
di Hannes Stöhr
con Jörg Schüttauf, Julia Jäger,
Edita Malovcic e Tom Jahn


 

L'aria di recessione che si respira in Germania e, di conseguenza, anche a Berlino, sposta l'attenzione su nuclei tematici abbastanza inattesi per una realtà facilmente stigmatizzabile come perennemente segnata da una prosperità "congenita". Ed è particolarmente significativo che proprio certi film, sensibili alle mutate condizioni socioeconomiche di una società sempre più multirazziale, sempre più "scura" e "gialla", sempre meno sicura di sé, abbiano raccolto i favori di un pubblico evidentemente altrettanto "policromo". BERLIN IS IN GERMANY ha vinto la sezione "PANORAMA" della Berlinale, premio assegnato dagli spettatori e non da una giuria di esperti.
Senza ricorrere ad un'enfasi comune a certo cinema "combattivo" e "realista", lo spunto carcerario di partenza è intelligentemente usato per definire una serie di coordinate narrative che, invece di produrre una retorica indagine a rebours di prevedibili contesti psicologici "borderline", di realtà degenerate, di quadri familiari derelitti, spostano immediatamente l'attenzione sul sistema di azioni e controazioni progettate dal protagonista per affrontare un contesto che lo rigetta, una volta fuori di prigione.
Ciascun elemento contribuisce alla definizione di situazioni "attive", se non ottimistiche, attraverso le quali aprirsi un varco nella disperazione. Non c'è pathos, ma contrazione dei sentimenti, per quanto vivi. La moglie, ad esempio, "ricontestualizza" la figura del marito all'interno della nuova famiglia, accogliendolo frequentemente, relazionandolo al figlio inconsapevole di quel padre e mettendo il nuovo compagno di fronte al "problema" da risolvere. Non è tutto facile, peraltro, anche se la volontà ti aiuta a superare ostacoli non indifferenti. Tra cenni asciutti ai conflitti razziali e alle conseguenti neo-solidarietà trasversali, tipici di questo complesso inizio di millennio in Germania, Martin a volte scambia il male per il bene, ma prevale la consapevolezza che, se il motivo della tua detenzione fu dovuto alla casualità, la società deve poterti riaccogliere. Alla prova fallita per diventare taxista ["il curriculum" del protagonista ne è la causa] si contrappone l'assistente sociale testarda e appassionata e una diffusa solidarietà amicale costruita negli anni sulle comuni pene.
Senza dubbio un'idea consapevole e dalle spalle forti fa da spina dorsale a questo film importante, severo e dolce allo stesso tempo [vedasi le scene col figlio, mai scontate], che segna una via non immaginifica al cinema tedesco in crisi da tempo immemorabile.

Gabriele FRANCIONI


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