Il corvo.
FAVOLA IN MASCHERa.
Liberamente tratto da "Il Corvo" di Carlo Gozzi
Campo S.Trovaso, 27/30 luglio
Regia e drammaturgia Michele Modesto Casarin -
musiche originali Andrea Mazzacavallo - con Roberto Serpi (Millo, Re di
Frattombrosa), Tommaso Benvenuti (Jennaro, Principe, fratello del re), Marta
Dalla Via (Armilla, Principessa di Damasco – Corvo), Manuela Massimi
(Morgana, negromante – Colomba), Stefano Tosoni (Tartaglia, ministro),
Michele Modesto Casarin (Pantalone, Ammiraglio Zuechino), Laura Graziosi
(Balia, Serva di Corte) - coreografie Giorgio Rossi - scene e costumi Licia
Lucchese - maschere Stefano Perocco di Meduna - duelli Andrea Pennacchi,
Maurizio Faleschin - luci Pietro Sperduti e Maurizio Fabretti - produzione
Pantakin da Venezia, La Biennale di Venezia, Teatro Stabile del Veneto
“Carlo Goldoni” - in collaborazione con Città di Venezia – Direzione Beni,
Attività e Produzioni Culturali, Regione Veneto, Produttori Professionali
Teatrali Veneti, Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
La fiaba teatrale "Il Corvo" propone, tra le altre cose, un paio
d'istantanee di pura cinematografia: il carpenteriano drago che esce da una
stanza del palazzo reale evoca GROSSO GUAIO A CHINATOWN (ma s'incarna in un
purissimo alien rambaldiano e gigeriano); il breve duello alla spada
è in stile neo-wu-xia-pian, con tanto di piroette in aria.
Per raccontare i gradi di modernità dello spettacolo di Pantakin da Venezia,
ecco altri dati ad uso dei lettori: le musiche costituiscono materia assai
concreta posta in primissimo piano, declinata in una complessiva veste
slow-techno, ma con il vero centro in un atteggiamento da world-music
molto varia, quindi non solo orientaleggiante.
Il senso complessivo del bellissimo allestimento è, ad ogni modo, la
perfetta integrazione multimediale di suono-voce-costumi-scene.
Un racconto anche di mare, di viaggio, accolto nell'incavo di Campo San
Trovaso, a un passo dal Canale della Giudecca, e quindi in vista dell'acqua,
aperto all'interazione acustica di gente che attraversa ponti e a tutti gli
effetti è sulla scena.
Gozzi fissa subito le sue classiche coordinate: non esiste conquista senza
scambio, non c'è colonizzazione, anche se agita in territorio neutrale o,
altrimenti, privato, senza dimissione di ogni "ybris".
Ogni "progetto" deve tener conto del genius loci, anche se il terreno
di edificazione è una donna e il suo corpo le fondamenta su cui conficcare
il primo paletto.
Nulla conta la fascinazione esotica, il souvenir da fondale colorato: siamo
nei secoli di un'apertura verso orizzonti commerciali nuovi e Venezia è
Porta per l'Oriente, capace di dialogare e, poi, di convincere con la sua
parata di facciate sul Canal Grande, ammirate da chi era in viaggio
d'affari.
Venezia è puro décor orientale, bizantino, nulla a che vedere con la
trilitica potenza di Roma: le scenografie urbane delle due città esposte a
mo' di manifesto politico-culturale, impositiva e colonizzatrice l'una,
dialogante e scambista l'altra.
Ecco allora un re fannullone che riceve dal fratello viaggiatore la figlia
della regina di Damasco a mo' di trofeo da esporre e donna da sposare: come
ne "La
Donna Serpente", però, si scatenano maghe (la madre di Armilla) e
draghi a stabilire l'etica dello scambio, siglata dal contro-sacrificio
della famiglia del re, di cui si deve provare la purezza del sentimento.
Suo fratello si farà pietra, a meno che non pugnali a morte Armilla stessa,
che segretamente ama platonicamente.
Il re, disperato di fronte alla nuova facies litica del povero
parente, grazie al supporto della sposa cui mostra vero amore, lo riavrà
indietro sub specie organica grazie allo scioglimento dell'incantesimo da
parte della neo-benevola suocera.
I casi familiari, da queste parti letterarie, passeggiano tra i registri
tragico e comico con gradevole nonchalance e la stessa madre che chiama a
morte l'indipendente figlia (diciamolo: si è lasciata rapire per un viaggio
iniziatico e liberatorio) si scioglierà nel gioco del doppio e lascerà a
terra la maschera che prima la voleva orrida medusa nera.
Assolutamente pertinente l'allestimento: il lato opposto alla chiesa di S.
Trovaso accoglie pochi lacerti di scenografia e nessun fondale fisso che
chiuda lo spazio reale. Una scala in legno aggira il centro della scena e si
allunga in un breve ballatoio (servirà alle gag della Balia, di Tartaglia e
Pantalone in parata), legando i due estremi del palco, da cui escono i
personaggi.
Tre lievi diaframmi sono tende utilizzate in modi diversi: coprono,
accolgono proiezioni, sono immagini di Damasco, ricevono una suggestiva
retro-proiezione del re meditabondo, si alzano e si abbassano continuamente,
confermando quanto poco basti se il resto (attori, costumi, rielaborazione
del testo) è vicino alla perfezione.
La fiaba dal solido contenuto morale scorre leggera, sulle note
continue di una linea sonora ininterrotta e davvero notevole, che tocca
momenti indimenticabili nel canto della colomba bianca - braccia come ali,
ma anche come le danzatrici cinesi dalle maniche lunghe - arabeggiante e
orrorifico, con tutti quei mezzi toni, e nell'apparizione dance-trance
del drago.
Convince l'insieme, l'equilibrio di narrazione espositiva e commento buffo
(Tartaglia esordisce con lode, poi forse cala alla distanza; Balia e
Pantalon, accento marchigiano-laziale versus lazzi veneziani, sempre graditi
dal pubblico, tengono bene la scena).
Bene i fratelli lacerati dalle vicende, ottima la regina di Damasco, capace,
come la colomba, di far trattenere il fiato e sospendere il tempo della
messa in scena e della narrazione.
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