Vincitore come miglior
documentario del Premio Marc’Aurelio d’argento alla quarta edizione del
Festival Internazionale del Film di Roma,
Sons of Cuba è il primo
lungometraggio del 27enne Andrew Lang.
Nel corso di otto mesi di durissimo allenamento, tre bambini si preparano
all’evento più importante della loro vita: il Campionato Nazionale di Boxe
under 12. Le loro storie si fondono con la storia di Cuba. E’ il 2006, anno
che celebra sia il cinquantesimo anniversario dello sbarco del Granma e
della rivoluzione castrista sia l’ottantesimo compleanno di Fidel, leader
massimo malato da tempo. Entrambi gli eventi sono festeggiati in sua assenza
da migliaia di manifestanti in un mare di bandiere nella piazza della
Rivoluzione mentre il fratello minore Raul sale sul palco in uniforme
militare pronunciando il suo primo intervento ufficiale.
All’Havana Boxing Academy, dove l’accesso è riservato ai bambini di 9 anni
ospitati per l’intera formazione agonistica, la sveglia suona all’alba e
alle 4:30 i giovani pugili, ognuno con la propria divisa di cenci, chi con
le scarpe chi scalzo, cominciano l’allenamento quotidiano. Alle 6 ci si fa
una doccia fredda, poi si mangia qualcosa cercando di seguire una dieta
equilibrata, da atleta. Da atleta cubano. Alle 4:30 del pomeriggio ci si
allena ancora, si cena e alle 9:30 un po’ di tv e a letto. Le regole qui
sono feree, scandite giorno dopo giorno da Yosvani, l’allenatore, che già
chiama quei bambini “i miei campioni”.
Cristian “The Old Man” Martinez ha 12 anni, ma la sua maturità è di un uomo
di 70. Ha un sogno: diventare un pugile migliore di suo padre, Luis Felipe
Martinez, già campione mondiale e olimpico oltreché eroe sportivo della
Rivoluzione.
Santos “The Singer” Urguelles compone parole e musica intrattenendo la
squadra. Ha perso sua madre quando aveva appena 6 anni e ora è la nonna di
83 a regalargli consigli e i soldi per la pizza di cui è ghiotto: un bel
problema per un atleta, ma Santos risponde ai rimproveri per il sovrappeso
con un candido e carico “non posso sopportare la fame”.
Junior “The Dalmation” Menendez viene dal balletto e ha cicatrici in testa e
sulle spalle. Dice di voler “essere qualcuno e non essere abbandonato per
strada”. Il desiderio più grande che ha è condividere il trionfo con sua
madre.
Al britannico Andrew Lang, che alla fine della proiezione risponde ben
volentieri alle numerose domande del pubblico e tiene a precisare che tutta
la troupe era cubana, l’idea viene a cavallo tra il 2004 e il 2005, quando
un boxer inglese viene battutto da uno cubano. E quale metafora migliore se
non quella del pugilato per esprimere la lotta quotidiana dell’isola?
Mi chiedo se quel famoso proclama che recita “Hasta la ultima gota de
sangre”, coniato da adulti decenni fa, sia sentito davvero da Cristian,
Santos, Junior e da tutti gli altri ragazzini cubani che ogni mattina
recitano, inquadrati, l’inno rivoluzionario. Cuba libre, sì, come recita il
titolo del libro, illuminante, di Yoani Sanchez, autrice del blog Generacion
Y, picchiata e minacciata per mezz’ora proprio lo scorso 6 Novembre da parte
di agenti della Sicurezza dello Stato. Cuba libera per davvero da un’utopia
obsoleta che rende tutti ugualmente poveri meno i militari che le scarpe ce
l’hanno eccome, libera dalla costante ingerenza statunitense, dagli appetiti
internazionali, dal peggio del capitalismo, dal mercato nero, dalla tessera
di razionamento e dalla prostituzione dilagante.
Cuba libera da un’ideologia imposta, libera di essere vissuta dalla
generazione della trentenne Yoani e da quelle future di Cristian, Santos e
Junior che lottano ogni giorno per difendere la propria infanzia eroica. |