TEMPO DI VIVERE
di
Douglas Sirk (1958)
Capolavoro della maturità del re del melodramma cinematografico. Pur
rimanendo all'interno del suo genere prediletto, se ne allontana in parte
avvicinandosi al film di guerra, ma nello stesso tempo chiarisce alla
perfezione i meccanismi a sostegno degli altri suoi melodrammi migliori (Il
trapezio della vita, Lo specchio della vita, La magnifica ossessione, Come
le foglie al vento, Secondo amore, Quella che avrei dovuto sposare
eccetera), come capirà benissimo Fassbinder e come non capirà affatto Todd
Haynes. Infatti, facendo balzare in primo piano il tema della Bellezza, Sirk
mette a nudo corrispondentemente l'estetica che fonda il suo personalissimo
senso melodrammatico (molto poco "classico").
La Bellezza, in Tempo di vivere,
è un concetto che fa tutt'uno con la Fragilità. E' la storia di un soldato
tedesco in temporanea licenza: cerca i suoi ma trova la casa rasa al suolo,
si innamora di una ragazza che sposerà poco prima di partire verso il fronte
in cui lo attenderà la morte. E' la storia di una licenza, la storia di una
parentesi all'interno della morte (la guerra) consumata dentro uno scenario
di morte (le rovine dei bombardamenti). La vita come miracolosa eccezione
alla morte; il film è costellato di fugaci squarci di sollievo in
un'ambientazione nerissima e senza speranza: i dialoghi sulla cucina dopo
l'allarme, i siparietti sdrammatizzanti in infermeria, la casa dei
protagonisti incredibilmente intatta nel bel mezzo delle macerie, l'albero
fiorito in mezzo a tutti gli altri secchi, fino alla straziante e
indimenticabile scena del ristorante esclusivo in cui i due si concedono di
dimenticarsi la fame con un pasto regale brindando "a tutto ciò che ci
manca". Dunque, la bellezza come miracolosa eccezione alla morte: la
bellezza nasce dalle rovine come un dono divino verso cui la miseranda
umanità non può nulla (Weltanschauung cattolicissima che Sirk rende molto
esplicita nel dialogo tra il professor Pohlmann e il protagonista), e
infatti la musica lugubre che accompagna il soldato che cerca i genitori tra
le macerie è solo un braccio meccanico che urta inavvertitamente le corde di
ciò che una volta era un pianoforte. La bellezza non è il pacchiano
affastellarsi di sciccherie estetizzanti-decadenti della casa del giovane
ufficiale nazista. La bellezza giace invisibile sotto le macerie della
distruzione, ed emerge come rivelazione miracolosa.
E l'estetica dei film di Sirk (compreso
Tempo di vivere), che diventa
subito stile, è proprio questa. I suoi film non sono deliranti (come si
sente spesso dire a suo proposito) perché abbondano in esplosioni di pathos,
lo sono perché osano cesellare uno stile assolutamente orizzontale rispetto
ai personaggi (grazie ai movimenti di macchina e l'utilizzo degli interni
che non schiacciano mai visivamente il personaggio) che scena dopo scena
prepara lo spettatore a piccole discontinuità di senso (dettagli, mise en
abime, flashback narrativamente decisivi e altro, ma soprattutto mediante
l'uso della scenografia e del colore) che rompono questa orizzontalità con
le armi forti dell'analogia, del simbolo, della metonimia. La bellezza, la
scintilla che abbraccia il senso con i sensi, è un'eccezione della messa in
scena, che come continuerà sempre a ricordarci Cocteau è la morte al lavoro
più naturale che ci sia.
voto 30/30
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE
di
Bernardo Bertolucci
Pochi
cineasti hanno avuto al pari di Bertolucci coraggio e lucidità sufficiente a
ricordare a tutti il vero nervo scoperto della società italiana postbellica,
l'autentico rimosso che non si è mai voluto vedere: la radice al cento per
cento borghese di qualsiasi tentativo di rinnovamento politico e sociale. E'
un discorso con radici storiche complesse e risalenti a secoli addietro, che
già Pasolini (che "battezzò" cinematograficamente Bertolucci, suo
assistente) aveva messo al centro della sua attività polemica verso il
dopoguerra italiano e che il regista parmense in modo diverso ha proseguito
lungo tutta la sua carriera, fino all'esemplare e incompreso
The Dreamers.
Prima della rivoluzione,
appunto, racconta l'impossibilità di Fabrizio di rompere il guscio borghese
in cui è sempre vissuto, e dell'amore, destinato inevitabilmente a finire,
con la giovane zia Gina. Bertolucci si guarda bene dallo scimmiottare i
modelli nouvelle vague (anche se vengono citati
Il fiume rosso e
L'atalante) e dal tentare
un'improbabile aderenza alla vulgata des auteurs riassunta nel
celebre dialogo nella sala da biliardo tra Fabrizio e l'amico ("Fabrizio,
guarda che non si può mica vivere senza Rossellini"). Il protagonista sa (marxianamente)
e lo dice pure in modo in esplicito, che il suo ambiente lo condanna
inesorabilmente alla vita borghese, come sa di non essere l'anziano ex
possidente che a un certo punto incontra insieme a Gina, che, impoverendosi
sempre più per pura inerzia aristocratica, si crogiola
nell'autocommiserazione. L'atteggiamento della messa in scena rispecchia
quello di Fabrizio (è la simbiosi Autore-Personaggio così tipici del cinema
borghese secondo... ancora Pasolini, quello di Empirismo eretico): stira,
prolunga, esaspera la libertà stilistica nouvelle vague spingendo a mille
sul pedale della soggettività, fino a prolungarsi nella sua negazione. Tutti
i procedimenti autorial-soggettivi (p.es. la voce over del protagonista, i
primi piani ossessivi eccetera) si scontrano con un "eterno ritorno"
dell'ambiente, che soprattutto il montaggio conferma come controcampo
ossessivamente oppositivo alle estroversioni del protagonista. Non c'è la
Parigi dolce e leggendaria dei giovani turchi, c'è Parma, che invade ed
ingolfa lo straordinario montaggio di Perpignani manifestandosi come ventre
materno molle invincibile e mortale. Non solo il protagonista si sposa con
una ragazza scelta dai suoi, ma soprattutto, alla fine, il film viene invaso
dal classico (ecco dove Bertolucci è stato sempre acutissimamente
nouvelle vague: nella consapevolezza precisa, comune a tutta quella
generazione di registi, che il moderno è solo l'altra faccia del classico),
e ritornano in sfilata come in un incubo Parma, il melodramma, Macbeth,
Verdi, Stendhal, Parma, Parma...
Il montaggio che palpita e deborda così abbandona ogni sospetto di
solipsismo stilistico, diventa livida nostalgia delle cose che, come dice lo
stesso Fabrizio, sembrano già passate nel momento stesso in cui le si
guarda. Idea buddista (la transitorietà delle cose terrene raccontata nella
storiella dell'amico Cesare) ma anche marxista, perché il presente viene in
continuazione "invaso" dal passato determinando dialetticamente l'avvenire.
Perciò, tra le classi (ovvero, il presente determinato dal passato) non può
esserci comunicazione ma solo lotta, perchè il passato riemerge sempre per
schiacciare il presente. Non si può "prendere parte" del processo dialettico
(come vorrebbero Fabrizio e Cesare), tutto ciò che si può fare è sprofondare
nella classe di appartenenza (come fa Gina che indulge volontariamente in
mille futilità borghesi, ma anche l'industriale di Tragedia di un uomo
ridicolo), perché essa stessa, qualunque sia, "morendo" dialetticamente in
continuazione, è il motore, e non il soggetto, della Storia.
voto 29/30
L'UOMO DI LARAMIE
di
Anthony Mann
Western di enormi ambizioni, tutte a segno. James Stewart, personaggio
manniano per antonomasia, arriva in una cittadina con il duplice proposito
di concludere un affare e vendicare il fratello ucciso perché qualcuno ha
venduto armi agli indiani. I sospetti cadono immediatamente sulla famiglia
più potente della cittadina, in cui il vecchio padre che sta diventando
cieco non sa se lasciare tutto al figlio naturale (ancora impulsivo e
infantile) o a quello adottivo (calcolatore e meschino). La vendetta,
scespirianamente, si consumerà soltanto nella propria impossibilità.
Shakespeare è il richiamo d'obbligo perché sono evidenti e forti i richiami
a "King Lear" (la cecità del padre, la violenta ostilità dei figli...). Di
suo, Mann ci mette comunque moltissimo. Soprattutto l'ambiguità del
personaggio-Stewart (già rodato in capolavori come
Winchester 73 o Lo sperone
nudo), che da motore principale dell'azione che è all'inizio diventa un
semplice elemento deflagratore di tensioni in corso di esplosione. In
momenti diversi si attira addosso passivamente le ire di tutti e tre i
membri della famiglia protagonista: è lo strumento chiave che permette di
dispiegarsi con equilibrio e compattezza a una materia narrativa altrimenti
troppo incandescente. Altro elemento basilare di svolgimento del dramma è il
paesaggio: i punti più decisivi del racconto (cioè quando i due figli
rivelano il loro vero carattere, e soprattutto in corrispondenza della
vendetta finale) sono ambientati in uno spiazzo in alta montagna (dove sono
nascoste le armi) che domina la vista sottostante, per conferire al momento
la necessaria "sacralità" scenica. Lo stesso valga per l'entrata in scena
dei fratelli "terribili" nella lunga scena in cui bruciano i carri di
Stewart nella salina, preparata con un'amplissima carrellata a seguire i
loro cavalli che corrono sullo sfondo in lontananza.
Questa scena tra l'altro è una di parecchie scene di scontri diretti tra
personaggi in cui l'inusitata violenza non è che la più chiara
manifestazione della mancata risoluzione dello scontro (e questo non può che
venire dal teatro elisabettiano), cosa che prepara il campo al fallimento
della vendetta finale (o meglio, il responsabile muore ma non per mano di
chi doveva vendicarlo). Tragedia come impossibilità scespiriana di
vendicarsi: condizione, questa, che in un contesto come quello western (dove
la vendetta è uno dei cardini principali del malfermo asse legge-caos)
assume connotazioni capitali, che
L'uomo di Laramie sa collocare con una regia magistrale, capace non
di reggere semplicemente il racconto, ma di rilanciarlo, attraverso l'uso
mirato di elementi come il paesaggio, in profondità sorprendenti.
voto 30/30
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