Maggiorenne da poco, Malik è
condannato a sei anni di prigione. Lì dentro, non riuscirà a fare comunella
con i conterranei nordafricani, ma verrà invece più o meno costretto ad
appartenere al clan dei Corsi (di cui imparerà persino la lingua),
capeggiato da un potentissimo boss non più giovane.
Nella più ovvia delle maniere, con questo boss Malìk istituirà un complesso
rapporto di paternità putativa (sarà lui a costringerlo a uccidere per la
prima volta) e non si fa certo “spoiler” dicendo che alla fine riuscirà a
detronizzare la figura paterna. Una cornice scontata per uno sviluppo assai
abile, e impeccabile nell'intrecciare molte storie, molti rivoli narrativi,
un intricato dentro-fuori dal carcere per gestire gli affari dei Corsi ma
anche per conquistarsi una cospicua autonomia, che diventerà prestigio, che
diventerà potere. La precisione della scrittura nel documentare questa lenta
maturazione in un ambiente tanto difficile quanto simbolicamente universale
(le sue dinamiche sono quelle, amplificate, che reggono anche molti ambiti
del mondo esterno) è inaffondabile, ammirevole persino, ma innegabilmente
piuttosto pedante. Come pedante è l'aderenza fedele al punto di vista del
protagonista (con tutte le sue lacune e opacità), che non è scelta di messa
in scena, ma indice di rigidità – e se ci fossero dubbi, le maldestre
parentesi visionarie (gli anni scanditi dalle apparizioni del suo primo uomo
ucciso, un cervo che gli appare in sogno e che in seguito, quando meno se lo
sarebbe aspettato, piomba dal nulla a salvargli la vita) confermano quanto
la sua perizia narrativa lo porti a zoppicare vistosamente a livello visivo.
In definitiva, si tratta di televisione di lusso. Nulla di male, per carità:
però la decisione di costruire un grosso (anche in termini di durata) evento
cinematografico sfruttando meccanismi di narrazione seriale (perché la
complessità ramificata di prodotti come questo è lì che guardano: alla
grande serialità televisiva americana contemporanea), lascia quantomeno
perplessi. Per abile che sia, il gioco di intrecciare uno scheletro
elementare (un ragazzo che diventa uomo) con un florilegio ipertrofico di
variazioni (che è il magmatico ambiente a produrre) funziona meglio in
televisione. E funziona davvero alla grande: a cosa serve, allora, un
prodotto come Un prophète?
14:05:2009
pubblicata originariamente in
Cannes.62 |