::: INCONTRO CON FRANCESCO PATIERNO :::

Conversare significa etimologicamente versare con. Il più delle volte tutto ciò non accade. Un’eccezione è il regista Francesco Patierno con il suo interessante esordio PATER FAMILIAS. Generoso di parole e di concetti, il cineasta mi ha illustrato il suo percorso, il suo amore viscerale non solo per il cinema, ma anche per l’immagine in sé. Spirito libero, lontano dai dogmatismi delle varie scuole del cinema, Patierno ha accentuato l’entusiasmo quando ha raccontato il suo amour fou per il Super8 e il rapporto di collaborazione con lo scrittore Massimo Cacciapuoti per la stesura della sceneggiatura del film.
Dopo aver visto PATER FAMILIAS la prima cosa che mi è venuta in mente è che non avrei mai pensato per la maturità stilistica e contenutistica ad un esordio così folgorante. Lo dice uno che nutre tanti pregiudizi nei confronti di un cinema italiano diventato piatto prolungamento della fiction televisiva. La domanda che mi sorge nasconde una sottile provocazione:

 

Hai mai frequentato scuole di cinema?

Mai. Ho sempre avuto delle passioni cinefile molto monotematiche, legate all’immagine… come non dimenticare le atmosfere fumose, i colori bruciati dei Conan Doyle di Basil Rathbone che poi ho felicemente ritrovato IN QUERELLE DE BREST di Fassbinder. Forse l’immagine cinematografica che amo di più è proprio quella del Super8, così reale… materica. Potrei parlarti per giorni e giorni di tutti gli influssi visivi e culturali che mi hanno portato a fare del cinema senza mai essere stato studente di nessuna scuola, né mai aiuto regista di nessun regista. Lo dico senza venature polemiche… davvero. Per come sono, per il mio carattere è stato meglio così.


Voglio rischiare. Mi hai fatto venire la curiosità di queste tue influenze visive e culturali.
Io nasco a Napoli nel 1964. Ho studiato al liceo classico e poi mi sono laureato in architettura. Il mio iniziale rapporto con l’immagine lo devo ai fumetti: sin da ragazzino disegnavo fumetti e la carriera che volevo fare verso i 16 e i 17 anni era quella del fumettista. Già a 15 anni potevo vantare intere collezioni: da Tex ai supereroi della Marvel. Tutt’ora compro e leggo fumetti, ma l’interesse per l’immagine in movimento ha preso in me la predominanza rispetto a quella fissa, statica.


Qual è il film che ti ha condizionato in modo tale da decidere di percorrere la strada del cinema?
Un giorno, una mia ex mi portò al cinema a vedere BIANCA di Nanni Moretti. Ne rimasi sconvolto tanto che dissi fra me e me: “Cavolo! Come in un film si possono dire tutte queste cose!”.
Vedo un ritorno della vecchia ma gloriosa – spesso fruttuosa! – collaborazione tra regista e sceneggiatore… Savatores/Ammanniti, ora tu con Massimo Cacciapuoti. Raccontami un po’ del vostro incontro e del lavoro di sceneggiatura in coppia.
Lessi un breve trafiletto sul Mattino di Napoli che annunciava la presentazione di questo libro. Mi colpì una frase in particolare: “storie di ragazzi e ragazze nell’hinterland napoletano”. Io sono una persona molto istintiva e compresi che forse con una buona storia, potevo realizzare finalmente il mio film. Lessi il libro il giorno stesso, la sera chiamai l’editore (Castelvecchi, n.d.r.): dopo sette giorni avevo i diritti e dopo venti m’incontrai con Cacciapuoti. Al tempo c’era questa moda del pulp, della gioventù cannibale e la scrittura di Massimo era tutto meno che pulp. Ciò che mi ha sorpreso in lui è stata proprio la sua normalità… Castelvecchi lo ha definito giustamente un ragazzo tranquillo. Sin dall’inizio il lavoro in coppia è andato benissimo, insieme ci siamo equilibrati alla perfezione, perché Massimo aveva un’esperienza di matrice letteraria, io una visiva. Molte cose sono state cambiate per esigenze cinematografiche. Il racconto ha due ordini temporali: passato e presente. Massimo prima che scrittore lavora come infermiere e ha preso spunto da fatti realmente accaduti, per poi approfondirli e creare una vera vicenda corale.


Vedendo PATER FAMILIAS sembrava che tu e Cacciapuoti foste dei ragazzi di borgata, di vita e non un regista di ceto sociale benestante e un giovane scrittore promettente.
Io sono un anarchico-individualista: credo nelle persone, le ideologie non mi interessano. Penso che al mondo si nasca a caso e in questo senso non ho difficoltà a relazionarmi con gli altri. Faccio spesso l’esempio di quando cadi in un mare in tempesta e invece di lottare contro le onde ti affidi alla corrente perché dentro hai la tua armonia. Per me sarebbe dunque limitante rappresentare il mio ambiente… un ambiente poi dal quale sono scappato. Io poi sono ossessionato dalla realtà. Agli attori ho chiesto di non spettacolarizzare il dolore. Alcuni dei ragazzi sono stati presi dalla strada e vivono realmente nel contesto che ho mostrato nel film. Per gli esterni non ho volutamente avvertito gli abitanti di quello che stava accadendo… la macchina da presa era nascosta. Ho voluto ambientare il film a Casoria, una cittadina alle porte di Napoli con 80-90.000 abitanti perché si è rivelato un luogo perfetto per la luce.


Spesso nella critica si abusa del concetto di ‘corpo attoriale’ ma mi pare che nel caso di PATER FAMILIAS si possa tranquillamente fare grazie al volto dell’attore Luigi Jacuzio che interpreta Matteo, il protagonista del film. In quell’austerità, in quello sguardo che penetra quello dello spettatore, mi ha fatto ricordare quello di Enrique Irazoqui ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non sei il solo ad avermelo detto. Vedi a volte la critica – quella che io considero seria! – è capace di scoprire degli elementi in cui io ho messo inconsciamente. Io ho un personale metodo di lavoro: tendo a costruire dei paracaduti, nel senso che non mi affido alla casualità ma nello stesso tempo faccio diventare tutto quello che ho costruito un 30-40% di casualità. Quindi non obbligo l’attore a determinate pose e movimenti anche perché il tutto suonerebbe molto artefatto, ma nello stesso tempo condiziono in modo tale che la scena vada in una certa direzione. Il film è come un organismo vivente non un’equazione matematica, non c’è bisogno di calcolare tutto quello che avviene. La scelta degli attori non è derivata da provini… ho preferito affidarmi all’emanazione che certi corpi attoriali potevano trasmettermi. Luigi Jacuzio, ad esempio, è un esordiente; aveva fatto solo tre pose ne IL CUORE ALTROVE di Avati. Luigi emanava una sofferenza senza mai cadere nel didascalico. C’è quell’immagine, dopo l’ultimo flashback quando cade la Madonna, dove lui è nell’autobus con quel volto sbigottito ma sereno… ecco per me quella scena è il simbolo di tutto il film.


C’è una scelta stilistica precisa nell’utilizzare frequentemente un colore bluastro-notturno?
Premetto: io e il direttore della fotografia Mauro Marchetti non volevamo illuminare la scena, ma raccontarla. A me piace lo stile di Gordon Willis che illumina a punti e non ha paura di sottoesporre. Mauro non è un teorico, ma un istintivo e la luce ti pone sempre delle scelte nette e radicali. Ad esempio ci siamo trovati di fronte al problema della differenziazione dei piani temporali. Abbiamo sperimentato vari percorsi… ad esempio correggendo digitalmente il colore… poi però sembrava troppo simile a Traffic. Non volevo glamourizzare troppo: all’inizio il passato aveva un colore giallo e il presente molto freddo, un blu non troppo virato, però. Alla fine si è deciso di operare chimicamente: per il presente abbiamo lasciato un blu abbastanza carico ma neutrale, per il passato abbiamo utilizzato un particolare procedimento chiamato “salto della sbianca” che lavora sull’argento, lasciando i bianchi molto bianchi e i neri molto neri, cioè si sono scelti colori molto saturi per poi denaturarli. Risultato per lo spettatore: un’impressione di freddezza però calda, perché poi i colori ci sono.


Che tipo di macchine da presa avete adoperato?
Abbiamo adottato una Super16, poi abbiamo gonfiato otticamente il film non in digitale. Mi piace il realismo, il dato realtà che diventa spaesamento, allucinazione minimale, molto personale. È per questo che il ralenty non è estetica ma uno stato d’animo. Tutti i ralenty sono stati voluti, cioè girati in macchina, senza crearli in postproduzione.


Mi pare di capire che spesso la tua personale cifra stilistica è caratterizzata da un ampio uso di piani ravvicinati… ho visto male?
Non sbagli affatto… sai io sono un amante del teleobiettivo, mi piace la plasticità dell’immagine che ti dà il tele. Mi sono reso conto che le tavole dei supereroi mi piacevano così tanto anche perché erano disegnate come se fossero riprese da un teleobiettivo (sto pensando a disegnatori come Jack Kirby). Quasi tutto il film è telato. Il teleobiettivo è il non detto, l’antididascalico perché ti dice ma non ti dice. Se ci si riflette un po’ tutto il vedere è una presunzione irreale… si vede qualcosa ma mai del tutto, solo dettagli, delle forme… il cinema è una di queste. Vedi ad esempio quell’albero fuori dalla finestra? Ti ho appena detto una falsità… avrei dovuto dirti: vedi quella parte di albero?… solo una parte perché il resto è nascosto da quell’edificio che a sua volta…

 

Domenico Monetti
ROMA,
15 - 05 - 03


::: PATER FAMILIAS :::