Steven Spielberg ha detto di
Once: è un piccolo film che
mi ha dato ispirazione per il resto dell’anno. Togliendo il fatto che è un
vero piacere poter dire di comprendere appieno (dopo aver visto, anzi
sentito, il bellissimo Once)
il senso della dichiarazione di Spielberg (che non è da intendersi in senso
così stretto da pensare di trovare tracce di
Once nell’ultimo Indiana
Jones: no davvero) rimane un consiglio appassionato: andate a vedere
questo film.
La pellicola di Carney non è un musical, ma un film fatto di musica. Dove
c’è una storia che comincia con una canzone, finisce con una canzone e si
racconta, dentro, attraverso tante canzoni (tra cui una, “Falling Slowly”,
premio Oscar 2008 come Miglior Canzone Originale). Ma
Once è anche un film dove
l’unico effetto speciale lo fanno le facce dei due protagonisti: lui,
musicista di strada e lei, venditrice di rose che suona il pianoforte. Due
persone semplici, vere, un po’ segnate sulla pelle dalla vita come lo siamo
tutti noi, abitanti di questo pianeta.
E forse per questo ci innamoriamo di loro fin dalle prime inquadrature. E
dalle prime canzoni. E ci sentiamo commossi da lei (Markéta Irglovà), che
trascina il suo aspirapolvere rotto, con la stessa disinvoltura (ma non di
certo la stessa tristezza) con cui Paris Hilton trascina il suo chi-hua-hua
impomatato; e vicini a lui (Glen Hansard), specie rara di uomo sandwich cha
lancia slogan sulla sua vita con la chitarra.
Due ragazzi, un incontro che nasce con la musica, un possibile amore che non
ci sarà, una settimana soltanto, a Dublino. Forse un disco. Questo è “Once”.
E c’è davvero da farli i complimenti al regista John Carney: perché se tutti
i film indipendenti fossero così, ci sarebbe da diventarne dipendenti.
::: l'intervista :::
03:06:2008 |