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grindhouse a prova di morte di Quentin Tarantino Con Kurt Russell, Zoe Bell |
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63mo festival di cannes |
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Death
Proof, film migliore del concorso finora insieme a Kim Ki-Duk e Bela
Tarr, è già dal titolo un richiamo all’erotismo di Bataille già acciuffato e
superato per sempre da Crash
di Cronenberg. “Fare finta di morire” è il gioco di “Stuntman Mike” (Kurt
Russell), controfigura semifallita e folle che ammazza giovani automobiliste
andandogli addosso a 300 all’ora con la propria auto “a prova di morte”.
“Fare finta di morire” è la logica maschile del Fantasma, godere
dell’assenza altrui per illudersi di essere presenti: è anche la logica del
feticismo, cui Tarantino allude dall’inizio alla fine con innumerevoli
primissimi piani di piedi femminili.
Death Proof è una battaglia (“Bataille”) tra sessi, bruscamente
diviso in due parti: nella prima Mike (dietro a cui si scorge come in Bill
di Kill Bill Tarantino
stesso: “I’m not a cowboy, I’m a stuntman”, faccio le cose sul serio ma
rigorosamente per finta, come artificio retorico) uccide le ragazze, nella
seconda l’esatto contrario. Due stili, due luoghi, due squadre femminili,
due ritmi, due cinema differenti. Nel primo ci si compiace feticisticamente
dell’assenza (sovente vengono troncati dei fotogrammi per dare l’idea che la
pellicola salti, e per donare un’allure mimetica da anni 70 – e una delle
ragazze ha una maglietta con scritto “L’ultimo Buscadero”, Peckinpah), della
discontinuità violenta. Nella seconda questo vuoto si trasfigura e diventa
il vuoto da un fotogramma e l’altro, e non a caso i titoli di coda vengono
genialmente riempiti di “code”, quei fuggevoli fotogrammi con scritto
“Kodak” e con la faccia di una ragazza che a volte si vede alla fine di un
rullo: il femminile stesso è allora il vuoto tra un fotogramma e l’altro –
non il vuoto creato ad arte per compiacere lo sguardo (maschile) come
nella prima parte, ma suprema forza meccanica propellente che autosupera
automaticamente la propria assenza, come già nella Sposa di
Kill Bill. La potenza sublime
del cinema americano, automatismo spettrale e senza volto, diventa allora
(come sempre in Tarantino) gioco del e sul vuoto. Il vuoto come unica
benzina del motore del cinema. Un vuoto tanto pieno che si spacca in due, e
la simmetria binaria in cui si divide il film serve proprio a farci con
scontrare con l’ambiguità: fantasia masochista-maschile del mettere in scena
per finta la propria nemesi o passaggio effettivo del testimone al
femminile?
Voto: 30/30 23:05:2006 GRINDHOUSE di Chiara ARMENTANO
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