Nuovo cult Taran-Rodrigueziano, se si concede la crasi di due nomi-icone, il
recentissimo film made in Usa (è uscito il 6 aprile) non è stato un gran
successo nel dorato reame hollywoodiano. Eppure il film merita. Merita se
ovviamente consideriamo il prodotto nella sua gestazione (background dei due
padri biologici) e nell’aspettativa che il movie-goer “che sa di cinema” ha
prima di entrare in una sala e gustarlo. Quello che qui si sosterrà è che,
al di là di quanto se ne dica e se ne dirà visto che in Italia lo vedremo a
giugno e probabilmente in una versione non onnicomprensiva, il film (il
pacchetto si intende) è molto banalmente ma semplicemente bello. Bello nella
misura in cui le tre ore e 11 minuti di pellicola (che comprendono due film,
l’uno diretto da Rodriguez, l’altro da Tarantino intervallati da trailers
fasulli nella più sanguinolenta maniera splatter) passano veloci come una
sana bevuta di Budweiser dopo una giornata faticosa e sudaticcia.
Bello, infine, anche per una terza ragione: perché se amate guardare sangue
in quantità industriale, gambe tagliate e gettate volgarmente in strada,
mutilazioni e organi che esplodono da corpi in putrefazione e non disdegnate
neanche killer psicopatici che da bravi stalker inseguono succose prede per
vederle poi crepare nei modi più atroci, allora siete inconfutabilmente nel
posto giusto. Diciamo pure che non ci potrebbe essere posto migliore.
La prima parte, diretta dal pupillo di
Sin
City, è Planet Terror. Cherry (Rose McGowan), novella musa del dittico di
cineasti pulp, è una ballerina che lavora in un night disposta a cambiare
vita pur di non mostrare ancora tette e culo per sopravvivere. Si rifugia in
un diner fuori mano a meditare sul suo futuro. Intanto una giovane biondina
(la Fergie del gruppo Black Eyed Peas) si ferma a fare benzina lì. Ricarica
il bolide e riparte ma dopo poco la macchina si ferma ancora. Nell’arco di
pochi minuti strane cose accadono. Fergie sarà massacrata (le verrà
liquefatto letteralmente il cervello) da un trio di “cose” dalle sembianze
umane che le si avventeranno contro e di lì a poco il fenomeno dilagherà in
massa. Un cartello ci informa di essere a due miglia da una base militare.
Bruce Willis nei panni di un comandante dal polso duro, sa cosa sta
succedendo ma non riesce, forse non vuole, frenare la carneficina.
Si tratta di un’epidemia, come sapremo in seguito, che deforma i corpi umani
rendendoli ammassi di carne non meglio identificata, e li condanna al
cannibalismo. La trilogia Romeriana ovviamente è vicina, ma in questo film
vediamo brulicare quasi tutta la fugace ma intensa parabola
horror-splatter-gore contemporanea (a partire da quel ’68 in cui le cose
cambiarono un po’ ovunque, e non da ultimo al cinema).
Riconosciamo innanzitutto i film che Rodriguez stesso ha dichiarato averlo
ispirato, Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi,
Zombi 2 di Lucio Fulci, e non da ultimo il Carpenter di
Assault on Precinct 13. Ma di questo
ultimo l’influenza sembra ben più forte della semplice menzione di un unico
film. Intanto la colonna sonora è praticamente un mix delle più carpenteriane delle sonorità, e poi in quella gelatina putrescente come non
ravvisare la “Cosa” più tutta una serie di esplosioni d sangue e violenza,
erotizzazione di corpi femminili ed eccesso debordante in tutte le sue
forme, che hanno costituito l’immaginario inesauribile e la linfa vitale del
cinema del trentennio ‘70, ‘80 e ‘90.
Il film si dipana su un intreccio semplicissimo: la classica lotta dei pochi
normali sopravvissuti contro una miriade di mostri, e una nutrita schiera di
soldati che al solito non fanno il bene dei vivi, ma i loro sporchi
interessi.
Metafora della politica corrotta, dei tempi angusti e politicamente
compromessi in cui versano gli Stati Uniti e con essi l’intera economia
mondiale?
Può darsi, ma quello che più salta agli occhi è qui il divertimento. Il
puro, (in)sano entertainment. Inutile appellarsi a messaggi, metafore,
morali o quant’altro. La bruna Cherry, perde una gamba (“I have no fucking
leg” dirà al suo uomo, Wray, che sembra non essersene accorto) e per tutta
la durata del film combatterà, farà l’amore, cavalcherà un cammello nel
finale, con una protesi di legno prontamente sostituita con una
mitragliatrice. L’altra donna con lei, la bionda dottoressa Dakota Block
(appena uscita da una puntata di “ER” un pò fuori target, e dall’andatura
così simile alla Daryl Hannah di Kill Bill), mette in mano al figlio una
pistola dicendogli, “Mi raccomando non puntartela addosso, ma appena vedi
qualsiasi cosa che si muove spara”. E lui “E se vedo papà?”, lei, “Spara più
che puoi soprattutto se vedi papà”. Peccato che il bambino, neanche finite
di pronunciare le parole della cara mammina, si spara un colpo in testa e
lei ha tutto il tempo di godersi il triste spettacolo del figlio morto
mentre è costretta a scappare per salvare anche la sua pelle. Tarantino
ovviamente si diverte come un matto ad apparire in entrambi i film come un
cameo di deux-inter-machina.
Seconda parte:
Death Proof, diretto stavolta dal padre putativo della Sposa.
Austin, Texas. Un giovane vecchio, Kurt Russell, guida una macchina stile
Boy e Luke con un teschio impresso sulla parte davanti. In un’altra auto tre
ragazze belle e sensuali (il nome di una di loro è curiosamente Jungle Julia,
quasi a ricordare l’aggressività scimmiesca della Jane di Tarzan) parlano,
si divertono e approdano in un diner questa volta non tanto fuori mano e
decisamente più affollato. Passano il tempo a bere, ciarlare, flirtare,
mandare sms a cellulari altrui e giocare a fare le dive. Kurt, il cui nome
curioso è Stuntman Mike, prende parte alla commedia, rimorchiando una delle
donne in sala che risponde al nome della stessa attrice del primo film (Rose
M.) in una patinata tenuta effetto Seventies (in teoria questa seconda
pellicola potrebbe essere collocata cronologicamente prima dell’altra,
ambientata in un futuro decadente). Entrata in macchina viene fatta fuori a
suon di colpi di parabrezza contro il suo delicato faccino. Spiaccicata e
grondante. The Texas Chainsaw Massacre
di Hooper non può non essere
ricordato (uno dei primi a sottolineare il piacere della morte dal vivo),
mentre Tarantino ha menzionato il Duel
Spielberghiano, banalmente lo Psycho
di Hitchockiana memoria, ma paiono ancora lampanti altre pellicole ancora di
Carpenter, Christine, e ovviamente ogni stalker che si rispetti fino a
Henry
Portrait of a Serial Killer, passando per il primo Craven e l’Hooper di
quel motel vicino alla palude.
Di carne insomma c’è n’è, e tanta, lì a friggere, ma non sono da
sottovalutare anche i riferimenti, sebbene più velati e superficiali, alle
locations dei telefilm di quegli stessi anni, Boy e Luke non sono stati
citati casualmente, e poi Charlies Angels, visto anche l’epilogo vittorioso
per le tre intrepide (che in un inseguimento serratissimo provano il loro
coraggio “virile” facendo sdraiare una di loro sul davanti dell’auto, mani
legate ai finestrini, e giù il pedale dell’acceleratore).
Il ritmo lascia senza fiato, nell’inseguimento in un paesaggio brullo e
assolato siamo assolutamnete dentro l’azione. Ma i riferimenti corrono anche
alla stessa cinematografia dei due registi in questione. A
Kill Bill un
piccolo omaggio sono le gemelle adolescenti in
Planet Terror, astute ma
insopportabili e maledettamente volgari, oltre che a
Pulp Fiction, e anche a
Desperado. Senza dimenticare la cornice imprescindibile del combattimento
alla “Hong Kong style”, kung fu, e via dicendo.
I due film sono intervallati, come i veri “Grindhouse” del titolo (film d’explotation
dai contenuti estremi -sesso, violenza e quant’altro- proiettati in
spettacoli da “due” più altro materiale), da trailers fasulli girati ad hoc
anche da altri registi.
Il migliore a nostro a parere, è MACHETE, storia di un indiano che vendica i
torti subiti ammazzando tutti e circondandosi di belle donne suadenti
sottratte ai suoi nemici. Esilarante, soprattutto grazie all’attore
protagonista. Seguono quello in cui Nicholas Cage è Fu Manchu alle prese con
esperimenti nazisti pronti a creare la donna licantropo (Werewolf Women
of the SS diretto da Rob Zombie).
Thanksgiving vede un omicida mascherato come
Michael Myers uccidere proprio nel giorno di ringraziamento americano (Eli
Roth il regista), e infine Don’t
di Edgar Wright in cui è vietato fare
qualsiasi cosa come intima il titolo, persino andare a vedere il film.
Il film però va visto, decisamente.
Aggressivo, violento, citazionale, postmoderno nei suoi infiniti ammicamenti
(vedi Kurt Russell prima di entrare in macchina guarda fisso l’obiettivo in
una chiara interpellazione volta a richiamare lo spettatore su ciò che sta
per accadere), ironico, manierato eppure esplosivo, è una chicca di azione
ed iper-visione eccedente adatta solo ai fanatici.
Voto: 29/30
27:04:2007 |