Niente battaglia di Iwo Jima, a dispetto del battage mediatico. A parte
alcuni brandelli confusi e una serie di flashback dolorosi in cui i soldati
una volta tornati in patria rivedono i compagni morire sul campo. Il centro
del film è invece la celeberrima fotografia dei soldati che piantano la
bandiera a stella a strisce, simbolo di una guerra, di una civiltà
trionfante, immagine che è risultata cruciale per risollevare gli animi a
pezzi del popolo americano. Un'immagine che ha risollevato un Paese e che ha
dunque cambiato il mondo. Un'immagine che il figlio di uno dei soldati
ritratti, che NON sono quelli che davvero hanno messo la bandiera, è
risoluto ad indagare attraverso le testimonianze dei superstiti e dei loro
correlati.
Quello che preme a Eastwood è indubbiamente girare un suo remake de
L'uomo che uccise Liberty Valance
di John Ford. “Print the legend”, sentenziava quel film altrettanto
incentrato sull'ambiguità storica del Mito, e si chiudeva con una scena che
ripeteva da un altro punto di vista una sparatoria vista all'inizio.
Flags of our fathers non solo
comincia con una leggenda che viene stampata, cioè con la capillare stampa e
diffusione dell'immagine fatidica, non solo verso la fine abbiamo la
riproposta, da un altro punto di vista, della scena mostrata poco prima in
cui uno dei protagonisti incrocia un ex commilitone attraversando in
macchina la prateria, ma, come si sa da mesi, è pronto a sdoppiarsi tra poco
in un film gemello (Letters from Iwo
Jima) che adotta il punto di vista dei Giapponesi.
La sparatoria di Ford è accaduta diversamente da come il Mito l'ha dipinta.
La bandiera di Iwo Jima è stata piantata appena 5 giorni dopo l'inizio della
battaglia che invece ne sarebbe durati altri 20 e passa (niente simbolo di
un trionfo allora), ed è a propria volta la copia di una bandiera issata
poco prima nello stesso luogo. All'inizio del film i tre eroi si arrampicano
su una montagna tra i fuochi spietati nel cielo... ma una volta arrivati in
cima, la macchina da presa svela che non siamo su un campo di battaglia, ma
in uno stadio gremito in cui si festeggia con una finzione rituale e con un
profluvio di fuochi d'artificio un trionfo immaginario.
Il punto insomma è proprio la continuità scandalosa tra la guerra e la sua
immagine, nonostante la loro incompatibilità. Non nel senso mimetico
da “soldato Ryan”, non cioè perché la guerra sia davvero restituibile in
quanto immagine, ma perché le guerre si vincono anche con le immagini, le
battaglie vere si combattono confortati dalla finzione di una bandiera che
sventola, e soprattutto diventare un'immagine significa vivere una scissione
così radicale che è del tutto analoga alla guerra stessa. L'immagine è
strutturalmente una guerra, e la guerra stessa è questione di immagine.
Eastwood filma con suprema abilità il disagio dei tre “finti eroi” in giro
per l'America a celebrare ciò che non hanno vissuto, riproducendo la
paradossalità del loro punto di vista al centro dei riflettori, “spettatori
di se stessi” quanto e più del pubblico pagante che li guarda dagli spalti.
Tesse scene dove l'adesione molto classica al punto di vista del personaggio
non fa filare il racconto ma lo squarcia appunto nella pluralità dei punti
di vista: si veda il doloroso balletto visivo della scena (magistrale e
significativa) in cui i tre incontrano per la prima volta il ministro del
tesoro. L'immagine stessa è una guerra che ci travolge in prima persona
spaccando a metà la nostra coscienza (che non può rassegnarsi ad essere
“solo” immagine). La guerra, per eccellenza il culmine al limite del
“reale”, come caos di punti di ripresa (i primi flashback del film), e come
attonito assistere alla morte altrui (i secondi flashback che compongono il
film,o meglio lo bucherellano enunciando tutta la sanguinante ambiguità del
racconto in quanto tale, del racconto come categoria antropologica), è
dunque agghiacciantemente speculare all'attonito scoprirsi vivi che è
l'immagine, cui vengono dati in pasto i tre soldati nella campagna
trionfalistica.
Per questo il vecchio ex-soldato sul letto di morte si sentirà dire che è
stato un buon padre proprio perché (e non “nonostante”) sia stato
ossessionato dall'incapacità del raccontare la guerra: la guerra nella sua
proverbiale irrappresentabilità ce la racconta eccome un racconto “reduce di
se stesso”, lacunoso e bucherellato. L'impossibilità di raccontare si salda
del tutto naturalmente con l'esperienza dell'impossibilità che è la guerra:
per questo il racconto, anche se “falso”, è salvo (l'allucinazione dell'ex
soldato cui pare di incrociare in macchina il commilitone a piedi è davvero
la realtà, è davvero il commilitone, come dimostra l'accennata scena
ripetuta da due punti di vista diversi), e con esso la funzione paterna. A
noi figli non resta che dare una voce al racconto dei padri che è
inevitabilmente paradossale, inevitabilmente leggenda: non resta che
visualizzare l'”utopico” bagno in mare tra commilitoni vivi e morti che
chiude questo nuovo capolavoro eastwoodiano. Print the legend.
Voto: 30 e lode
18:11:2006
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