24m0 torino film festival

Flags of Our Fathers

di Clint Eastwood
Con Ryan Phillippe, Adam Beach

di Marco GROSOLI


Niente battaglia di Iwo Jima, a dispetto del battage mediatico. A parte alcuni brandelli confusi e una serie di flashback dolorosi in cui i soldati una volta tornati in patria rivedono i compagni morire sul campo. Il centro del film è invece la celeberrima fotografia dei soldati che piantano la bandiera a stella a strisce, simbolo di una guerra, di una civiltà trionfante, immagine che è risultata cruciale per risollevare gli animi a pezzi del popolo americano. Un'immagine che ha risollevato un Paese e che ha dunque cambiato il mondo. Un'immagine che il figlio di uno dei soldati ritratti, che NON sono quelli che davvero hanno messo la bandiera, è risoluto ad indagare attraverso le testimonianze dei superstiti e dei loro correlati.
Quello che preme a Eastwood è indubbiamente girare un suo remake de L'uomo che uccise Liberty Valance di John Ford. “Print the legend”, sentenziava quel film altrettanto incentrato sull'ambiguità storica del Mito, e si chiudeva con una scena che ripeteva da un altro punto di vista una sparatoria vista all'inizio. Flags of our fathers non solo comincia con una leggenda che viene stampata, cioè con la capillare stampa e diffusione dell'immagine fatidica, non solo verso la fine abbiamo la riproposta, da un altro punto di vista, della scena mostrata poco prima in cui uno dei protagonisti incrocia un ex commilitone attraversando in macchina la prateria, ma, come si sa da mesi, è pronto a sdoppiarsi tra poco in un film gemello (Letters from Iwo Jima) che adotta il punto di vista dei Giapponesi.
La sparatoria di Ford è accaduta diversamente da come il Mito l'ha dipinta. La bandiera di Iwo Jima è stata piantata appena 5 giorni dopo l'inizio della battaglia che invece ne sarebbe durati altri 20 e passa (niente simbolo di un trionfo allora), ed è a propria volta la copia di una bandiera issata poco prima nello stesso luogo. All'inizio del film i tre eroi si arrampicano su una montagna tra i fuochi spietati nel cielo... ma una volta arrivati in cima, la macchina da presa svela che non siamo su un campo di battaglia, ma in uno stadio gremito in cui si festeggia con una finzione rituale e con un profluvio di fuochi d'artificio un trionfo immaginario.
Il punto insomma è proprio la continuità scandalosa tra la guerra e la sua immagine, nonostante la loro incompatibilità. Non nel senso mimetico da “soldato Ryan”, non cioè perché la guerra sia davvero restituibile in quanto immagine, ma perché le guerre si vincono anche con le immagini, le battaglie vere si combattono confortati dalla finzione di una bandiera che sventola, e soprattutto diventare un'immagine significa vivere una scissione così radicale che è del tutto analoga alla guerra stessa. L'immagine è strutturalmente una guerra, e la guerra stessa è questione di immagine.
Eastwood filma con suprema abilità il disagio dei tre “finti eroi” in giro per l'America a celebrare ciò che non hanno vissuto, riproducendo la paradossalità del loro punto di vista al centro dei riflettori, “spettatori di se stessi” quanto e più del pubblico pagante che li guarda dagli spalti. Tesse scene dove l'adesione molto classica al punto di vista del personaggio non fa filare il racconto ma lo squarcia appunto nella pluralità dei punti di vista: si veda il doloroso balletto visivo della scena (magistrale e significativa) in cui i tre incontrano per la prima volta il ministro del tesoro. L'immagine stessa è una guerra che ci travolge in prima persona spaccando a metà la nostra coscienza (che non può rassegnarsi ad essere “solo” immagine). La guerra, per eccellenza il culmine al limite del “reale”, come caos di punti di ripresa (i primi flashback del film), e come attonito assistere alla morte altrui (i secondi flashback che compongono il film,o meglio lo bucherellano enunciando tutta la sanguinante ambiguità del racconto in quanto tale, del racconto come categoria antropologica), è dunque agghiacciantemente speculare all'attonito scoprirsi vivi che è l'immagine, cui vengono dati in pasto i tre soldati nella campagna trionfalistica.
Per questo il vecchio ex-soldato sul letto di morte si sentirà dire che è stato un buon padre proprio perché (e non “nonostante”) sia stato ossessionato dall'incapacità del raccontare la guerra: la guerra nella sua proverbiale irrappresentabilità ce la racconta eccome un racconto “reduce di se stesso”, lacunoso e bucherellato. L'impossibilità di raccontare si salda del tutto naturalmente con l'esperienza dell'impossibilità che è la guerra: per questo il racconto, anche se “falso”, è salvo (l'allucinazione dell'ex soldato cui pare di incrociare in macchina il commilitone a piedi è davvero la realtà, è davvero il commilitone, come dimostra l'accennata scena ripetuta da due punti di vista diversi), e con esso la funzione paterna. A noi figli non resta che dare una voce al racconto dei padri che è inevitabilmente paradossale, inevitabilmente leggenda: non resta che visualizzare l'”utopico” bagno in mare tra commilitoni vivi e morti che chiude questo nuovo capolavoro eastwoodiano. Print the legend.

 

Voto: 30 e lode

18:11:2006

 

Tutte le recensioni del 24.mo Torino Film Festival

Flags of Our Fathers
Regia: Clint Eastwood
USA 2006, durata 132'
Data uscita in Italia: 10:11:2006
Genere: Guerra