24.MO TORINO FILM FESTIVAL

 

10/18:11:2006

TORINO

di Davide GHERARDI e Marco GROSOLI

 

Report #1
Eccomi sbarcato in grembo alla solita opprimente architettura sabauda, infine persino piacevole una volta che ti sei abituato alla sensazione di percorrere una città progettata per persone alte tre metri. Un clima ancora tiepido, iniezioni d’aria primaverile. Getto un’occhiata alla situazione logistica del Festival, prima novità: una nuova multisala in funzione, il Cinema Ambrosio, sporto sull’arteria del Corso Vittorio Emanuele II. Strano posto quello, in bilico tra un cocktail-bar anni ’80 per dentisti di Miami Beach e la sala d’attesa di un aeroporto…
Ma comincio a scorrere il programma del festival e già so che il taccuino di un grafomane qui ha da riempirsi compulsivamente; gli occhi del cinefilo, pure. L’edizione 2006 si presenta particolarmente ricca, variegata.
Innanzitutto gli appuntamenti “mondani” includono la presentazione della seconda “stagione” della serie americana horror (già assunta al culto) “Masters of Horror 2”, con la taumaturgica presenza dal vivo di Dario Argento e John Landis; la scorsa edizione questa serie ci ha riservato delle notevoli emozioni, sopratutto grazie alla visione dell’acuto pamphlet politico di Joe Dante, "Homecoming", dove il mito dello zombie, l’eterno ritratto scoperto di Dorian Gray o cattiva coscienza collettiva sulla guerra, veniva piegato all’invettiva contro la presenza militare in Iraq.
Anche questo anno ci aspettiamo delle grandi cose, dai “signori dell’orrore”…


Nell’ambito dell’importante retrospettiva dedicata a Robert Aldrich sarà presente la figlia in sala, per parlare dell’iniziativa che ha visto la famiglia del regista collaborare con l’organizzazione, mettendo a disposizione un “folto archivio” privato.
Il grande maestro Claude Chabrol, richiamato dalla programmazione delle seconda parte della lunga retrospettiva a lui dedicata, si sottoporrà ad un dialogo “socratico” con il logorroico ed arruffatissimo Enrico Ghezzi (speriamo che questi non lo metta (tra parentesi) (come) (suole) (fare) (nei) (suoi) (scritti). Poi il regista Walter Hill sarà presente in occasione della sua ultima fatica: Broken Trail, (id.2006) ed il leggendario caratterista western Ernest Borgnine, in compagnia dell’amico Keith Carradine, presenterà un film molto citato ma pressoché invisibile di Aldrich, L’imperatore del Nord, 1973.

Le retrospettive collaterali come sempre costituiscono l’occasione per la sostanziazione del festival stesso. Quest’anno sono da segnalare la retrospettiva dedicata a Joaquin Jordá, catalano, figura chiave del cinema europeo contemporaneo e recentemente scomparso, l’omaggio al cineasta ferocemente sperimentale Piero Bargellini, e l’evento speciale dedicato ai film restaurati in 8mm della famiglia di celebri circensi Togni.



Questa mattina ho avuto modo di apprezzare Monos come becky, 1999, docu-fiction imperniato sulla ricostruzione del profilo del controverso neurologo Nobel Egas Moniz, ideatore del procedimento dell’asportazione chirurgica del lobo frontale allo scopo del contenimento dei malati mentali troppo aggressivi. Il film è interpretato da un attore che ha subito una lobotomia secondo moderne procedure moderne, e coinvolge i pazienti di un istituto psichiatrico. Vengono citate le tappe del percorso del neurologo. Emerge una figura limacciosa, tra smanie di onnipotenza, e grandeur umanistica. La camera segue i bordi frastagliati di un continuo sconfinamento della vita degli attori e disegna con intelligenza l’affresco di una potente indagine sui confini tra malattia e norma, terapia e autoanalisi…

 


BROKEN TRAIL

di Walter Hill

USA 2006, 184'


Agli inizi del secolo, ovviamente nell'Ovest degli Stati Uniti cinque ragazze cinesi vengono vendute come prostitute a un commerciante statunitense. Il loro percorso si incrocia con quello di Tom e del vecchio zio Print, che tentano di rifarsi una vita trasportando cavalli per una grossa somma di denaro.
Non è certo una novità che Hill sia incapace di rassegnarsi alla "morte" del western. Per fortuna. E per fortuna stavolta la sua testardaggine nel voler far rivivere un mondo già passato non incappa nelle impasse di, poniamo, "Ancora vivo".
"Broken Trail" è un film esplicitamente, sfacciatamente, limpidamente televisivo (d'altronde quella è la destinazione originaria del progetto). Nella prima parte, in verità, "finge" di voler/poter tornare a una strutturazione cinematografica tradizionale (non ci azzardiamo a dire "classica", perché nel caso di Hill la cosa è complicata), e lo fa con una trovata delle sue, ovvero tirando in ballo il classico "vero", la tragedia nelle sue forme pure: è pur sempre lui che in "Guerrieri della notte" ha nascosto dietro a un genere post-classico come quello violento-metropolitano l'"Anabasi" di Senofonte. Ecco, qui incrementa la portata drammatica aggiungendo nientemento che il "coro" delle cinque cinesi che saltuariamente intervengono con i loro interrogativi su ciò che intorno a loro "le agisce" senza che, per via della lingua, non possano capirci granché.
Poi però con la seconda parte arriva un interprete connazionale e il film chiarisce meglio le sue carte. Le vedute paesaggistiche, tinte di una splendida e riappacificata luminosità (anche quando nevica), si fanno sempre più frequenti, il ritmo si ammorbidisce, l'azione non prova nemmeno ad essere centrale, l'inseguimento dell'avanzo di galera contro il manipolo di outsider si palesa un fantoccio narrativo, buono solo a tenere insieme l'emergere dei caratteri e delle loro storie, nonostante la prima parte terminasse con un accenno a una possibile deviazione del film verso il filone "genesi tragica del capitalismo" stile "I cancelli del cielo". Invece no, tant'è che Tom "diventa grande" quasi per caso e la sua liberazione dall'inettitudine verso la figura paterna (che Thomas Haden Church esprime attraverso una geniale reincarnazione di Warren Oates, che era appunto nato per questo tipo di parti) avviene sparando alle spalle del nemico (e salvando la vita dello zio) in una scena che quasi non ha preparazione, che viene sbrogliata in due minuti per passare ad altro: tutto il contrario dunque della sparatoria finale di "Open range" di Costner, per esempio.
A Hill interessa di più indugiare sullo "spirito dell'epoca", sull'aria delle praterie e sulla sensazione di 300 cavalli al galoppo - ma tutto questo non per farne una banale cartolina. Si tratta piuttosto, come Print ripete tutte le volte che muore qualcuno (che è poi ciò che davvero scandisce il tempo del film, più che l'azione), del fatto che "viaggiamo attraversando l'eternità", e nulla come la semplice transitorietà di questi elementi naturali è in grado di dircelo. Hill, insomma, si arrende ala televisione e alla "mancanza di tempo lineare" del suo flusso eterno, statico, e anziché mimare quell'eternità con l'imbalsamazione delle forme (come in "Ancora vivo") sospende (o quasi) la narrazione e si concentra sulla tonalità soffusa di tutto ciò che rimane. Solo in questo modo la malinconia del personaggio di Print, che invade la scena nella seconda parte diventandone il perno, riesce a non diventare stucchevole né gratuita. Disillusione senza rassegnazione, né cinismo.

Voto: 26/30
 

 


Report #2
Torino, 12:11:2006
 

Squarci di Piero Bargellini…
Un cineasta cosiddetto underground, una vita intensa, inseguendo un’idea di cinema come visione, come lo sbocciare di una dimensione d’alterazione della pupilla, affiorare di rivelazioni entro la sincope dei salti, interruzioni di senso, uno che cercava un cinema nel raggio d’azione del corpo e della memoria esplorando le combinatorie di possibilità aperte da un “misero” 8 mm, oppure un 16 mm; ed i corpi di questi suoi film lacerati: feriti ai limiti dell’intellegibile da decomposizioni chimiche, lacerazioni del corpo pellicolare, sovraesposizioni, e tutte le altre torture che l’esperimento inseguiva, hanno il sapore, oggi, di una presenza attuale, di una testimonianza affiorata dal sonno, dalla sabbia di un oblio che tutti ancora conosciamo. Ricordi dal futuro.
 


Dopo aver visto Dante no es únicamente severo… di Joaquín Jordá, Jacinto Esteva Grewe.

Un film che è stato collocato all’epicentro di una nuova generazione di cineasti catalani. Come è stato detto nel corso della presentazione della retrospettiva (c’è tanfo di necrologio a Torino) Jordá è un tassello importante per la conoscenza del cinema europeo moderno e contemporaneo. E dopo aver visto Dante ne sono pienamente convinto: film basato sul concetto della divagazione, alla Godard, di cui recupera, rasentando a volte l’orbita epigonale, tic e stilemi, ma soprattutto i materiali significanti; attori “giusti”, movimenti di camera “a pendolo”, disponibilità a rompere la trasparenza narrativa, attitudine a rompere la disposizione dell’inquadratura, autocitazione, etc…
Cosa avviene? Ci sono un uomo ed una donna (tra cui Enrique Irazoqui che girerà poi il Vangelo di Pasolini) che mettono in scena un discorso amoroso che non conduce da nessuna parte, avvitandosi a spirale. Il vero protagonista è la regia: assoluta, dittatoriale. Il film termina con un’operazione chirurgica diretta all’occhio di una bellissima modella (che imbocca retrospettivamente il senso di diverse violente immissioni dell’immagine di un occhio operato).
Metafora fin troppo scoperta. Ma allora scoperta. Rimbaud, cito a memoria, chiedo venia: “ho preso la bellezza sulle ginocchia, e l’ho ingiuriata”…

 

 

 

PAVILION SANSHO-UO

di Tominaga Masanori

Giappone 2006, 98'

In Concorso


Kinjiro è una salamandra di più di 150 anni: il suo "debutto in società" lo fece, giovanissima, in una delle esposizioni universali del secolo XIX. Una danarosa fondazione è da decenni preposta alla sua salvaguardia. Tobishima è un giovane radiologo incaricato dalla mafia di scoprire l'autenticità della salamandra. Ma si innamora della figlia della titolare della fondazione.
Ma c'è qualcosa di più strano di questa trama, ed è l'approccio stilistico del film. Non certo perché Pavilion sansho-uo sia una delle mille scatenate bizzarrie camp giapponesi pieni di trovate stilistiche sopra le righe cui siamo ormai abituati. No: Pavilion sansho-uo comincia con toni posatissimi e addirittura seriosi, e tra madri finte e padri che non ci sono cominciamo a figurarci un affresco iperletterario che stia per intrecciare un kammerspiel famigliare a metafore anfibie (la salamandra...) sul cosmo, borioso e pesante.
Poi però le incrinature verso la commedia si moltiplicano, e la regia, piuttosto funzionale con i suoi lenti movimenti di macchina di calibrata funzionalità, accoglie mille fessure e altrettante aperture verso l'assurdo. Il bello però è che il tono mantiene lo stesso la sua solidità impassibile ed evita sempre accuratamente di sbracare nel grottesco. Anche quando a metà film senza alcuna ragione il protagonista vende tutto e pur di aiutare la ragazzina di cui è innamorato si atteggia a reincarnazione di Salvatore Giuliano, con tanto di picciotti con coppola e lupara, Tominaga "ne prende atto" e fa continuare il film come quasi niente fosse.
Insomma, Tominaga è bravo (fino al leziosismo) a condurci in una discesa nell'irreale che non potrebbe essere meno traumatica, anzi pressoché impercettibile. Abbiamo così una compunta voce over che dopo aver fatto finta di condurci nelle intricate spire della storia scantona tranquillamente nel delirio, e in flashback e forward improvvisi, per poi farsi da parte nell'istante seguente. Come la colonna sonora, che frequentemente da un secondo all'altro si interrompe bruscamente e inaspettatamente, il film si fa apprezzare perché è fatto tutto da scuciture del tessuto che si rimarginano istantaneamente, e riesce così ad essere stralunato senza averne nemmeno l'aria.

Voto: 26/30

 


MANORO

di Brillante Mendoza

Filippine 2006, 75'

In Concorso


Jonalyn è una ragazzina che insegna agli abitanti di sperduti villaggi filippini a scrivere. Un compito particolarmente importante in vista delle elezioni presidenziali, in occasione delle quali tenta di raggiungere (insieme al padre) il nonno, che abita piuttosto lontano, per far sì che anche lui possa votare. Ma il nonno preferisce andare a caccia di cinghiali.
Manoro è un esempio di particolare "felicità" d'uso della telecamerina digitale, usata con notevole versatilità espressiva per rendere il meno "legnosa" possibile la sovrapposizione di fiction e documentario. Sovrapposizione inevitabile in casi come questo, in cui gran parte delle intenzioni e della credibilità del progetto si reggono sull'affidabilità documentaria del resoconto sull'ambiente in questione. E in questo senso funziona piuttosto bene, il contesto "rural-forestale" dell'entroterra filippino è dipinto con un'efficacia e un'immediatezza di tutto rispetto.
L'azione e la descrizione del contesto sono intrecciate strette fino a frantumarsi a vicenda, e i limiti angusti della "singola scena" o sequenza debordano verso un accumulo annaspante di dettagli strappati all'una e all'altra.
Una caoticità ricercata che però non è incoerenza e non sacrifica la leggibilità che viene ad assumere l'insieme come il singolo dettaglio. L'articolazione dei dati raccolti dalla telecamera, poi, lascia sufficientemente aperto il dissidio tra "ruvidità" ingovernabile dell'oggetto in questione (un intero mondo sociale "sommerso") e rielaborazione linguistica: basti pensare alla lunga parentesi centrale in cui Jonalyn e il padre attraversano a piedi (spesso a piedi nudi) la foresta, una pausa narrativa (non succede nulla, solo una lunga marcia) integralmente votata alla difficoltà delle condizioni in cui si trovano i due. Proprio come Jonalyn, Manoro rincorre un'alfabetizzazione del reale perdente in partenza, ma non inutile. Lo sguardo esibisce la propria difficoltà a farsi strada in un ambiente concretissimo, compatto e sovrastante, che ha sempre l'ultima parola. Ma non per questo si arrende.

Voto: 26/30

 

 


Report #3
Torino, 12:11:2006

Circo Togni Home Movies
La pelle incespata di uno strano rettile. Delle mani cruente lo stanno scorticando. Forse. Oppure è avvolto ad una bobina che lo srotola. Le squame iridate. Oppure la superficie di un essere marino primordiale, dal guscio affiltto di mucillagini ed incrostazioni corrosive. Disorientamento. Poi sovviene la musica, si stacca dal silenzio con un rombo sordo che si ripercuote e rimbomba entro i gradi più liminari della gamma auditiva, mimando quella forma informe: la sussume. E’ come un indovinello senza chiave. Finché dall’impossibile cruciverba d’immagini masticate o lacerate esplode qualcosa: denotazione di fauci ferine. La testa animale viene riassorbita dalla scia impetuosa di colori cauterizzati. Tutto finisce, mentre il flusso musicale asseconda e dirige lo sguardo. Compare un uomo, è prestante, è sorridente, è il forzuto di un circo, perché entra senza timore in una gabbia ed impone senza battere ciglio degli esercizi ad una tigre, flette i suoi muscoli. Poi il tendone: un cielo lunare di garza solcato dai corpi nervosi di acrobati che si esercitano al trapezio. Il forzuto, un po’ Douglas Fairbanks, un po’ Valentino, gioca con un bambino, certo suo figlio; nel campo visivo entra una donna, fa l’occhiolino; certo sua moglie. Lo scenario è ben chiaro ora: il Circo, tradotto da una vulgata visiva che ne è l’affidabile terreno comune. Ma questo non è un film comune: è un reperto intimo che pur contiene vertigini, bestie feroci e sorrisi rivolti ad amici, amanti, famigliari. La musica scheletrica cresce, instillando pozzanghere d’echi spettrali in cui nuota qualcosa, un tormento ossessivo, che sfocia in un geyser di white noise, sale, germina inseguendo le immagini. Compare una scritta: “Circo Togni, Darix”. La vita nei carrozzoni si snoda per percorsi di orizzonti lontani, compaiono strade e piazze affollate in città straniere. Darix accoglie una processione di gente all’interno del suo circo. Nel frattempo un weekend di surreale “normalità” con i pachidermi che fanno il bagno mentre la mamma si rosola al sole. Vedo la routine, i tirocini degli acrobati, dei giocolieri, un viaggio in aereo, un viaggio in nave, un elefante imbracato che viene calato dall’alto mentre scalcia. Infine la lunga traversata delle montagne (le Alpi?) di un intero caravanserraglio (mi viene spiegato all’orecchio che si tratta di una strategia pubblicitaria: emulare l’impresa di Annibale ripercorrendone il tragitto). Tornano le luci che spazzano via quei volti eroici già così dolcemente famigliari. Seconda parte della proiezione: un “carosello” ambientato in un circo dove un ispettore da operetta dà la caccia all’assassino della trapezista e rapidamente smaschera il clown “Bongo” che aveva svuotato del mercurio giroscopico l’asta della suddetta trapezista. Infine l’ispettore tenta istericamente di venderci della brillantina. I Togni ne conservavano copia per farci su quattro risate. Non ne avevano bisogno, comunque, di risate; conducevano già una vita più che magnifica….

L’associazione di Bologna "Home Movies" gestisce e cura l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia, avamposto etico dedicato alla salvaguardia e alla valorizzazione dei filmati famigliari, diari visivi ed altre realizzazioni intime, come possibile fonte futura di preziose testimonianze storica. Un giorno i gestori vengono contattati dalla leggendaria famiglia circense dei Togni. Dentro un carrozzone, esposto ad ogni intemperie, giace scempiato, forse in maniera irrimediabile, il patrimonio degli 8mm di famiglia. In collaborazione con il laboratorio di restauro “La camera ottica” dell’Università di Udine nasce il progetto di recuperare le pellicole superstiti, dal contenuto di sicuro interesse. L’impresa riesce e viene quindi deciso di mostrare un ri-montaggio dei film recuperati nella sezione “Latitudini” del Festival di Torino con l’accompagnamento di una sonorizzazione estemporanea di Stefano Pilia.
Il risultato è un’ibridazione notevole, incontro “aurale” sospeso tra immagini che contengono squarci di rara bellezza e l’esecuzione, irripetibile ed ispirata, di Pilia.

 

 

 

Altre visioni

di Marco GROSOLI

 

 

ELEGY OF LIFE

di Aleksander Sokurov

Russia, 2006, 110'

Detours


Ci troviamo davvero davanti a un cosiddetto "documentario"? Ha ancora senso una classificazione del genere, se mai ne ha avuta una? Questo film potrebbe chiamarsi non meno appropriatamente "argilla" o "respiro" o "acqua"... viene in mente anzi che in svedese "film" si dice "Bio", "vita", e pochi film come questi meriterebbero un nome così sublimemente ambiguo.
Sokurov ci racconta il leggendario musicista Rostropovich e l'altrettanto leggendaria moglie, Galina Vishnevskaya, cantante lirica. Li intervista, li filma, commenta come al solito con la sua voce inconfondibile, divaga, si ritaglia licenze poetiche inaudite.
Non si riesce però a dire che compia un "ritratto" della grande coppia, perché Elegy of life è un canto liberissimo e straziante su ciò che eccede la forma, e in quanto tale "scioglie" la propria stessa forma in un'eterogeneità fluida e avvolgente di materiali e di ipotesi affabulatorie: se ritratto è, non lo è di un oggetto ma di quell'invisibile che fluttua intorno all'oggetto, imprendibile. Quell'invisibile che la Vishnevskaya stessa dice cuore e obiettivo di ogni efficacia musicale. Disciplina e rigore, rigore e disciplina: questi (come spesso insiste Sokurov) i pilastri della grandezza dei due musicisti - ma la cinepresa si focalizza più ancora che sulla eccezionale padronanza tecnica dei due sull'eccesso espressivo naturale, fisiologico che le loro figure umane incarnano proprio grazie al dominio sovrano sulla tecnica ("Un russo è troppo di tutto" dice la Vishnevskaya). Non la forma, di cui Rostropovich e consorte sono i Re, ma ciò che la eccede: ovvero loro stessi in quanto uomini di carne e sangue, il loro misterioso abitare il terreno incollocabile della "vita", irriducibile a ogni forma. è ciò che una volta si chiamava "aura" (nel senso di Benjamin), e che ora, persa ogni pretesa di valore differenziale, consiste in quel misterioso dispendio fisico oltre la forma, che Sokurov sa catturare nel gigioneggiare scoordinato di Rostropovich mentre suona un carillon (e va fuori tempo!) o mentre improvvisa una danza folle in un ricevimento di lusso, quando la moglie racconta con un misto sconvolgente di partecipazione e glacialità della morte del figlio, in due occhi amletici che ci guardano da una foto, in un'improvvisa scena di tenerezza tra i due anziani nella serata in loro onore in presenza del "bel mondo" di metà del pianeta. Il film, per Sokurov, non è pellicola, ma una specie di vapore che emana dalle forme catturate dalla cinepresa. E infatti è innanzitutto Elegy of life come film a dissolversi, perché si lascia sbandare tra un vorticoso montaggio alternato dei due musicisti ognuno intento al proprio strumento, un'incursione enigmatica nei materiali di repertorio (un film girato dalla Vishnevskaya decenni fa, che custodirebbe tra le pieghe delle sua recitazione la sostanza stessa del suo essere), una curiosa ispezione degli oggetti della loro (incredibile) casa, e mille altre schegge che si richiamano l'un l'altra. E si richiamano, si badi, non per costruire un ritratto, ma per sciogliersi, insieme all'oggetto che si "finge" di ritrarre, in quell'unico impalpabile transito verso l'invisibile che è la vita.

Voto: 30/30

 

 

LE TOMBEAU D'ALEXANDRE

di Chris Marker

Francia, 1993, 120'
Proiezione Speciale

 

 

Uno dei più begli omaggi a un cineasta mai fatti. Marker (insuperabile in questo tipo di operazioni: si ricordi il suo straziante documentario su Tarkovskij) finge di scrivere una serie di lettere al cineasta russo Aleksander Medvedkin, morto quattro anni prima nell'anno chiave 1989, la tomba dell'utopia sovietica. Tutto si regge su un geniale parallelismo tra la vita del cineasta e la storia russa del '900: Marker inanella un complesso intreccio di cinema, biografia e storia, conducendoci per mano in un territorio che non è nessuna di queste categorie, ma è puro linguaggio, un regno inabitabile dell'astrazione che attraverso una serie di corrispondenze perverse pare determinare le sorti di tutto, tirando le redini da chissà quale cielo inattingibile. Tant'è che, in un presente come quello russo immediatamente successivo alla Perestroijka, dove la Terra coincide con l'inferno delle code per il pane che non c'è, lo squarcio di speranza è dato da un atto reale di linguaggio, ovvero da un film: quel La felicità che è il capolavoro di Medvedkin e che è una diretta emanazione di quel fervore rivoluzionario (data pochi anni dopo il "mitico" 1917), sincero e di schiettissima buona fede, che è sempre stato il segno distintivo del carattere del cineasta sovietico. L'utopia muore ma il linguaggio resta.
La felicità è dunque il dispiegarsi esplosivo del momento utopico (la Rivoluzione) in forma di film, di scintilla miracolosa che fa incontrare il linguaggio e il reale, e a cui segrete corrispondenze (rintracciare le quali è il grande genio di Marker) obbligheranno a ritornare ogniqualvolta la pretesa di realismo cozzerà violentemente con la finzione che è la società (Medvedkin stesso che pochi anni dopo La felicità va in giro per la Russia su un treno a documentare il reale e si scontra con il lato oscuro dell'utopia socialista) o quando il sogno della finzione si scontra con il grigio pragmatismo dei burocrati (ancora Medvedkin che in seguito gira commedie geniali bocciate dalla censura). Quel trattore inceppato e poi miracolosamente aggiustato dall'onnipotenza staliniana, topos di moltissimi film di propaganda dell'era Stalin, viene ritrovato "a posteriori" proprio in La felicità decenni prima con una funzione diametralmente opposta: l'immensa suggestione di Le tombeau d'Alexandre sta proprio nel saper tracciare di continuo corrispondenze come queste, che ci fanno intravedere la consustanzialità misteriosamente linguistica di storia, cinema e vita. La storia come sviluppo inevitabilmente imperfetto di un'esplosione utopica che nella sua raggiante perfezione entusiasta ha già tutto dentro di sé, proprio come La felicità è condannato come film a contenere tutta l'ansimante opera successiva del proprio autore. Epifania improvvisa e conchiusa in sé di ciò che il futuro non può che condannare a forme dialettiche e conflittuali. Ma è proprio questa epifania a rimanere testimonianza per i posteri: La felicità è ancora pronto a dispiegarsi davanti ai nostri occhi disillusi.
Voto: 30/30 e lode

 


BLED NUMBER ONE

di Rabah Ameur-Zaimeche

Algeria, 2006, 97'

In Concorso


Kamel è un giovane algerino che dopo un periodo di permanenza in Francia torna in patria. Non tarderà a scontrarsi con un retroterra fondamentalista pericoloso, ma anche con chi si oppone apertamente ai fondamentalisti pur tenendosi ambiguamente legato alla tradizione. E' il caso del suo amico di infanzia e dirimpettaio che massacra di botte la sorella perché si è fatta lasciare dal marito.
Ne esce un quadro di sconsolata rassegnazione, un senso di impotenza che viene fatto scorrere su languide cadenze blues. L'ostentata lentezza e la rigida lontananza dell'azione fanno da cornice a un cupissimo, irreversibile scivolare nella marginalità. Una amarissima presa di coscienza che il territorio (al centro della preoccupazioni formali del regista, attentissimo alla flagranza del set) è il teatro di un'inafferrabile condanna, anche quando si crede di sentirsi a casa. La calorosa (per quanto agghiacciante) ritualità della mattanza, e i simili frequenti momenti forti di appartenenza collettiva, finiscono per lasciare il posto a un misterioso occidentale che suona una mestissima chitarra in campo lungo in riva a un lago, al canto disperato degli ospiti del manicomio in cui viene rinchiusa la ragazza abbandonata dal marito. Un senso paralizzante di orfananza, resto piuttosto bene dal dipanarsi delle scene, anodino e incurante della sintesi, e dal tangibilissimo disagio della cinepresa, che pare "temere" la centralità fisica dell'azione e sembra costretta a ripiegare sulla discrasia spaziale e visiva tra l'azione e l'ambiente.
Voto: 27/30

 


BIG BANG LOVE, JUVENILE A

di Miike Takashi

Giappone, 2006, 85'

Fuori Concorso

 


L'amore tra i due giovani detenuti Jun e Shiro continua anche quando quest'ultimo muore, forse ucciso proprio dall'amante. Già, perché in carcere il tempo non esiste. È un luogo senza futuro popolato da gente il cui passato è una strada sbarrata che porta al vicolo cieco del presente. La vita, per loro (solo per loro? Il sinistro e disilluso direttore del carcere non parrebbe di questo avviso), non è una linea retta da percorrere, ma una successione inerte di istanti pesanti e sempre uguali, senza scampo.
Miike lo capisce alla perfezione e si inventa un linguaggio visivo scrupolosamente ad hoc: l'assenza (“carceraria”) del tempo corrisponde all'assenza dello spazio. Il buio domina completamente lo scena, interrotto solo da sporadiche chiazze di luce; in questo modo non sembrano esserci “stanze” a contenere i personaggi, e similmente la macchina da presa anziché tessere relazioni tra gli elementi compresenti nello spazio affastella “vedute” (spesso in dettaglio) prese liberamente da punti di vista radicalmente divergenti tra loro. La claustrofobia del prison-movie viene stravolta in uno spazio tutto mentale e astratto, bucherellato in continuazione da inserti onirici, squarci simbolici e parentesi sul “mondo normale” su cui pare gravare la medesima condanna alla monotonia del carcere. L'indagine dei due poliziotti sulla morte di Shiro perde la sua dinamica cadenza lineare (grazie soprattutto alla frequente sostituzione delle loro domande mediante didascalie in sovrimpressione) in favore di una lenta e ieratica staticità che informa il'umore generale del film. Non un giallo, che esige un inizio e una conclusione, ma una litania senza fine né principio di “diapositive” che cantano il dolore di un mondo per sempre chiuso nella propria irrealizzabilità.
Non potrebbe essere altrimenti: l'amore folle tra Jun e Shiro si configura da subito come troppo eterno, troppo assoluto per una consumabilità terrena (che non ci viene mostrata), troppo al di là della vita e della morte, troppo fuori dal mondo per essere “veramente” accaduto. Non rimane che evocarlo sulle corde dell'irreale, con una partitura visiva e scenografica debitrice di Fassbinder e del Suzuki anni '80 (e non solo), così come a Jun non rimane, una volta trovato il cadavere dell'amico che si è ammazzato senza avergli detto nulla, che far finta di strozzarlo.
Voto: 29/30
 

 

HONOR DE CAVALLERIA

di Albert Serra

Spagna, 2006, 102'

In Concorso

 


Una delle trasposizioni cinematografiche del “Don Chisciotte” più intelligenti che si ricordino. Il prode cavaliere anacronistico e il suo scudiero immersi nel paesaggio – anzi, “anneganti” nella natura a dispetto delle loro manie di grandezza. Il naufragare della trascendenza, insuperabilmente consegnato ai secoli da Cervantes, è ripreso da Serra con straordinaria sensibilità di messa in scena: il suo digitale, che non ha paura delle lungaggini ma non cede ad alcuna autoindulgente facezia “autoriale”, è tutto rivolto verso il rapporto irrisolto tra i personaggi e l'ambiente naturale. Il loro vagare imbelle è la resa di fronte a una natura che si continua a non conoscere, il segno di un'alienazione radicale dentro il mondo stesso.
La trama, perciò, si disgrega, e lascia spazio a sequenze avulse e sparse che sono altrettante ipotesi di fraseggio formale sullo sfondo dell'inazione. L'indugiare ossessivo sui tempi morti, sull'assenza totale di “cose da fare”, sfuma in accenni di scrittura filmica che la macchina da presa sembra vergare con l'inchiostro simpatico, consapevole che nel giro di pochi istanti scompariranno. Inghiottiti da un nulla afasico vicinissimo a Beckett, ma con i piedi ben piantati (suo malgrado) nel mondo, accostato senza artifici.
Voto: 29/30
 

 

STORIES FROM THE NORTH

di Uruphong Raksasad

Tailandia, 2005, 87'

In Concorso


Alcune microstorie ambientate in un villaggio rurale tailandese. Due donne anziane in serena attea della morte, un gruppo di religiosi cicloamatori in gita, la raccolta delle messi, un bufalo in fuga...
Siamo più dalle parti della poesia che della prosa. D'altra parte il regista ha collaborato con la stella nascente del cinema d'autore internazionale Apichatpong Weerasethekul. Ma mentre quest'ultimo gira in “versi liberi”, inventandosi una metrica tutta sua per le sue incantevoli sospensioni estatiche, Raksasad gira sì ugualmente in versi ma si adagia su una metrica più regolare e sincopata, più tradizionalmente musicale. Il discreto lirismo delle sue inquadrature, dei piccoli abissi tra una giunta di montaggio e quella seguente, delle architetture silenziose delle immagini, si conquista un'apprezzabile consistenza grazie anche a un uso assai disciplinato del digitale, che in genere si lascia imbrigliare con una certa difficoltà.
È vero che l'insieme è discontinuo, che accanto a episodi davvero geniali (come quello del musicista che di colpo si sdoppia, o quello felicemente svagato e contemplativo della raccolta delle messi) ce ne sono altri un po' scontati. Però a Raksasad, con il suo minimalismo ambizioso e sereno, va riconosciuto un istinto linguistico e di articolazione tutt'altro che dozzinale.
Voto: 28/30
 

 

PLEASURES OF ORDINARY

di Xia Peng

Cina, 2006, 118'

In Concorso


La regione cinese dello Shanxi e la sua gente, documentata dal giovane (23 anni!) Xia con la sua telecamerina pixellosa. Un montaggio vorticoso frulla i frammenti più disparati della quotidianità dei suoi abitanti. Molte storie e persone vi si intrecciano senza soluzione di continuità, dal gestore di una palestra a un giovane operaio dongiovanni a una madre di famiglia. Tutto viene colto nella sua fuggevolezza: una volta che il frammento (sia esso un'inquadratura singola o una situazione strutturata) acquista sufficiente intellegibilità, si schizza immediatamente via verso qualcos'altro. Le scene stesse, in molti casi, anche se protratte lungamente vengono comunque frantumate da una mobilità estrema di punti di vista, sprezzanti della continuità spaziale come dei raccordi sull'asse. Raramente un'inquadratura “mette a fuoco” l'inquadratura precedente, per esempio con un dettaglio: molto più spesso passa a tutt'altro e basta. Xia procede dunque per veloce coordinazione a scapito della subordinazione.
È ovvio, non si tratta solamente di caoticità scoordinata, di banale accumulo. Sarebbe troppo facile, e insensato. Pleasures of ordinary, invece, dà un senso a questa violenta cacofonia del quotidiano individuando qua e là le emergenze più evidenti di questo caos, che in questo modo viene riconosciuto, denominato, circoscritto, vagliato criticamente. Il periodico ritorno, nel film, alle riprese della preparazione del corteo musicale, con il relativo trambusto di percussioni e grida, è una chiara metafora in questo senso. Così come lo è l'indugio sui monologhi deliranti di un barbone ex ladro di biciclette, la cui vita incredibile catapultata di continuo dalle stelle alle stalle si cristallizza alla perfezione nella natura incontrollabilmente ondivaga della sua affabulazione.
Niente naturalismo ingenuamente descrittivo: tutto è perenne contrasto, la stabilità è un miraggio, la contraddizione pulsa nelle vene di ogni singolo istante. Questa la sentenza dagli echi metafisici che pare trasparire dall'intelligente intelaiatura di Xia Peng. Un sospetto che diviene conferma nella parte finale, tutta costruita su un impietoso montaggio parallelo tra “le magnifiche sorti e progressive” evocate dalle icone maoiste, e la triste condizione di un poverissimo anziano reduce dalla guerra di Corea.
Voto: 27/30
 

 

DIES D'AGOST

di Marc Recha

Spagna, 2006, 93'

Fuori Concorso

 

 

Marc riceve la proposta del fratello David di partire per un viaggio, per rilassarsi un po' dalle stressanti ricerche sull'amico morto Ramon che ossessionano Marc da un po' di tempo. Ma a un certo punto sarà Marc stesso a sparire.
Deludente prova di un cineasta (catalano) di grande talento, Dies d'agost vorrebbe evocare la mancanza, la perdita, ma sceglie una strada troppo semplicistica. Tutta la vicenda è condotta innanzi da un'onnipresente voce over femminile, che si staglia su inquadrature fisse (scarsi sono i movimenti di macchina) del paesaggio (oggetto di una attenta ricerca figurativa), spesso vuote. Il guaio è che questo incessante succedersi di “Polaroid in movimento” è troppo meccanico e rigido per sortire gli effetti auspicati: il paesaggio, da solo, non basta. Ed è un peccato, perché l'intreccio, sapientemente costruito su un complesso gioco di riverberi tra personaggi vicini e lontani, scomparsi e presenti, meritava ben altra profondità.
L'amaro in bocca cresce, poi, se si ripensa a Pau i seu germa, film di Recha del 2001 parte della retrospettiva torinese a Joaquin Jorda. Un film in cui l'evocazione del vuoto non era affidata a un'eterea voce over, ma ci gettava insieme ai personaggi in una inquietante sospensione, dove la macchina da presa mobilissima ma di grande discrezione materializzava il disagio di una presenza (dei corpi, dei paesaggi, tutti “marcati stretti” dalla regia) malferma, imprendibile, pronta in ogni momento a slittare verso l'assenza. Tant'è che il ragazzo morto, intorno a cui si organizzano le vicende dei parenti attoniti, ogni tanto era libero di materializzarsi in profondità di campo in fondo all'inquadratura come se niente fosse, con la naturalezza più totale. Un film di contemplazione non frontale (come in Dies d'agost) ma liquida, fluttuante, vibrante.
Voto: 25/30
 

 

SCREAM OF THE ANTS

di Mohsen Makhmalbaf

India/Francia, 91'

Fuori Concorso


Una coppia iraniana, lui ateo ex comunista e lei vagamente credente (nel senso più ingenuamente e genericamente new age del termine) vanno in India: ovviamente è lei che trascina lui, in cerca di un imprecisato santone chiamato “l'uomo completo”.
Makhmalbaf al suo meglio. La sua ormai inconfondibile vena formalista di cura dell'inquadratura, dei suoi colori e del suo tratteggio netto e preciso, si sposa alla perfezione con l'occhio virgineamente documentario. Trova con questo film la quadratura rosselliniana (non a caso è ambientato in India...) del cerchio che abbraccia l'osservazione della realtà e la sua riformulazione estetizzante. Lo sguardo è lo strabismo di due occhi votati l'uno alla passività documentaria, l'altro al formalismo immediato. È appunto la lezione di Rossellini, che riecheggia ad esempio nel felice andirivieni tra i tentativi smaccatamente pittorici di Makhmalbaf e l'osservazione attonita degli slum metropolitani indiani, come nell'energia didascalica che si nutre del contatto diretto con il reale (non è un film verboso, ma apertamente e schiettamente affabulatorio).
La stessa lezione ce la dice a inizio film il grandioso personaggio del “santone proprio malgrado”. È un vecchio semistorpio che si dice sia capace di fermare i treni con lo sguardo. Il treno che porta i due protagonisti, appunto, se lo trova davanti e si ferma. I due scendono e annacquano il proprio entusiasmo apprendendo dal vecchio che lui tempo fa stava lì per caso quando un treno lì davanti si è fermato: tutta la gente ha gridato al miracolo e per lui si è perciò reso impossibile alzarsi da quel punto sui binari, era insomma diventato un'autorità magico-religiosa solamente a furor di popolo. Ergo: quel “trascendente” che sarebbe la “finzione” non è che “realtà” sotto una specie diversa rispetto a quella che accorderemmo al termine “realtà” (che dunque diventa in un certo senso finzione essa stessa). La “bella immagine” makhmalbafiana, ugualmente, è talmente scoperta nella sua ruvida, semplice, artigianale artificiosità da non poter essere che una specie differente di “documentario”. Per questo la fede e lo scetticismo sono intimamente legati, e il proliferare spirituale dei mille dei dell'India è possibile solo sullo sfondo ultramacabro del rogo incessante dei cadaveri sulle rive del fiume sacro.
Per salvarsi da questo inferno di contraddizioni non rimane, come dice il messaggio finale dell'Uomo Completo letto dalla protagonista, che l'istante presente. Un presente che però non è afferrabile in sé (altra ragione, fra l'altro, per la quale dietro al documentario si nasconde la finzione), come dimostra la scena iniziale in cui i bambini vanamente cercano di delimitare con dei sassi l'ombra di un ombrellone inevitabilmente destinata a spostarsi. E ancora: l'Uomo Completo non può venire inquadrato dalla macchina da presa, che può solo “documentare” lo sguardo dei due protagonisti nell'atto di tributare “fittiziamente” un qualche plusvalore trascendente a chi gli sta davanti, che poi è quello stesso uomo che nella scena precedente si era messo casualmente a parlare con loro per strada, regolarmente inquadrato. È lui il santone: l'uomo ordinario – come dice il fotografo che i due incontrano sul treno, la vita è fatta integralmente di miracoli, dunque è vano andarli a cercare.
Voto: 30/30
 

 

ACCOLTELLATI

di Tonino de Bernardi

Italia, 2006, 85'

Detours

 

 

Da anni ormai, il cinema di De Bernardi è un flusso unico le cui singole tappe si differenziano per piccoli spostamenti, ma rimane comunque un solo e compatto movimento vitale.
La camera in perenne movimento che gira intorno a corpi, situazioni, luoghi (spesso familiari) presi nella loro compattezza ma restituiti a una concretissima mistica dell'esistente, nella loro immediata e opaca efficacia. Anche qui, il “canovaccio” esilissimo è quello degli “accoltellamenti” in cui varie persone sono a turno coinvolte: le minime variazioni di postura e esecuzione sostengono quel soffio vitale in movimento che le abbraccia tutte, abbraccia persino le concrezioni metaforiche che ogni tanto fanno capolino, come il racconto dolente dei due anziani coniugi “accoltellati” da una prassi economica e professionale infame.
Il cinema di De Bernardi è preso integralmente nel filmare come atto più che come funzionalità espressiva. Non ha “qualcosa da dire”, ma è un movimento di avvicinamento infinito e inesauribile verso il mondo che incontra la ripetizione, si scontra con essa e prova, in un impeto vitale che non cessa di nutrirsi di se stesso, a scavalcarla, a vincerla. E ci riesce: anni di film sempre uguali su situazioni ossessivamente ripetute, di camminate interminabili, di sguardi fissi nel vuoto, di sprazzi di quotidianità, di musical improvvisati a squarciagola, col tempo (ma soprattutto con lo spazio generosamente attraversato senza posa) hanno costruito un corpus unitario capace di farci toccare con mano l'energia automatica del cinema, la sostanza più inafferrabile e vitale nascosta nel semplicissimo gesto di filmare, di incontrare il mondo.
Voto: 26/30
 

 

OBLIVION

di Stephen Dwoskin

Gran Bretagna, 2005, 78

Detours


Dwoskin è da decenni un'istituzione del cinema indipendente underground. Con quest'ultimo Oblivion si confronta con "Le Con d'Irène" di Aragon e con la sua limacciosa storia di impotenza maschile verso un femminile che non si riesce a dimenticare.
Ovviamente, il piano di convergenza tra i due testi non è quello narrativo. Dwoskin cerca di tradurre le suggestioni del romanzo in modo prettamente sensoriale, evocativo. Sonoro asincrono e composto da imprecisati suoni cavernosi. Immagini ravvicinate di occhi, facce, pelli, sessi – fino a sfiorarne la cute e a vederne i singoli pori. Stanze, angoli vuoti, spazi celibi, luminosità lattiginose e invadenti. La distanza, come principio di individuazione e distinzione tra gli oggetti, crolla – a tutto vantaggio di una sensorialità distorta e angosciata, descritta sinesteticamente da Dwoskin con la ricorrente inquadratura di una lampadina che si accende e la cui luce invade totalmente l'inquadratura, accecandola. Il ritmo catatonico, i movimenti al rallentatore, fanno dei lembi di carne, dei rossetti e dei sospiri che si accavallano nel film una “pornografia degli angeli” (come diceva Borges), una sensorialità che “sfonda” e oltrepassa il proprio oggetto fino a diventare astratta e incorporea. Come quando ci si avvicina a un oggetto così tanto da non vederlo più; la materia “corteggiata” della macchina da presa così tanto da sbriciolarla sotto ai nostri occhi.
Voto: 26/30
 

 

PRO-LIFE

di John Carpenter

USA, 2006, 60'

Americana

 


Un padre integralista cattolico assedia la clinica in cui la figlia sta provando ad abortire. Peccato che il pargolo non sia precisamente ciò che ci si aspettava... bensì, il figlio del Demonio in persona.

Straordinario apologo politico e morale di John Carpenter, che ritorna su livelli eccezionali. Come nelle sue opere più celebri (Distretto 13) lavora su coordinate semplici come dentro-fuori (l'assedio), noi-loro, vita-morte, solo per poter meglio cancellare il confine con un colpo di spugna (cfr. La cosa). Chiarissimo il dispiego di linee e vettori: il discrimine orizzontale tra dentro e fuori la clinica è vanificato dal “di sotto” verticale da cui spunta il diavolo a ingravidare la fanciulla e riprendersi il pargolo demoniaco, e la resa spaziale pratica di queste coordinate è condotta con un senso dell'azione classica impeccabile, con un'alternanza perfetta tra i segmenti implicati (tra le varie “fazioni” che si fronteggiano asserragliate nella propria porzione del campo di battaglia).
Come ogni apologo veramente politico, è tutto un arrovellarsi di paradossi: la cristallina trasparenza della regia serve precisamente a sconfessare la “naturalità” di ciò che si spaccia per “naturale” (e dunque “baciato dal cielo”) come la gravidanza – che è invece un atto simbolico, sociale, mediato. Il sangue stesso, come è evidente dai brutalissimi e iperrealistici omicidi del piantone al cancello o del padre di famiglia a metà del plot, è rappresentato con un'estraneità tale da convocare l'effetto speciale. L'umano si ribalta nel suo contrario (e dunque diventa vano parlare di “peccato contronatura”), come risulta anche dall'insostenibile montaggio alternato tra le doglie della ragazza e il dolore del medico cui il padre pazzo applica i ferri del mestiere di abortista, divaricatori aspiratori eccetera. Caduto lo specchietto per le allodole della “natura”, del maggiore o minore “rispetto per la vita” di una posizione o di quella contraria, il discrimine morale della questione diviene così irrimediabilmente problematico e allergico alle semplificazioni di comodo: a un moralista rigoroso come Carpenter non si poteva chiedere di meglio.

Non si poteva chiedere di meglio che sbatterci in faccia questo interrogativo privo di risposta: “dov'è la vita?”.
Voto: 30/30

 

 

DIRECTED BY

di Peter Bogdanovich

USA, 1971-2006, 108'

Americana

 


Tutte le volte che si dice che John Ford è uno dei maggiori cineasti di ogni tempo si esita, si dubita: che non sia invece piuttosto IL cineasta se ce n'è uno, il Maestro Assoluto.
Questo documentario amplia un documentario di più di trent'anni fa dello stesso Bogdanovich sul Magnifico Irlandese. C'e dentro una leggendaria intervista al cineasta e una nutrita serie di interviste a collaboratori (John Wayne, Henry Fonda, James Stewart...) e a “non semplici” estimatori, cioè per esempio a cineastri della New Hollywood (Eastwood, Walter Hill, Spielberg, Scorsese, lo stesso Bogdanovich) che hanno fatto tesoro dei capolavori fordiani.
Non è che queste nuove voci aggiungano granché all'originale, senza contare che l'inguaribile accademismo di Bogdanovich raramente si discosta da un'esposizione di stampo diligentemente “manualistica”: per cui Ford rimane quello dei tramonti e delle scene rituali, del circolo fisso di attori gestiti con la solita straordinaria disinvoltura plastica di direzione, eccetera eccetera. Certo, per chi non conosca l'esaltante ed insostituibile cinema fordiano, “Directed by” può essere uno strumento di avvicinamento più che degno. Però Bogdanovich con tutta la sua dediziosa “Aufklaerung” scolastica nulla contro può l'esplosiva potenza di alcuni singoli momenti aneddotici, che da soli racchiudono TUTTO il mondo del Maestro. Ci riferiamo, certo, ovviamente all'intervista a Ford stesso, il quale con meraviglioso candore e immediatezza riustica d'altri tempi era capace di guardare la camera dritto davanti a sé, con la Monument Valley (teatro di mille suoi capolavori) alle spalle, e rispondere a un giovane Bogdanovich che chiedeva “Ma come ha girato il tale film?”: “Con la cinepresa”.
Ma ci riferiamo anche a istanti come l'impagabile aneddoto di cui ci fa partecipi Steven Spielberg, che quindicenne riesce a conquistare un'udienza nell'ufficio del Maestro per alcuni consigli su come diventare regista. E lui si alza, gli fa vedere dei quadri alla parete ritraenti classiche scene western (del celebre pittore Remington, specializzato in scene del genere) e gli dice: “Cosa vedi lì dentro?”. “Mah, cavalli, uomini, montagne...” “No, no, no. Che cos'è QUESTO?” “L'orizzonte” “Bravo. E dove sta?” “In basso” “Bene. E in questo quadro?” “In alto” “Ottimo. Ricordati: quando ti verrà naturale mettere l'orizzonte non al centro dell'inquadratura, ma un po' troppo in alto o un po' troppo in basso, allora sei sulla buona strada per diventare davvero un regista”. A buon intenditor, poche parole.
Voto: 26/30

 

 

FLAGS OF OUR FATHERS

di Clint Eastwood

USA, 132'

Fuori Concorso

 


Niente battaglia di Iwo Jima, a dispetto del battage mediatico. A parte alcuni brandelli confusi e una serie di flashback dolorosi in cui i soldati una volta tornati in patria rivedono i compagni morire sul campo. Il centro del film è invece la celeberrima fotografia dei soldati che piantano la bandiera a stella a strisce, simbolo di una guerra, di una civiltà trionfante, immagine che è risultata cruciale per risollevare gli animi a pezzi del popolo americano. Un'immagine che ha risollevato un Paese e che ha dunque cambiato il mondo. Un'immagine che il figlio di uno dei soldati ritratti, che NON sono quelli che davvero hanno messo la bandiera, è risoluto ad indagare attraverso le testimonianze dei superstiti e dei loro correlati.
Quello che preme a Eastwood è indubbiamente girare un suo remake de L'uomo che uccise Liberty Valance di John Ford. “Print the legend”, sentenziava quel film altrettanto incentrato sull'ambiguità storica del Mito, e si chiudeva con una scena che ripeteva da un altro punto di vista una sparatoria vista all'inizio. Flags of our fathers non solo comincia con una leggenda che viene stampata, cioè con la capillare stampa e diffusione dell'immagine fatidica, non solo verso la fine abbiamo la riproposta, da un altro punto di vista, della scena mostrata poco prima in cui uno dei protagonisti incrocia un ex commilitone attraversando in macchina la prateria, ma, come si sa da mesi, è pronto a sdoppiarsi tra poco in un film gemello (Letters from Iwo Jima) che adotta il punto di vista dei Giapponesi.
La sparatoria di Ford è accaduta diversamente da come il Mito l'ha dipinta. La bandiera di Iwo Jima è stata piantata appena 5 giorni dopo l'inizio della battaglia che invece ne sarebbe durati altri 20 e passa (niente simbolo di un trionfo allora), ed è a propria volta la copia di una bandiera issata poco prima nello stesso luogo. All'inizio del film i tre eroi si arrampicano su una montagna tra i fuochi spietati nel cielo... ma una volta arrivati in cima, la macchina da presa svela che non siamo su un campo di battaglia, ma in uno stadio gremito in cui si festeggia con una finzione rituale e con un profluvio di fuochi d'artificio un trionfo immaginario.
Il punto insomma è proprio la continuità scandalosa tra la guerra e la sua immagine, nonostante la loro incompatibilità. Non nel senso mimetico da “soldato Ryan”, non cioè perché la guerra sia davvero restituibile in quanto immagine, ma perché le guerre si vincono anche con le immagini, le battaglie vere si combattono confortati dalla finzione di una bandiera che sventola, e soprattutto diventare un'immagine significa vivere una scissione così radicale che è del tutto analoga alla guerra stessa. L'immagine è strutturalmente una guerra, e la guerra stessa è questione di immagine.
Eastwood filma con suprema abilità il disagio dei tre “finti eroi” in giro per l'America a celebrare ciò che non hanno vissuto, riproducendo la paradossalità del loro punto di vista al centro dei riflettori, “spettatori di se stessi” quanto e più del pubblico pagante che li guarda dagli spalti. Tesse scene dove l'adesione molto classica al punto di vista del personaggio non fa filare il racconto ma lo squarcia appunto nella pluralità dei punti di vista: si veda il doloroso balletto visivo della scena (magistrale e significativa) in cui i tre incontrano per la prima volta il ministro del tesoro. L'immagine stessa è una guerra che ci travolge in prima persona spaccando a metà la nostra coscienza (che non può rassegnarsi ad essere “solo” immagine). La guerra, per eccellenza il culmine al limite del “reale”, come caos di punti di ripresa (i primi flashback del film), e come attonito assistere alla morte altrui (i secondi flashback che compongono il film,o meglio lo bucherellano enunciando tutta la sanguinante ambiguità del racconto in quanto tale, del racconto come categoria antropologica), è dunque agghiacciantemente speculare all'attonito scoprirsi vivi che è l'immagine, cui vengono dati in pasto i tre soldati nella campagna trionfalistica.
Per questo il vecchio ex-soldato sul letto di morte si sentirà dire che è stato un buon padre proprio perché (e non “nonostante”) sia stato ossessionato dall'incapacità del raccontare la guerra: la guerra nella sua proverbiale irrappresentabilità ce la racconta eccome un racconto “reduce di se stesso”, lacunoso e bucherellato. L'impossibilità di raccontare si salda del tutto naturalmente con l'esperienza dell'impossibilità che è la guerra: per questo il racconto, anche se “falso”, è salvo (l'allucinazione dell'ex soldato cui pare di incrociare in macchina il commilitone a piedi è davvero la realtà, è davvero il commilitone, come dimostra l'accennata scena ripetuta da due punti di vista diversi), e con esso la funzione paterna. A noi figli non resta che dare una voce al racconto dei padri che è inevitabilmente paradossale, inevitabilmente leggenda: non resta che visualizzare l'”utopico” bagno in mare tra commilitoni vivi e morti che chiude questo nuovo capolavoro eastwoodiano. Print the legend.

Voto: 30 e lode

 

 

Robert Aldrich

 

L'universo morale di Robert Aldrich è stato preso in analisi già molte volte e sotto tanti punti di vista. Volendo tirare in ballo la psicanalisi, la sua cifra fondamentale sarebbe probabilmente quella dell'isteria. "Isteria, è il nome proprio della posizione di fascino ambivalente esercitato dall'oggetto che ci affascina e ci ripugna", dice Slavoj Zizek. La questione è complessa, ma, semplificando, possiamo rintracciare del tutto agevolmente in Aldrich questa ambivalenza verso l'Autorità, verso il potere costituito, verso la "figura paterna", insenso lato.
"I've written a letter to daddy saying I love you", canta la piccola Baby Jane all'inizio di "Che fine ha fatto Baby Jane": appunto, un attaccamento verso il padre, e quindi verso l'autorità, verso il potere, espresso in modo essenzialmente "mediato" (la lettera), dunque in partenza ambiguo e passibile dei più improvvisi capovolgimenti. Pressoché tutti i film di Aldrich sono costruiti proprio sulla figura del capovolgimento improvviso dei valori: su tutti Grissom Gang, dove (come culmine di tutta una serie di voltafaccia inaspettati) verso la fine la ricca e viziata ragazza rapita dall'imberbe ragazzotto povero di provincia insanamente attaccato alla madre passa improvvisamente dalla parte del rapitore, "ripudiando" idealmente il padre.
Non è a un caso allora che Aldrich raccolga ambiguamente il testimone della Hollywood morente: crollato il suo sistema di valori, Aldrich si rapporta a questa autorità con una esplicita ambivalenza di amore e condanna, continuità e trasgressione. Le regole non sono più il pilastro di un sistema organico, ma quelle di un gioco: in tutti i suoi film, anche quelli non centralmente sportivi come invece sono California dolls o Quella sporca ultima metà c'è il riferimento forte allo sport. E come tali, queste regole sono costituzionalmente fragili e passibili in ogni momento di essere messe in discussione fin dalle proprie fondamenta. Il mondo di Aldrich è fortemente morale proprio perché "istericamente" mette in costante discussione e dubbio la maschera stessa che la moralità viene di volta in volta a incarnare. La morale, in Aldrich, è un fondamento tutto da scoprire in progress e mai dato in partenza.
Si capisce allora l'anima della sua energia registica, quella strana radicalità nell'intessere inquadratura dopo inquadratura, taglio di montaggio dopo taglio di montaggio, relazioni di potere tra personaggi e situazioni visualizzate con un piglio "illuminista" direttamente debitore della Hollywood classica, ma che a differenza di questa ribollono, cambiano pelle ogni secondo, si sostituiscono reciprocamente senza posa, sfuggono a qualunque univocità semplificativa come alla sintetizzabilità nei confini ristretti della scena. L'aldrichiano tessere relazioni di potere tra personaggi è una catena infinita (e non, dunque, finalizzata ai limiti della singola scena come parte di un continuum come nella vecchia Hollywood) in cui c'è sempre un nuovo anello di cui tener conto, sempre pronto a riscrivere l'assiologia morale in corso. Una tessitura alle prese con un eccesso che non si lascia addomesticare nonostante costantemente ci si provi (un'altra perfetta definizione di isteria, peraltro), come è evidente nel sapiente controllatissimo squilibrio tra acting out di recitazione attoriale e spigolosità spietata di regia in L'assassinio di sister George, o in Grissom Gang la sublime sospensione che piano piano divora gli sguardi, che non si lasciano più strutturare in un gioco di relazioni ma, ribaltone dopo ribaltone, si perdono nel vuoto.
Cade Hollywood e cade l'autorità. Al singolo, che non è più il perno organico dell'universo, non rimane che un conflitto infinito con le altre singolarità (Quella sporca dozzina), semmai ricomponibile sotto la specie di un'autorità come un onore di stampo sostanzialmente militare (Quella sporca dozzina, L'imperatore del nord, Non è più tempo di eroi) che è però talmente astratta da non poter essere definita a priori ma sempre secondo le circostanze, insomma istericamente indefinibile e in fin dei conti inerme di fronte all'onipotenza del pragmatismo crudele della Realpolitik: Ultimi bagliori di un crepuscolo, che materializza questo pragmatismo crudele proprio nella pluralità mediatica dei punti di vista (split screen e schermi televisivi a circuito chiuso a profusione) come nemico mortale dell'azione responsabile del singolo.
Un film, quello, in cui all'esercito si rimproverava di non essere abbastanza in linea con l'etica militare, ma di lasciarsi corrompere dalla politica. Ancora un'ambivalenza strutturale verso il potere, che Aldrich rinnova con grandissima acutezza morale in tutte le pieghe della sua filmografia, come anche nel fatto che ha caparbiamente sempre coltivato la sua indipendenza solo per poter costruire film in un certo senso "post-Hollywoodiani", dove le ceneri formali di Hollywood vengono simultaneamente criticate e riabilitate. Vedere Il grande coltello, melodrammone hollywoodiano anti-Hollywood, che peraltro si presta a esemplificare lo strano rapporto con il teatro di alcuni film aldrichiani tratti da qualche pièce teatrale: l'impianto scenico è formalmente rispettato assai diligentemente, ma contrastato e dialettizzato dall'interno da un intenso gioco di montaggio. Un teatro "istericizzato", insomma. Una vera e propria scienza dello smozzicare progressivamente la compattezza scenica.
Altro esempio fulminante di questa ambivalenza è il rapporto con la televisione, violentemente attaccata a più riprese e in più di un film, primo fra tutti il capolavoro assoluto che è Quando muore una stella (che meriterebbe fiumi di inchiostro a parte: diciamo che è un remake de Il grande coltello alla luce de La donna che visse due volte e all'alba dell'onnipotenza TV), ma inaspettatamente riavvicinata con Un gioco estremamente pericoloso, film in cui la solita problematicità morale rientra in un impianto strutturale sfacciatamente televisivo.
Lo scottante valore del cinema aldrichiano risiede proprio nell'"isterica" apertura di questi interrogativi.
 

 

Torino, 19:11:2006