Il successo per Sergio Martino
arriva nei primi anni '70, soprattutto grazie ai thriller Lo strano vizio
della signora Wardh, La coda dello scorpione, Tutti i segreti del buio, Il
tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave e I corpi presentano
tracce di violenza carnale, spesso interpretati da Edwige Fenech diva
emergente del cinema italiano di genere che diventerà nota prestando il
volto alle commedie degli anni ’80. In questo estratto Martino parla del suo
esordio nel thriller e del rapporto con la Fenech.
D.: Come è nato il suo primo thriller
Lo strano vizio della signora Wardh? R.:Lo strano vizio della
signora wardh è nato come film a basso costo, almeno rispetto ai
parametri di allora, però aveva la caratteristica commerciale di poter
essere esportato. Normalmente la critica italiana da più risalto a quei
registi che hanno ottenuto un successo esclusivamente artistico, ma credo
che bisognerebbe dare anche spazio a chi è riuscito a conquistarsi uno
spazio commerciale. Prendiamo il caso di Pietro Francisci, che era un
esperto regista di film mitologici; egli, per quanto ignorato, in tanti anni
di carriera è riuscito a fare del nostro cinema un veicolo di esportazione,
così come ha fatto Sergio Leone con il western e Dario Argento con il
thriller. Io sono riuscito ad affrontare molti generi differenti e credo che
i migliori successi li ho ottenuti dirigendo la commedia degli anni ’80.
Ricordo di aver diretto anche uno degli ultimissimi western prodotti in
Italia, e cioè Mannaja del
1977. Dopo quell’anno il western ha esaurito le sue possibilità commerciali
e così mi sono dedicato prevalentemente alla commedia.
D.: Cosa può dirci di Edwige Fenech, attrice che ha inizialmente
recitato nei suoi thriller ma che poi è divenuta famosa come volto delle
commedie degli anni ‘80? R.: Edwige Fenech sembrava non essere adatta per interpretare un film
thriller perché ha una fisicità molto solare! Io credo che la sua dimensione
migliore l’abbia trovata nella commedia all’italiana! Si è detto che nei
miei film c’è una componente di morbosità erotica, ma oggi un’osservazione
di questo tipo potrebbe far ridere perché il massimo che faceva la Fenech
era stare sotto la doccia quando arrivava l’assassino (ride).
D.: Si è soliti credere che i film di genere prodotti in quegli anni
erano realizzati velocemente e con budget ridotti. E’ vero? R.: Oggi faccio molta televisione e devo dire che i ritmi produttivi
che questo mezzo impone sono molto più veloci e pressanti di quelli a cui
ero sottoposto negli anni ‘70 e ’80. Spesso mi viene richiesto di girare un
prodotto televisivo della durata di 100 minuti in quattro settimane di
lavorazione. I registi come me, quelli della mia generazione, ancora oggi
sopravvivono perché abbiamo una preparazione tecnica che appresa durante gli
anni del cinema commerciale, e quindi siamo in grado di girare anche 40
inquadrature al giorno. Ricordo invece che la lavorazione dei miei film
thriller durava almeno sei settimane. Inoltre, con i costi ridotti e nel
tempo a disposizione bisognava essere capaci di ricreare suggestioni e
atmosfere particolari che magari film di altro genere non dovevano
possedere. Bisogna considerare anche che eravamo privi di tutti quei
supporti tecnologici di cui si dispone adesso, come per esempio le
steadycam, e così si ricorreva a degli espedienti artigianali che
dovevano risultare efficaci e funzionali. Per cercare di creare qualcosa di
suggestivo e, per esempio, girare sequenze in cui c’era un effetto di
rotazione degli attori ricordo che io e l’operatore legavamo il protagonista
sul seggiolino del carrello della macchina da presa e poi, tenendo la m.d.p.
ferma, lo facevamo ruotare vorticosamente (ride).
Estratti..
LAMBERTO BAVA
Famoso regista di film horror, Lamberto Bava in questo estratto
ricostruisce un ritratto del padre Mario, delle sue passioni e della sua
abilità di fare cinema.
D.: Lei è stato aiuto regista di suo padre fin dai film che
girò negli anni ’60. Crede che suo padre sapesse di essere, in un certo
modo, un caposcuola di un genere cinematografico? R.: Credo che nessuno, durante la propria carriera, si ritenga un
precursore. Possiamo dire che forse mio padre aveva consapevolezza di essere
capace di trovare delle soluzioni che potevano risultare stilisticamente e
tecnicamente innovative. Ma con sicurezza posso affermare che non ha mai
pensato che altri avrebbero seguito e ampliato il suo discorso. Potrei
citare, per esempio, 6 donne per
l’assassino del 1964 nel quale, per la prima volta, è stata inserita
la ripresa in soggettiva di un assassino valorizzata da accurati ed
espressivi movimenti della macchina da presa. Ma, parlando da figlio, posso
comunque dire di aver sempre avuto l'impressione che mio padre, non soltanto
come regista ma anche e soprattutto come uomo, fosse sempre stato
mentalmente 30 anni avanti rispetto al periodo nel quale si trovava a
vivere. (ride)
D.: In Italia le tematiche relative al gotico o all’orrore, inteso
anche in senso più ampio, non hanno mai riscontrato un vasto successo… R.: Sì, è vero, qui da noi non si amava e non si è mai amato il
genere horror, non soltanto al cinema, ma anche in letteratura. E' difficile
da credere quando, invece, pensiamo che uno degli scrittori internazionali
più importanti è Edgar Allan Poe, che ha sempre affrontato un certo tipo di
tematiche. Da noi la cultura del gotico non ha mai attecchito perché abbiamo
avuto altre tendenze e generi come la commedia e la satira, che sono forse
cose più caratteristiche del nostro paese. Ma devo dire che comunque in
Italia non è completamente assente una letteratura fantastica. Se prendi il
"Satyricon" di Petronio, tanto per citare un famosissimo autore, nella
versione integrale vi puoi trovare vasti riferimenti a streghe, fantasmi e
ad una certa cultura esoterica. Fin dal primo film che mio padre diresse, e
cioè La maschera del demonio
nel 1960, le sue pellicole hanno sempre avuto un grande successo all’estero.
In Italia gli incassi di La maschera
del demonio sono stati bassissimi, invece negli Stati Uniti, in
Inghilterra, quel film è tutt’oggi considerato un classico. Molte persone lo
ricordano ancora! E poi quel film 'creò', per così dire, Barbara Steele che
fu un'attrice scelta a Londra. Siccome il film veniva recitato in inglese
per essere meglio esportato, i provini per scegliere i protagonisti si
effettuavano a Londra. Non dimentichiamo inoltre che quelli erano gli anni
in cui riscuotevano un buon successo gli horror della casa di produzione
inglese Hammer e dalla statunitense American International Pictures. In
Italia invece possiamo affermare che il primo regista che sia riuscito a
rendere davvero popolare questo genere cinematografico è stato Dario
Argento.
D.: Proverbiale erano la modestia e la discrezione che
caratterizzavano il modo di essere di Mario Bava. Lei che lo ha conosciuto
oltre che professionalmente anche umanamente cosa può raccontarci al
riguardo? R.: Posso riferire un aneddoto che credo chiarisca la situazione: una
volta, quando era bambino, mio padre aveva fatto un disegno e lo aveva
firmato ‘Mario Bava’. Mio nonno, che era anche lui nel mondo del cinema, gli
diede un ceffone dietro la testa dicendo “Sei solo un bambino! Non puoi
firmare un disegno che hai fatto! Chi ti credi di essere? Neanche
Michelangelo firmava i suoi quadri!” Questo è il tipo di educazione che ha
ricevuto! Questo riserbo, questa umiltà, l’ha poi conservata per tutta la
vita. Anche in campo cinematografico, non ha mai reclamizzato le invenzioni
e i trucchi che ingegnosamente realizzava. Ma questa è una specie di
caratteristica di famiglia (ride). Mio nonno Eugenio, per esempio,
inventò il principio reflex 15 anni prima che la Arriflex lo
brevettasse. Prese una macchina da presa, che allora era di legno, ci inserì
uno specchio con l'inclinazione di 45 gradi ed ottenne così una moderna
cinepresa, ma non pensò mai che brevettando una cosa del genere sarebbe
potuto diventare ricco.
D.: Pochi invece sembrano essere a conoscenza della meticolosa
preparazione con la quale suo padre si avvicinava, di solito, alla
realizzazione di un nuovo film … R.: è vero, e mi
dispiace! Anche nella povertà di mezzi mio padre curava molto questa fase;
disegnava sempre dei dettagliati storyboard, cosa che in Italia si fa
pochissimo.
D.: E forse altrettanto trascurata è la passione di suo padre per la
letteratura… R.: I libri che mio padre ha accumulato nel corso di una vita hanno
riempito circa due appartamenti! (ride) Era un uomo che leggeva moltissimo,
e di tutto! Era anche un grande appassionato della collana Urania. Tra le
pagine che leggeva riusciva sempre a scovare una trovata, un raccontino dal
quali prendere spunto per le sue idee. Amava anche Maupassant, al quale
anch’io tengo molto. In una novella di Maupassant, infatti, si trovano delle
pagine nelle quali si narra di mobili che prendono vita e si muovono e da lì
prese spunto per una delle sequenze più suggestive di
Shock. Devo anche dire che
mio padre non amava molto lavorare con gli attori (ride) e diceva che
il suo più grande sogno era quello di girare un film senza la presenza di
queste figure professionali. Ecco, dalla combinazione tra questo desiderio e
la novella di Maupassant è nato il finale di
Shock.
D.: Lei ha diretto, diversi anni fa, il remake di
La maschera del demonio, film
peraltro mai distribuito in Italia. Cosa successe? R.: A quei tempi avevo cominciato a lavorare per Mediaset che stava
curando un progetto europeo: ogni paese doveva produrre e girare un film
horror per il circuito televisivo. Hanno pensato a me e proposi di rigirare,
naturalmente in chiave moderna, il primo film di mio padre. Riuscimmo a
realizzare quella pellicola, ma tutto il progetto però ebbe un arresto. E’
un peccato che non sia mai uscito perchè il budget era piuttosto consistente
e quindi la regia e gli effetti speciali, curati da Sergio Stivaletti,
risultavano efficaci. Ho lavorato altre volte per Mediaset che, alla fine
degli anni ’80, affidò a me, a Lucio Fulci e a Umberto Lenzi una serie di
film per la televisione. Allora, però, non furono mai mandati in onda!
Probabilmente Mediaset aveva paura di essere additata come una tv che
produceva e trasmetteva contenuti violenti e quindi ha un po’ seppellito ciò
che aveva prodotto.
Estratti..
DARDANO SACCHETTI
La sua carriera di sceneggiatore è iniziata dopo un fatidico incontro
con Dario Argento, per il quale scrisse il soggetto de
Il Gatto a Nove Code; quindi
ci sono stati i copioni scritti con e per Mario Bava (Reazione
a catena) e Lucio Fulci (L’aldilà,
Quella villa accanto al cimitero, Zombi 2). Autore di più di 50
lavori, in questo estratto Sacchetti parla delle collaborazioni con i
maestri del cinema italiano del terrore.
D.: Lei ha appena accennato alla guerra del Vietnam e mi è balzato
subito alla memoria un film diretto da Antonio Margheriti:
Apocalypse domani… R.: Non è un caso, infatti, che ho scritto quella sceneggiatura:
protagonisti di quel film sono dei reduci del Vietnam che si trasformano in
cannibali. Scrivendo quel copione ho tentato di fondere, in un’unica storia
cinematografica, degli elementi storici con quelli della paura più classica.
Proprio in quegli anni, inoltre, la cronaca nera italiana iniziava a
riferire notizie di omicidi e morti efferate, di delitti quotidiani e
cittadini che si verificano a diretto contatto con le persone; non erano più
dei fatti che si verificavano in campagne lontane o in posti isolati! Tutto
ciò inevitabilmente ha iniziato a riflettersi nel cinema che ha visto così
la nascita del thriller italiano, un genere nel quale esplodono cattiveria e
aggressività, e nel quale si mostra il delitto in tutte le sue componenti
più orride che fino a quel momento venivano nascoste. Pensate a film come
Non si sevizia un paperino di
Lucio Fulci o a Reazione a catena
di Mario Bava: sono film nei quali si inizia a presentare una lettura
diversa delle proprie paure e delle proprie angosce. Attraverso quelle
pellicole si può capire come la società si stesse spogliando da tutta
l’ipocrisia che aveva accumulato, e come quindi desiderasse mostrare le
rughe, le crepe, le cose più brutte che aveva represso e nascosto nel corso
degli anni!
D.: Conoscendola, lei mi sembra
essere una persona con un carattere piuttosto diverso da quello di un grande
regista del cinema fantastico italiano, Mario Bava. Come è riuscito a
collaborare con lui? R.: Una volta lessi una dichiarazione di Hitchcock nella quale diceva
“Avete presente il quadro di Siqueiros Contadini al tramonto? Nel
quadro sono raffigurati tre contadini che tornano a casa: il primo porta una
cesta di legno, il secondo trasporta una brocca, mentre il terzo ha una mano
dietro la schiena” E Hitchcock ci chiede (e chiede a se stesso): “Perché ha
una mano dietro la schiena? Cosa nasconde ? Forse un coltello?” Immagino che
Hitchcock sia stato un uomo che, invece di fermarsi alla lettura lineare di
un quadro che nella realtà non cela nessun sottinteso di questo tipo, si
poneva ugualmente questo genere di domande. E ciò suscita, inevitabilmente,
inquietudine. Anche Mario, in un certo modo, era fatto così! Con lui era
possibile creare situazioni d’inquietudine e di ansia. D’altra parte Bava
era un uomo che viveva di ansie, era un tipo molto pauroso! Mi raccontava
che da giovane era molto magro e quindi, quando pioveva e soffiava un forte
vento, era solito mettersi dei sassi in tasca perché aveva paura di volare
via! (ride) Però aveva anche il coraggio di affrontare le proprie
paure ridendoci sopra: una delle grandi qualità di Mario era quella di
possedere un’eccezionale ironia. Io invece ero totalmente diverso: non ho
mai avuto timore di nulla! Anzi, trovo davvero divertente osservare le paure
che gli altri avvertono. Dall’incontro tra le paure di Mario e la mia voglia
di scherzarci sopra sono nati quei film che avevano degli elementi
granguignoleschi, quasi splatter. Costruendo queste storie Mario
riusciva ad esorcizzare le proprie paure, mentre per me era un modo per
mettere alla prova lo spettatore che si spaventava di fronte ad un film in
cui il sangue non era altro che succo di pomodoro.
D.: Il carattere forte, il cinismo, l’acuta ironia sono state le
peculiarità di un altro fondamentale regista italiano: Lucio Fulci. Per lui
ha scritto tanti titoli indimenticabili come
Zombi 2,
Paura nella città dei morti viventi,
Quella villa accanto al cimitero,
…E tu vivrai nel terrore: l’aldilà.
R.: Lucio era una delle pochissime persone che ho incontrato capaci
di leggere e analizzare una sceneggiatura. Capiva subito se poteva
funzionare o se c’erano delle lacune nel meccanismo del racconto. Mario Bava
era un uomo molto emotivo e, come tutti gli uomini emotivi, era dotato di un
grande intuito inconscio. Fulci invece era più razionale, possedeva una
mente che definirei ‘matematica’. Infatti a Lucio piacevano molto i gialli
classici nei quali, alla fine, tutto doveva essere chiaro. La personalità di
Lucio, inoltre, era di una vitalità prorompente, quasi aggressiva. Ciò si
può ritrovare nei suoi film come Non
si sevizia un paperino o Una
lucertola con la pelle di donna, nei quali sono presenti dei
personaggi anche sadici. Soltanto verso la fine degli anni ’70 Lucio ha
recuperato le sue straordinarie capacità visionarie che forse mancavano ai
primi thriller da lui diretti, che erano molto razionali, e che colpivano
molto più la mente piuttosto che il cuore.
D.: 7 note in nero del
1977 è uno dei titoli meno famosi della filmografia di Fulci ma che invece
considero un film molto interessante, con un meccanismo narrativo
estremamente moderno. Non è forse un caso che diverse pellicole statunitensi
sembrano aver preso ispirazione da quella pellicola; penso in particolare a
Le verità nascoste di
Zemeckis e a The gift di Sam
Raimi nel quale è possibile riconoscere più di un punto di contatto con
7 note in nero. Come ricorda
questo film? R.: 7 note in nero è
uno dei film al quale sono più affezionato. Però ha due difetti: il
personaggio principale femminile, innanzitutto. Nella stesura della
sceneggiatura avevamo immaginato una donna proveniente da un ceto sociale
medio, ed invece nel film si è trasformata in una sofisticata aristocratica.
Ciò impedisce allo spettatore di immedesimarsi e quindi di entrare
emotivamente nel meccanismo della storia. Questo difetto nuoce anche alla
trovata sulla quale si basa tutto il film: mettere in scena una persona
dotata di facoltà che gli permettono di vedere il futuro ma che, allo stesso
tempo, è incapace di sfuggire ai pericoli cui va incontro. Il film
inizialmente doveva essere prodotto dai De Laurentiis che detenevano i
diritti di un romanzo dal quale trarre la sceneggiatura. Fulci e Roberto
Gianviti, che allora era il suo sceneggiatore di fiducia, ci lavorarono
sopra per quattro mesi senza concludere nulla di soddisfacente. Come ho già
detto, in quegli anni, io avevo la fama di essere lo sceneggiatore di
Argento e, di conseguenza, di essere lo specialista di questo genere di
film. Quindi fui chiamato a lavorare allo script. Lucio era solito iniziare
le sedute di scrittura esclamando: “Il primo che dice una stronzata lo butto
fuori di casa!” (ride) Ricordo che lavorammo per tutta l’estate
durante la quale stendemmo un copione assolutamente insoddisfacente e che i
De Laurentiis giustamente bocciarono. Fulci era già in ritardo di un anno
con la consegna di questa sceneggiatura e, ormai sconsolato, una volta mi
confidò che gli sarebbe piaciuto molto fare un film sulla preveggenza e sul
futuro che si ripete. Qualche giorno dopo mi balenò in mente la trovata del
carillon, della musica e delle sette note, che poi inserimmo nel
film. Lucio ne fu entusiasta e scrivemmo subito un trattamento che facemmo
leggere ai De Laurentiis e che loro nuovamente rifiutarono. I produttori lo
respinsero non soltanto perché non credevano nel film, ma anche perché
stavano attraversando un periodo di crisi. Non dimentichiamoci che stiamo
parlando del 1975/1976, e cioè gli ‘anni di piombo’: anni bui durante i
quali le persone uscivano meno di casa, i cinema chiudevano alle undici di
sera e tutto il mondo dello spettacolo attraversava una grande crisi
economica. Fulci però credeva in quella storia e lo propose ad un’altra
produzione che, alla fine, riuscì a produrre il film con dei finanziamenti
adatti ed un buon cast.
Estratti..
ANTONIO MARGHERITI
In questo estratto Antonio Margheriti racconta come e perché venivano
prodotti e realizzati i film commerciali fino ad alcuni decenni fa, segni di
un modo di far cinema ormai scomparso.
D.: Lei ha esordito nel ‘60-’61 con un film di fantascienza
intitolato Space Men proprio
negli anni in cui esordirono molti degli autori contemporanei come Pasolini,
Bellocchio, Bertolucci. Come ricorda quegli anni così importanti per
l’economia e la vitalità del cinema italiano? R.: Allora nasceva un nuovo cinema d’autore. Negli anni ’60 si è
parlato molto della politica dei produttori e dei numerosi esordi che ci
sono stati, ma è anche vero che i produttori hanno fatto esordire dei
registi, che poi sono scomparsi, soltanto perché al primo film venivano
pagati meno (ride)! Ricordo che vidi
Accattone di Pasolini per la
prima volta al cinema insieme a Tonino Delli Colli, che era alle sue prime
esperienze, e mi piacque moltissimo. Così come mi piacque molto anche
Grazie zia di Salvatore
Samperi, ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare questi grandi registi.
Può sembrare strano, ma non conosco molta gente di cinema. Ho sempre
lavorato per conto mio, curando la produzione, la regia, gli effetti, ed ho
sempre lavorato molto. Io, così come Mario Bava, eravamo più chiusi in un
nostro giro, che poi era quello del cinema commerciale. Però abbiamo avuto
la soddisfazione di vedere tutti i nostri film distribuiti mondialmente: io
ho girato molti film di produzione interamente americana. Non lo dico per
vantarmi, ma per far notare che per quanto realizzassimo dei prodotti con
mezzi ridotti, riuscivamo ad essere competitivi in molti mercati.
Il mondo di Yor, per esempio,
lo trassi proprio da un fumetto, fu venduto al Canada ed agli Stati Uniti
per un milione e mezzo di dollari e fu distribuito in 1425 copie! Nulla a
che vedere con le cifre che circolano oggi.
D.: Mario Bava ha affermato “Il cinema un’arte? Ma che arte è quella
in cui lavorano 60 persone?” Lei è d’accordo? R.: Si può anche fare un cinema diverso, d’autore. A volte vediamo
dei film straordinari! Ma non è propria del mio carattere la voglia di
affrontare il grande film d’arte. Bisogna considerare che anche i
grandissimi pittori avevano degli aiutanti che si occupavano di dividersi il
lavoro, ma la paternità dell’opera è attribuita a chi coordina il tutto.
Quindi non sono d’accordo nel dire che il cinema non può essere artistico
perché si fa in 60 persone. Dipende dagli obiettivi che ci si pone, ed il
mio obiettivo è quello di fare un cinema commerciale.
D.: Lei ha più volte accennato alle parole ‘autore’, ‘film d’arte’ o
‘cinema commerciale’. Che differenza c’è, secondo lei, tra un “autore” ed un
“artigiano”? R.: Mi hanno sempre definito un artigiano forse perché nei film che
facevo intervenivo in quasi tutte le fasi, dalla produzione agli effetti
speciali, alla sceneggiatura. Possiamo affermare che un regista è sempre
l’autore dell’opera, ma i registi che lavoravano nelle condizioni in cui
lavoravo io sono considerati artigiani perché, per ragione di costi,
finivamo per usare più le mani che il cervello! (ride)
Posso però dire che il film con il quale avrei dovuto esordire doveva essere
una sorta di film d’autore! Era la storia di un ragazzo che abbandonava la
campagna, dove era nato, ed andava a vivere in città, per poi tragicamente
tornare da dove era partito. Si doveva intitolare
Lo zanzarone perché questo
ragazzo era molto affascinato dal vedere passare gli elicotteri, che allora
assomigliavano molto a degli insetti. Questi apparecchi rappresentavano per
lui la fuga verso città. Ero riuscito quasi a realizzarlo, ma poi ci furono
dei problemi e non se ne fece nulla. Poi conobbi il produttore Goffredo
Lombardo, per il quale scrissi
Classe di ferro e Gambe d’oro
che diresse Turi Vasile. Quelle esperienze furono il lasciapassare per
ottenere la possibilità di girare il mio Space
men.
D.: Che differenze nota tra il modo di fare cinema di venti/trenta
anni fa e quello di oggi? Come si può spiegare il declino dei generi
cinematografici italiani? R.: Ho sempre sostenuto che è più importante fare un brutto film al
momento giusto che un bel film al momento sbagliato! Io ho fatto molti film
nei momenti sbagliati perché facevo la fantascienza quando tutti facevano i
western, facevo i western quando gli altri facevano i film sugli antichi
romani… ero sempre fuori genere! Questo però si rivelò un vantaggio, poiché
quando realizzavo un film non incontravo molta concorrenza e così sono
sempre riuscito a vendere all’estero i miei lavori. Oggi non c’è richiesta
di mercato! In quegli anni noi italiani eravamo dei bravi venditori esteri.
Oggi invece l’influenza della televisione nel cinema ha decretato la
scomparsa dei produttori: i veri produttori non esistono più. Oggi ci sono
degli intermediari fra le televisioni ed altre organizzazioni. E poi anche i
costi si sono molto elevati, quindi si preferisce distribuire film esteri,
di sicuro successo, piuttosto che produrli, ma questo è un ragionamento
proprio di un affarista e non di un produttore! Nessuno rischia più in prima
persona!