“Non Si Sevizia Un Paperino” (1972), pur rappresentando per molti versi un
caso isolato nella carriera di Fulci, segna un momento fondamentale nello
sviluppo di quella che sarà la poetica distintiva, la personale messa in
scena della ferocia, del regista romano nei tardi anni ’70. Cristallizzate
e metabolizzate le tendenze del thriller erotico, esplorato con “Una
Sull’Altra” e “Una Lucertola Con La Pelle Di Donna”, Fulci affronta per la
prima volta con “Non Si Sevizia Un Paperino” l’aspetto di cruda brutalità
dell’omicidio, sondandone gli anfratti etici ed umani ed evitando
programmaticamente una messa in scena estetica della morte. Allo stesso
tempo, però, la carica onirica e simbolica che Fulci attribuirà alla
prevaricazione fisica nei suoi lavori successivi, esiste nel “Paperino”
per lo più in forma larvale ed è riscontrabile in certi tratti che
diventeranno propri dello stile del regista solo nella scena dell’omicidio
della Maciara. Per questa ragione, l’analisi critica del film non può non
soffermarsi su quei tratti stilistici presenti nella pellicola che, pur
apparendo perfettamente delineati, sono destinati ad essere abbandonati
dal regista, che con il passare degli anni ed il progressivo avvicinamento
ai territori dell’horror preferirà un approccio maggiormente surreale, del
tutto estraneo a quello a suo modo verista del “Paperino”.
Il paese di Accendura, delineato con inquietante cinismo, in cui il bianco
accecante delle case si riflette sull’asfalto dell’autostrada che lo
attraversa, rappresenta un protagonista occulto della vicenda, una delle
anime della brutalità che attraversa il film; la realtà chiusa, settaria
si direbbe, del villaggio è inscindibile dalla violenza che vi si scatena
e che in una società per molti versi tribale si sfoga su chi del “clan”
non vuole fare parte e su chi si rifiuta di coprire le azioni aberranti di
un membro della tribù. In nessun altro caso Fulci dimostrerà un’attenzione
tanto profonda per l’ambientazione della sua storia ed allo stesso modo,
raramente l’occhio del regista si poserà sui personaggi con tanta
partecipazione (il più delle volte, si veda ad esempio “Paura Nella Città
Dei Morti Viventi”, l’elemento umano è assoggettato ad un destino
inarrestabile), nel tentativo di distinguere “chi ha peccato” (non solo
l’assassino, ma anche gli uccisori della maciara) da “chi non ha peccato”
(Patrizia, ma anche la Maciara stessa), in un dualismo etico che trova la
propria spiegazione nella scena iniziale del film: una chiesa appena
rischiarata dai raggi del sole. Lo sguardo di Fulci, però, non giudica. O,
meglio, non giudica “il peccatore”, Don Alberto, punito dal destino con
una caduta che sembra lunga chilometri e che si conclude, come un percorso
espiatorio primitivo, in un sogno allucinato, ma piuttosto il “peccato”.
Fulci condanna la logica del branco e della conservazione ad ogni costo
dello status tribale, l'emarginazione dei deboli (Giuseppe Barra, lo
“scemo del villaggio”), il servilismo nei confronti dei forti. Il male in
“Non Si Sevizia Un Paperino” è Accendura: case bianche e coscienze
sporche. 30/30 |