64.mo festival di locarno
Locarno, 8 / 13 agosto 2011

 

recensioni

 

di Chiara TOGNOLI

> I FILm

Incontro con Dominic Allan

Regista di “Calvet” in concorso per la Settimana della Critica

 

Come ha reagito Calvet quando gli hai proposto di girare un film su di lui?

Era molto sospettoso perché non capiva il motivo di raccontare la sua storia. Alla fine però si è convinto e ha specificato che voleva che si raccontasse tutto, senza tralasciare nulle, per lui anche il documentario è stato un percorso di riflessione e di redenzione.

 

Perché hai deciso di far raccontare solo a Calvet la sua storia?

Avevo girato anche delle interviste ai genitori, alla ex moglie, erano anche interessanti ma quando le ho viste nel girato istintivamente non le ho mai usate, volevo che fosse solo lui a raccontarsi come in una sorta di confessione.

 

Calvet ha influito in qualche modo sul montaggio del film?

No, quando lavoro non lascio che nessuno interferisca nel montaggio tanto che Calvet ha visto il film solo alla prima internazionale a Edimburgo.

 

Nel film si vede che il personaggio parla incessantemente, è davvero così o avete tagliato delle parti in montaggio?

Lui è veramente così, ovviamente abbiamo tagliato delle parti in cui si dilunga e racconta in modo ancora più frenetico, ma abbiamo voluto rendere giustizia al personaggio e mostrarlo come è, un chiacchierone che parla in modo vivace e continuo. è molto espressivo anche grazie alla gestualità, è come se fosse un attore che interpreta il suo passato. Calvet è originario di Nizza, le persone del sud della Francia sono molto espressive, sono dei racconta storie per natura. è stato difficile mettere i sottotioli perché spesso lui inizia una frase e la finisce solo con un gesto o con uno sguardo. Ho poi scoperto che da giovane era balbuziente e quindi aveva sviluppato un modo di esprimersi con la mimica.

 

In che lingua parlavi con il protagonista?

All’inizio abbiamo provato a girare in inglese ma Calvet si esprime decisamente al meglio nella sua lingua, il francese. Io parlo bene anche il francese per cui non è stato un problema. In più questo ha aiutato a creare una situazione di intimità perché il cameraman non parla francese per cui non capiva quello che ci dicevamo. Calvet parlava in modo spregiudicato, raccontando nei dettagli le cose più intime.

 

Nel film vediamo il mito dell’uomo che trova la redenzione attraverso l’arte, quanto c’è di vero in questo?

Ci si deve chiedere se lui abbia compiuto una metamorfosi, ma io non ci credo, le persone non cambiano definitivamente. Di sicuro c’è stato un processo di cambiamento negli anni fin da quando era giovane, certamente assistiamo a una lotta interiore continua. In lui c’è ancora il personaggio negativo, irascibile, ha dei momenti in cui viene alla luce della rabbia, e lui si odia quando succede. Per esempio quando per caso si specchia viene fuori l’odio per il suo alter ego, quando si vede è come se venisse a galla il suo lato oscuro. è anche vero che l’unica terapia che funziona è quella di dipingere. Era stato anche in clinica quando faceva uso massiccio di droghe ma non era servito. L’unica terapia era il dipingere per cui in questo caso mito e realtà vanno a braccetto! Non sopporto quando si parla del film come di una storia simbolica di redenzione attraverso l’arte. Non si tratta di una situazione simbolica ma reale, una storia di vita.

 

Come fai ad essere certo della veridicità dei fatti accaduti a Miami col boss della mala?

Ho parlato con altre persone coinvolte in quei fatti e tutti hanno confermato la versione di Calvet. Lui stesso anche se intervistato a distanza di tempo ha sempre raccontato la stessa versione dei fatti.

 

Quanti anni ha e cosa fa ora Calvet?

Ha 45 anni e vive in Nicaragua, come avete visto nel film, con la moglie e una figlia, aspettano anche un altro bambino. Vive ancora del suo lavoro di pittore anche se due anni fa è stato colpito pesantemente dalla crisi del mercato dell’arte, non essendo lui un nome come Picasso, ma comunque vive di questo.

 

La sua pittura ricorda molti altri artisti per esempio Basquiat…

Sì sì è vero, ci sono molte assonanze con pittori famosi fra cui Basquiat, Calvet ha avuto poi vari periodi e stili tra cui alcuni che mi piacciono meno. Questo non significa che sia stato influenzato da questi artisti. Per esempio a un certo punto faceva dei lavori alla Jackson Pollock e quando glielo hanno fatto notare ha detto: “Chi è questo Jackson Pollock?” ed è corso al computer a vedere, non sapeva davvero chi fosse e faceva queste cose in modo davvero spontaneo. è rimasto sempre fedele a questo tipo di espressione totalmente onesta, per esempio aveva conociuto un collezionista che possedeva anche dei Picasso che gli diceva che avrebbe dovuto cambiare il suo stile in quella direzione, ma lui non si è mai lasciato influenzare da nessuno. Tutto quello che fa proviene da un gesto autoctono, onesto. Tra l’altro non si ferma mai, deve sempre mettere qualcosa su tela, su carta. Anche quando aspetta la telefonata del figlio si mette a disegnare su un quaderno. è quasi un problema, non riesce a prendersi un week end libero perché subito deve mettersi a lavorare. Lui odia che lo si chiami artista, si considera una persona che sta svolgendo una propria terapia.

 

Anche se sono passati anni Calvet ha ancora paura del suo boss mafioso di allora?

Anche noi ci siamo posti il problema se fosse pericoloso raccontare i fatti di Miami e abbiamo consultato un avvocato. Ci ha detto che non c’era problema perché prima di tutto non c’è un mandato di cattura e in fondo Calvet non ha infranto la legge perché i soldi erano a nome suo! Anche se sono passati 8 anni Calvet vive in Nicaragua e non è facile trovare il suo indirizzo, ma lui ha voluto assolutamente raccontare anche gli episodi di Miami perché non vuole più mentire, vuole raccontare la sua vita senza omettere nulla.

 

Quanto il film ha influenzato la vita di Calvet?

Prima di tutto siamo ancora amici e il film gli è piciuto moltissimo! In effetti in qualche modo il film ha influenzato certi suoi modi di agire, anche se io non gli ho mai imposto nulla nè indicato come e quando fare le cose. Però lui dice che per esempio forse non avrebbe intrapreso la ricerca del figlio o forse non in modo così rapido, magari avrebbe rimandato le telefonate per paura, invece dovendo girare era stimolato ad accelerare i tempi. C’era un continuo scambio tra di noi, una dialettica tra regista e protagonista, così come mi piace che si crei un dialogo tra il film e il pubblico.

 

 

Incontro con Mike Medavoy, produttore

Spazio Cinema

 

Mike Medavoy è il più importante produttore indipendente della scena internazionale con all’attivo una carriera quarantennale durante la quale ha prodotto film storici come Rocky, Apocalypse Now, Terminator, Il silenzio degli innocenti, La sottile linea rossa, Black Swan. E’ stato co-fondatore della Orion Pictures (1978), primo presidente della TriStar Pictures, primo responsabile della produzione della United Artists (1974–1978) e attualmente presidente e CEO della Phoenix Pictures

A Locarno ha ricevuto il Premio Raimondo Rezzonico intitolato al fondatore del Festival.

 

Cosa ci puoi dire riguardo alla tua casa di distribuzione, la Phoenix Pictures?       

Credo di aver capito una cosa che non avevo mai capito prima: nella distribuzione di un film ci sono una serie di fattori che non si possono calcolare, non se ne può avere il controllo. Così ho cambiato atteggiamento sul modo di condurre la Phoenix. Ci sono due miei  collaboratori, Brad Fischer e David Thwaites che hanno contribuito moltissimo alla crescita della Phoenix, hanno lavorato con me l’uno per tre anni e l’atro per cinque. Ho imparato un particolare metodo di lavoro, in parte dal periodo fatto alla United Artists, in parte alla TriStar, ad ogni passaggio imparavo qualcosa che ha contribuito a farmi diventare quello che sono oggi. Probabilmente oggi sono meglio di quanto non sia mai stato! Credo che la mia reputazione sia stata apprezzata soprattutto perchè ho cercato di essere corretto. Ho imparato che le cose che succedevano non riguardavano solo me, soprattutto per la mia generazione quando in America c’erano enormi problemi, ma riguardavano tutti, in un certo senso.

 

Hai parlato della tua generazione, negli anni Settanta molti film, anche da te prodotti, avevano una profonda coscienza sociale.

In quegli anni in America c’erano disordini nelle strade, le rivolte degli studenti, le proteste per i diritti civili, razziali e delle donne, io ero ragazzino ed ero affascinato dalle figure come Robin Hood.  C’è una sorta di corto circuito tra questi due aspetti, io ero abituato a vedere film con Gregory Peck o Gene Kelly e improvvisamente erano diventati parte della mia vita, erano persone reali!

 

Come riesci ad equilibrare le tue scelte fra film di intrattenimento e film più impegnati?

I film sono un mezzo per raccontare storie, perciò la cosa più importante di un film sono i personaggi. Il protagonista deve guardare in camera e parlare allo spettatore. Penso che raccontare una storia significhi intrattenere, e la storia deve catturare il tuo cuore, la tua anima e anche il tuo cervello, io preferisco i film che riescono a fare entrambe le cose. Dopo 335 film prodotti posso dirti quali funzionano e quli errori ho commesso. Magari ho sbagliato autore o regista. Il problema è che ci sono talmente tanti livelli nella realizzazione di un film che si può sbagliare in qualsiasi momento. A partire dal soggetto, alla sceneggiatura, magari quelle vanno bene ma scegli un regista che non è adatto. Ci sono molti fattori che giocano sulla riuscita del film. Ho fatto film che sono piaciuti a pochi, altri che hanno vinto degli Academy Award e che nessuno a Hollywood ha mai visto. L’esempio perfetto è Qualcuno volò sul nido del cuculo, l’unica altra casa di produzione interessata era la 20th Century Fox, alla quale però non piaceva il finale in cui Jack Nicholson muore, e questo è il motivo per cui ottenemmo il film. Nessuno voleva fare Balla coi lupi, o Il cigno nero solo perché era un film sul balletto.

 

Hai mai commesso un errore nel valutare un film?    

Sé, per esempio con Pulp Fiction, Ho letto la sceneggiatura e mi piaceva molto, ma mi risultava troppo violenta la scena in cui i protagonisti devono pulire l’interno della macchina dal sangue del ragazzo a cui hanno fatto slatre il cervello. Ho chiamato Tarantino e glilo ho detto e lui mi ha risposto: “Sì, ma è divertente!”. E così non ho fatto il film. Non ho rimpianti, preferisco fare errori, ammetterlo e andare avanti!

 

Come era andata la produzione di Apocalypse Now?

Ci vorrebbe troppo tempo per descrivere tutto! Ci sono alcune versioni vere ed altre no, è uscita una versione del film di George Lucas in 16mm, Francis metteva denaro suo ma avev anche altre entrate da fuori… è stata una produzione molto difficile, il problema di cuore di Martin Sheen che abbiamo dovuto portare all’ospedale… a un certo punto ho chiesto a Francis quando credeva che avremmo finito il film e lui mi ha risposto “mai!”.

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64.mo festival di locarno
Locarno, 08 / 13 giugno 2011