“No city in the world knows movies like Los Angeles, and we are proud of
that fact”, è il messaggio di apertura al festival losangelino da parte del
direttore, Richard Raddon. “We live movies, feel movies, breathe
movies – movies are a part of our core”, continua pieno di orgoglio Raddon,
e come dargli torto del resto, visto e considerato che buona parte dello
splendore della città degli angeli rifulge di luce riflessa dalle sue
sciantose stars, o dai suoi imprenditori che non mancano di investire denaro
prezioso nel cinema. Film industry qui significa inevitabilmente soldi, e
non pochi, ma più o meno tutti quelli che hanno fatto di L. A. da sempre
meta privilegiata di gente (non solo americana) intenta a sfondare nel mondo
del movie entertainment. Detto questo, è anche vero che la città assomma ai
pregi anche tutti i possibili difetti che una siffatta storia comporta, per
esempio party riservati a vip e loro parenti-amici-finanziatori,
merchandising per tutti i gusti (maglietta, felpa, bicchiere, e quant’altro)
più ogni sorta di contorno che coi film ha ben poco a che vedere.
Ma in fondo questo l’avevamo già visto con il Tribeca. Il costume
statunitense è esattamente questo, applicato a ogni campo del business, e
dunque come lamentarsi che vi sia invischiato anche il cinema, portatore nel
suo dna di quei caratteri altrimenti inconciliabili quali arte e industria.
WESTWOOD VILLAGE
Ma torniamo al Festival. Anche quest’anno è stato il quartiere del Westwood
Village, lo stesso che ospita la University of California Los Angeles
(UCLA), a presentare questo festival arrivato alla tredicesima edizione. La
ricchezza dei film mostrati quest’anno (ben 233 proiezioni tra film,
cortometraggi e video musicali) si è accompagnata alla generosa offerta
gratuita di performances ed eventi. Per cominciare ogni giorno su un palco
montato in Broxton Avenue (Festival Promenade) si sono esibiti gruppi
diversi, mentre poco lontano uno schermo all’aperto ha proiettato varie
pellicole per un pubblico non pagante (The
Princess Bride di Mark Knopfler, 1987,
A Christmas Story di Bob
Clark, 1983 fra gli altri).
Alcuni degli eventi più attesi sono state le proiezioni di
Talk to Me di Kasi Lemmons
(prima mondiale che ha aperto il Festival) e
Sunshine (che invece lo ha
concluso) di Danny Boyle, il quale da Trainspotting
in poi dà prova di acume immaginifico passando dai problemi dei giovani
inglesi a quelli della terra nel 2057, alle prese con la morte del sole. Attesissime sono state, fra le Summer Previews, anche le proiezioni dei film
di due attori quotati, ultimamente riscoperti registi ma anche scrittori di
discreto successo, vedi il trentasettenne Ethan Hawke che ha presentato in
concorso il suo The Hottest State,
e il grandioso Steve Buscemi che ha stupito platea e stampa presentando
Interview. Il film è un
remake di ottima fattura della pellicola del regista olandese Theo Van Gogh,
famoso per esser stato assassinato da estremisti islamici tre anni fa, e
mette a confronto un giornalista attempato, Buscemi stesso, con una diva
famosa e bellissima come Sienna Miller.
Ma ciò che resta impresso di questa edizione è stata la
quantità di sezioni e proiezioni gratuite. Una di quelle più ricche è stata
la "Documentary Competition" di cui ricordiamo film come
Billy the kid di Jennifer
Venditti e La Santa Muerte di
Eva Aridjis. Si tratta di due opere destinate a far discutere: la prima è la
storia del quindicenne Billy P., cresciuto nel Maine, alle prese con le
classiche contraddizioni da adolescente. Ma lo sguardo accurato della
Venditti mostra a poco a poco risvolti differenti della vita del ragazzo e
di sua madre, malattia e dolore affrontati con responsabilità anche dal
primo. Il tutto condito da uno stile non lontano dal cinema veritè.
La Santa Muerte invece ci
porta all’interno degli usi e costumi messicani, e attraverso Gael García
Bernal, che ne è voce narrante, ci mostra un culto decisamente particolare:
l’adorazione della morte. La “White Lady”, lontano dalla dolcezza del viso
della Madonna, mostra orgogliosamente due cavità oculari nere, vuote, denti
allineati, stretti in un ghigno, e una falce affilata intenta a portare a
termine la propria missione. A Mexico City tutto è possibile, anche venerare
la morte, che qui più della vita si presenta come forza assoluta, potente,
ineludibile. Credere per credere, aver fede per aver fede, cosa cambia se si
tratta di Dio o della Bianca Signora?
Come tutti i festival che si rispettino l’anteprima tanto attesa è stata
quella del film Transformers
(Michael Bay) da poco uscito in Italia. E poi interviste con registi e
produttori, sezioni speciali tra le quali una dedicata all’incontro tra
cinema e musica, per esempio Joe
Strummer: The Future is Unwritten di Julien Temple,
Dark Side of Led Zeppelin: The
Laserium Extravaganza!, l’originale “laser light show” detto
Laserium che fece la sua
comparsa per la prima volta nel 1973,
U.F.O.s at the Zoo: The Legendary
Concert in Oklahoma City dei registi Bradley Beesley, Wayne Coyne,
George Salisbury (in cui abbiamo assistito alla memorabile performance
canora del leader dei Lips, Wayne Coyne),
The Buffy Musical: Once More With
Feeling di Joss Whedon e The
Iron Fist (1927) diretto da Gabriel Garcia Moreno.
Altra sezione molto appetibile è stata quella denominata
"Dark Wave", con
proiezioni vecchie e nuove di film della scena orrorifica. Alcuni fra i
titoli più curiosi, il famoso remake del capolavoro di Hershell Gordon Lewis
Wizard of Gore, diretto qui
da Jeremy Kasten, Dead Daughters
di Pavel Ruminov, Trigger Man
di Tu West e Flight of the Living
Dead di Scott Tomas.
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