62.mo festival di
cannes
Cannes, 13 - 24 Maggio 2009
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di Marco GROSOLI
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Le Recensioni
>
UP! di Pete Docter
>
THIRST di Park Chan Wook
> VENGEANCE
di Johnnie To
> INGLORIOUS BASTERDS di Quentin Tarantino
> BRIGHT STAR di Jane Campion
> UN PROPHETE di Jacques Audiard
>
LOS ABRAZOS ROTOS di Pedro Almodovar
> LES HERBES FOLLES di Alain Resnais
> VINCERE di Marco Bellocchio
I Premi della 62.ma Edizione
Il Commento
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UP!
di Pete Docter
Stati Uniti 2009, 105’
Fuori
concorso
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30/30 |
Si sa, il cinema non è più
una fabbrica. Non è più un’industria, è qualcos’altro, un po’ museo del XX
secolo, un po’ periferia della piovra mediatica e del capitale finanziario…
L’ultima fabbrica del cinema è senza dubbio la Pixar (basterebbe un’occhiata
ai titoli di coda), sublime catena di montaggio molto più dell’odierna
Hollywood, pasta dentro cui più o meno tutti hanno le mani. Ma anche la
Pixar non può prescindere dalle circostanze, le quali oggi come oggi
vogliono che non sia più semplicemente questione di “produrre” in catena di
montaggio un oggetto di intrattenimento da consumare; l’odierna palude
mediatica rende tutto, come minimo, infinitamente più complicato. Arriva un
momento, perciò, che la Pixar non ha più nulla da vendere se non il proprio
stesso, giovane e già vecchio, mito: cioè il fatto stesso di essere una
fabbrica (di cosa poi? Di oggetti quanto mai immateriali come i cartoni
animati – sublime ironia). Già Cars
e Wall-E erano con ogni
evidenza improntati sull’anacronismo che è ormai diventata la tecnologia
industriale.
Ma è solo con questo Up che
la Pixar può fino in fondo reclamare per sé la nostalgia del cinema (cioè
della fabbrica), come fanno i Lucas/Spielberg o gli Eastwood. Come in
Gran Torino, il protagonista
è un vecchio vedovo che non cede un millimetro della sua villetta a ciò che
ha soppiantato la fabbrica (là un quartiere residenziale che senza
un’industria di riferimento è lasciato al degrado di un melting pot
assortito alla meno peggio, qui i grattacieli del terziario ultra-avanzato).
Ha conosciuto la moglie da bambino, entrambi appassionati per quelle
avventure in Sudamerica che potevano contemplare solo davanti a uno schermo
cinematografico, e vivere solo da turisti nella terza età. Sicché, ormai
costretto dagli speculatori a sloggiare, lascia andare migliaia di
palloncini legati alla sua casa, che la trascinano via – nelle cascate del
Sudamerica tanto sognate con la moglie. Lì, insieme a un piccolo boy scout
trascinato dietro per caso, finiranno finalmente in mezzo all’avventura.
Un’avventura che non li riguarda. Non solo perché riguarda un uccello
incantato che devono difendere da un esploratore che lo vuole impagliare,
proprio quel Charles Muntz che Carl aveva tanto ammirato sugli schermi dei
cinegiornali da bambino prima che venisse sbugiardato come impostore. Ma
soprattutto perché, più che film d’avventura,
Up è un film sul rovescio
dell’avventura. Su un’avventura solo in potenza, solo possibile, e che non
conta più sia vera o solo sognata. Di fatto, Carl e il suo piccolo amico ne
stanno ai lati, dell’avventura. Sì, ogni tanto (nei punti inevitabilmente
“caldi” della scaletta drammaturgica) vengono sballottati in qua e in là
vertiginosamente. Ma in tutto (tutto) il resto del film vengono fatti
ristagnare ai margini del possibile.
Non c’è più il ritmo
allucinante di Wall-E, e
anche qui sta la grandezza di UP. Non c’è più bisogno di tirare cazzotti
allo spettatore per intrattenerlo: si tratta piuttosto di fargli contemplare
la possibilità dell’intrattenimento. Il 3d, in questo senso, è rivelatore:
non c’è più l’ingenua velleità di sfondare lo schermo e andare verso la
spettatore. Piuttosto, il lavoro volumetrico sulle figure è costruito in
modo da valorizzare lo spazio in profondità: più che balzare fuori dallo
schermo con attrazioni frenetiche, il film sovente pare soffermarsi su campi
totali che, con la loro scansione sfalsata dei diversi piani
dell’inquadratura in profondità, segnalano allo spettatore che potrebbe
entrarci.
È questa forma dubitativa che il film riesce ad azzeccare. A nessuno frega
più niente di un cinema di animazione che si accontenti di raffigurare il
meraviglioso (e la stessa cosa, di converso, vale per “la realtà”), di
sconfiggere le leggi della finitudine e della gravità . E infatti il mondo
Disney subisce una feroce e definitiva irrisione qui, essendo gli scagnozzi
del cattivo cani con una voce artificale che è uno speciale collare a
fornirgli - e un animale con una voce appiccicata è la definizione quasi da
manuale dell’universo disneyano.
Ma vale la pena di tornare sulla gravità, perché è proprio questo il punto.
Per gran parte del film, Carl, a terra, è legato con una corda alla casa
che, per via dei palloncini, rischia di volarsene via. In questo paradosso
della (fanta)fisica sta tutto il film: il cinema di animazione non se ne fa
più niente di sconfiggere la legge di gravità, di svolazzare e di
teletrasportarsi: piuttosto, si tratta di smontare la gravità nel momento
stesso in cui è più evidentemente all’opera. Affermare la forza di gravità
(ancorando a terra qualcosa che non ci può stare) significa smentire
qualunque legge di gravità possibile. Una casa che svolazza grazie ai
palloncini viola la gravità, ma la viola anche di più un vecchio acciaccato
e malandato che si lega una corda ai fianchi per ancorarla
“gravitazionalmente” a sé e al suolo. È la gravità, primo e più pesante dei
principi di realtà, il primo meraviglioso abbaglio. Per questo, sfogliando
il “libro delle avventure” della moglie morta, Carl scopre le foto della sua
stessa vita coniugale: è la declinante vita suburbana del dopoguerra che non
possiamo (a prescindere dalle latitudini) non dire americano, quella che
ruotava intorno alla fabbrica e ai sogni da non poter realizzare, che ci
appare per quello che è stata: solo un sogno. Un’avventura confinata dove ha
da essere: nel possibile.
E quindi ancora davanti a
noi (e al piccolo boy scout amico di Carl), come tutto ciò che ci sta alle
spalle. |
vincere
di Marco Bellocchio
Italia 2009, 128'
Concorso
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30 e lode |
La vena archeologica
dimostrata da Bellocchio in
Buongiorno, notte viene confermata in maniera grandiosa in questo
nuovo Vincere, che si butta
anima e corpo in uno dei più decisivi buchi neri della Storia italiana,
forse ancor più della fine del compromesso storico trascinata dalla fine
della vita di Moro. Non si tratta solo del fascismo, non si tratta solo
dell’ascesa del totalitarismo mussoliniano: si tratta dello stabilizzarsi di
un dispositivo di potere eminentemente spettacolare. Ida Dalser,
prima moglie di Mussolini, è una che è rimasta sempre fedele e attaccata
(anche a costo di finire in manicomio) al Mussolini prima maniera, quello
che diceva “impiccheremo l’ultimo Papa con le budella dell’ultimo Re”, e non
quello terminale che firma il Concordato col vaticano. Un Mussolini che,
realizzando il suo sogno, letteralmente scompare e diventa immagine: man
mano che il film procede, il Duce non è più interpretato da Filippo Timi
(strepitoso) ma è solo un’ombra in bianco e nero lasciata intravedere dai
cinegiornali. La Storia diventa Spettacolo, e ne viene inghiottita; le molte
risse tra fazioni politiche opposte che avevano luogo tra il pubblico dei
cinema dell’epoca, sono inquadrate da Bellocchio come sagome nere sullo
sfondo bianconero dell’immagine muta sullo schermo dietro di loro. Nel
momento stesso in cui, incandescente, si fa, la Storia è già cinema, è già
spettacolo.
Quando vuole fare la Storia,
Mussolini è vivo, in carne ed ossa. Quando la fa direttamente, non è che
un’immagine. E infatti Filippo Timi tornerà a interpretare non Benito ma
Benitino Mussolini, il figlio avuto della Dalser, che con una geniale
intuizione scimmiotta il padre visto nei cinegiornali. Più ancora che mera
immagine, Mussolini è un’immagine che imita se stessa per fingersi reale: il
Mussolini che fa la guerra è solo la caricatura del Mussolini del 1914 che
la guerra voleva solo farla. Ovvero quel giovane Mussolini che, dopo
l’amplesso con Ida, si sporge dal balcone e vede già le folle che riunirà
davvero solo anni più tardi, grazie al cozzare operato dal montaggio tra il
film “effettivo” e le immagini di repertorio. Col tempo, dunque, questa
“frizione” tra il personaggio di Mussolini e le immagini di repertorio viene
meno, perché il duce diventa esclusivamente immagine di repertorio,
cinegiornale, spettacolo. Lo scarto si richiude.
Per Ida invece lo scarto tra
la Storia e la sua possibilità rimane sempre aperto. Fino alla fine, anche
quando Mussolini la rinnegherà e la farà confinare presso i famigliari (e
poi al manicomio) e togliere il figlio, la strenua fedeltà di Ida al
Mussolini “socialista” è sempre e solo un’altra Storia possibile. Dai loro
focosi anni dieci passati insieme giù giù lungo tutto l’incubo
dell’Italietta piccoloborghese (il “confino” presso la zia) fino al
manicomio (che tutto sommato è un posto anche più tranquillo di ciò che sta
fuori), Ida Dalser non si arrende mai, e si proclama moglie di Benito
Mussolini benché nessun documento sia lì a provarlo. Lo scarto rimane e non
smette mai di avvertirlo; e infatti, lei al cinema ci va ancora, e là
avverte sulla propria pelle, fino alle lacrime, la scissione con se stessa:
Chaplin in uno schermo della sua provincia che riabbraccia il suo bambino è
la sua stessa storia di madre che non può riabbracciare Benitino, ma è anche
l’utopia che non può raggiungere. Questa scissione è la Storia come pura
apertura, contro il suo realizzarsi (il Duce), che è ormai integralmente
Spettacolo.
A garantire quest’apertura è
il cinema – che Bellocchio non lesina affatto: assecondato dalle palpabili
oscurità della fotografia di Daniele Ciprì, passa furiosamente dallo
scatenato caos stilistico barocco/futurista (scritte che compaiono a tutto
quadro…) della prima parte ai suoi soliti “tizzoni” caldissimi che ribollono
sotto la scorza della normalità piccoloborghese nella seconda – e viceversa,
in una continua doccia scozzese registica, che carica ogni inquadratura di
continui sbalzi di pathos. Il cinema, quella dinamite che, nelle parole di
Walter Benjamin, doveva far esplodere (e lo ha fatto) un “mondo simile a un
carcere”. Benjaminianamente, è ciò che lui chiama “immagine dialettica” a
compiere il miracolo: il passato che immediatamente rivive nel presente.
Ovvero: le immagini di repertorio, qui abbondantemente utilizzate, tranches
di passato risorte, che (sempre secondo Benjamin) rivelano la co-presenza
dei tempi diversi (anche per questo, a un occhio attento, Vincere è
innanzitutto un film sulla devastante situazione in cui versa la sinistra
italiana oggi), la frantumazione dell’illusione che esista un tempo
continuo, omogeneo e vuoto.
Ciò che, guardacaso,
costituisce la cornice del film: Mussolini lo inaugura proclamando davanti
al suo uditorio “guardate il mio orologio: se non verrò fulminato prima che
passino cinque minuti, avrò provato che Dio non esiste”. La linea del tempo
anziché essere lineare si fa continuamente frastagliare da flash-forward (le
foto indiziarie delle compagne di manicomio di Ida scattate prima del suo
ingresso), flashback, sogni… Passano oltre due ore di film, ma i cinque
minuti (cui si ritorna nel finale) non sono mai passati. La Storia, è ancora
da scrivere. |
BRIGHT STAR
di Jane Campion
Inghilterra/Australia 2008,
120'
Concorso
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28/30 |
Negli ultimi dieci anni, Jane Campion ha fatto
solo due lungometraggi. Da questa “quasi pausa” sembra essere uscita con una
forte e significativa mutazione stilistica. Questa “storia di amore
frustrato”, che avrebbe potuto essere di un De Oliveira, tra il poeta John
Keats e la sua vicina di casa, accantona gli ampi fraseggi in movimento dei
suoi film precedenti, per concentrarsi su un estetismo piuttosto diverso. Un
estetismo più malinconico, dimesso, statico, fatto di colori autunnali e
spunti visivi che durano giusto il tempo di poter sfiorire, come la vita
stessa di Keats, stroncata giovanissima dalla malattia come vuole il cliché
romantico.
E, come vuole il cliché romantico, è la Parola
ad eternare l'amore. Sovente (e quasi, di nuovo, deoliverianamente), il film
sembra fermarsi e assaporare ogni parola delle poesie di Keats recitate in
ampi stralci. In tutti i sensi, l'amore castissimo tra i due sembra vivere
sotto l'ombra benevola della parola (che, a ben guardare, già in In the cut
cominciava ad essere fondamentale); è la parola la “sponda” sulla quale
rimbalzano le suggestioni di messa in scena (come la camminata della
sorellina tra l'erba alta in cerca dei due amanti), che arrivano di
soppiatto e di soppiatto si spengono. Il film procede liquidando
sbrigativamente ogni necessità di narrazione per risparmiarsi, distratto, in
vista di queste frequenti scintille visive che punteggiano il racconto.
Scintille che non sono più fomentate con la benzina come negli altri film
della regista, ma vengono lasciate accendersi e spegnersi con serena
rassegnazione. Quella rassegnazione che domina, cupa, tutta la seconda
parte, segnata dall'imminente e fatale degenerare della malattia di Keats;
eppure attraversata da questi frequenti squarci di sereno.
È un film compostamente schizofrenico, insomma,
come schizofrenico è l'amore (perché è la morte che lo fonda e che lo nutre)
e come schizofrenica è la protagonista stessa, sdoppiata nella bambina che,
di tanto in tanto, si ritrova improvvisamente le redini del racconto, ora in
balia del suo stupore e della sua sensibilità virginale di fronte alle
minime accensioni del visibile.
È con la sua innocenza, per esempio, che ci
imbattiamo in un Keats riverso a terra, nel parco, prossimo alla morte.
Nessun piagnisteo, niente melodramma: solo il fascino acerbo di una “bella
immagine” colta come tale. Indifferente al tempo (dunque alla morte), e ai
molti conflitti “di contorno” tra i personaggi (p. es. tra lei e l'amico di
lui, attaccatogli di un'attrazione praticamente omosessuale, o tra lei e la
famiglia contraria al matrimonio),
Bright Star è un film asciugato, ripulito (persino delle solite
deviazioni nella bizzarria in cui la Campion indulge sempre volentieri,
stavolta in modo meno invadente), pacato, dolcemente rassegnato a vedere
l'amante solo al di là del vetro trasparente (sia esso una semplice finestra
o la morte), sorridente ma lontano. |
THIRST
di
Park Chan Wook
Corea del Sud 2009, 133’
Concorso
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30/30 |
Un prete si fa volontario
per un esperimento che dovrebbe trovare il rimedio da opporre a un
pericoloso virus. Le cose vanno storte, lui muore ma rinasce due secondi
dopo. Stavolta in forma di vampiro. Lascerà la chiesa per unirsi a una
ragazza che diventerà vampira come lui, soprattutto per sfogare la
frustrazione di una vita passata al fianco di un imbecille che una matrigna
tenera e terribile ha costretto a sposare.
Sul palco di Cannes 2004, con in mano il premio della giuria per
Oldboy, Park Chanwook diceva
“per me sarebbe una soddisfazione enorme anche solo venire a Cannes per fare
una foto con Polanski come mi è capitato a una festa ieri sera”. Oggi è
Polanski probabilmente a dover dire il contrario. Oppure, se proprio
preferisce, potrebbe denunciarlo per plagio. Dopo la straordinaria
ricognizione hitchcocko-langhiana che fu
Oldboy (e non solo), è ora
infatti la volta di Polanski a venire dottamente vampirizzato, e a ribadire
che se Park è probabilmente tra i migliori cineasti al mondo, sicuramente è
tra i migliori critici in assoluto del pianeta.
Polanskianamente, la carica sessuale che emerge lateralmente, come sintomo
incontrollato e come spunto grottesco, viene sminuzzata, assecondata,
stiracchiata, prosciugata e infine appiattita dalla regia. Che non è più
dunque esplosione libidica e libidinosa come nei precedenti lavori del
regista coreano, ma progressiva ed esilarante estinzione della libido alla
luce del puro cinema (della pura messa in scena, fatta luminosa piattezza di
superficie) così come un vampiro è destinato a polverizzarsi alla luce del
giorno.
Polanskianamente, è tutta questione di un’atmosfera che da torbida si rivela
irresistibilmente comica. I tempi si dilatano, il pathos si stempera nella
stagnazione, il sangue non invade più il bianco della purezza, ma è il
bianco che invade il sangue e lo fa suo. Dopo l’orgasmo (e le stesse scene
di sesso sono così esplicite da smorzarsi nel prosaico, nel terra-terra dei
sospiri e degli ansimi assai più che in un piacere divenuto indifferente),
la futura vampira ha fame, si prende un uovo colorato, e in primissimo piano
vediamo che sotto il guscio variopinto, c’è appunto il bianco.
Polanskianamente (Per favore non
mordermi sul collo), si indovina quella stupenda mezza misura per cui
si corteggia l’orrore senza diventare un horror, e si corteggia la comicità
senza diventare comico. Solo un sublime e affascinantissimo trascinarsi.
Come sempre, c’è solo una cosa più stupefacente dei virtuosismi di macchina
da presa (da sempre cari a Park): fare affievolire, spegnersi e dimettere la
macchina da presa. è quello
che riesce in questa nuova straordinaria impresa del regista coreano.
E poi, insomma, la scena clou avviene su una barca con sopra due uomini, una
donna e un coltello: se non è Il coltello nell’acqua questo… |
LES HERBES FOLLES
di Alain Resnais
Francia 2008, 104’
Concorso
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30/30 |
Se gli ultimi film di Alain
Resnais vi sono sembrati folli, quest’ultimo supera davvero ogni grazia di
Dio. La stupenda follia dei vecchi (e De Oliveira su tutti, anche sopra i
pur sublimi superstiti delle varie Nouvelles Vagues) si conferma
quanto di meglio ci sia al cinema oggi. E la follia di Resnais è quella
delle vette raggiungibili solo da chi conosce l’organizzazione rigorosa
dello spazio come le proprie tasche: insomma solo a chi ha spinto la
lucidità (quelle che serve ad incarnare le architetture concettuali di un
romanzo nelle architetture visuali dell’organizzazione dello spazio) a un
tale grado di condensazione da diventare follia.
All’inizio, il film sembra quantomeno inquadrabile. Un portafoglio (con
documenti e tutto) rubato ad una donna e trovato da un bizzarro signore
attempato, che sarà ossessionato da questa donna proprio perché non è altro
che un punto vuoto (ancora più che interrogativo), un’astrazione totale, e
quindi in qualche modo assoluta, sconfinata. In un qualche modo, anche la
donna cadrà reciprocamente vittima di questo sortilegio: anche lui (che
comincia ad assediarla ossessivamente) per lei è un’astrazione di questo
genere.
Però, questa situazione assumerà sviluppi assolutamente imprevedibili e
pazzoidi. Del resto, il leit motiv visuale del film (che ritorna
spesso) è proprio quell’erba ingovernabile che cresce nelle crepe, nelle
fessure che si aprono nel terreno, tra quelle che divaricandosi diventano
due zolle distinte (tra due personaggi, insomma). Per questo, a un certo
punto, come quest’erba il film sviluppa questo vuoto che unisce i due
personaggi facendo crescere una cosa assolutamente mai vista, liberissima,
sconcertante, schizzata, fresca. Il racconto insomma prende una serie di
pieghe che, una dopo l’altra, assurdità dopo assurdità, tracciano un
ghirigoro nel vuoto che potrebbe non finire mai: assolutamente
irresistibile.
Ma questa follia, appunto, è generata da una superiore lucidità: quella che
fa dello spazio (costruito con morbidi movimenti di macchina e
semantizzazione simbolica di tutto ciò che circonda i personaggi: vestiti,
ambienti, colori…) una materia infinitamente stilizzata, riconquistata alla
grafia. Un mondo che non è un mondo, ma un sistema di spigoli vivi la cui
coerenza di senso è tanto vivamente presente all’immediatezza della visione
quanto afferrabile con piena cognizione solo da un eventuale Dio (magari
quello che tiene una macchina da presa che, lungo tutto il film, spesso si
muove sinuosamente dall’alto guardando verso il basso).
Sarà per questo che il film è sballottato continuamente dall’alto al basso e
viceversa, dalle scarpe della protagonista (dichiarate fondamentali dalla
voce fuoricampo sin dalla prima inquadratura) al cielo della parte finale –
che prelude a un nuovo ritorno sulla terra, che chiameremmo conclusivo se
solo la linea spezzata in cui si inerpica con allucinante libertà il film
avesse minimamente dato l’idea di qualcosa con un inizio ed una fine. E che
quindi, dopo aver visto il film, siamo portati a percepire dappertutto,
vedendo il mondo finalmente come una serie infinita di linee di fuga
impazzite. |
iNGLORIOUS BASTERDS
di Quentin Tarantino
Stati Uniti 2009, 148’
Concorso
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30 e lode |
Inglorioso no, ma
l’aggettivo “bastardo” Tarantino se lo merita. E gli farebbe pure piacere.
Pompare la presenza di Pitt per mesi e fargli fare una particina solo per
poter mettere in piedi questo stupefacente film politico la cui storia
centrale nessuno si filerebbe, è uno dei sempre nuovi motivi per celebrare
il suo genio. Anche se certo, dal punto di vista di un produttore, è
difficile non chiamarla una carognata.
Ma i buoni, nel film, sono le carogne, e viceversa. Aldo Raine (Brad Pitt) è
un eroe americano al 200%, tanto burbero, violento e scorretto quanto i
nazisti sono quasi sempre creature impeccabili, coltissime, gentilissime,
educatissime, squisite, affabili e quant’altro. Che poi questo faccia venire
in mente Lubitsch, non è per nulla un caso, se è vero che la prima, lunga
scena del film (che è anche il primo dei cinque capitoli in cui è composto)
cita apertamente il suo immortale
Vogliamo Vivere del 1942 (“E così… com’è che mi chiamano?
Colonnello…?”), su un gruppo di attori teatrali che sovvertono dall’interno,
infiltrandovisi, gli alti ranghi nazisti.
Similmente, la “storia centrale che nessuno si filerebbe”, accennata
poc’anzi, si infiltra e sovverte dall’interno l’obbligo dello star-system
pittian-hollywoodiano. Si tratta di un’allegoria di resistenza attraverso il
cinema: durante la guerra, Shosanna, giovane ebrea cinefila rifugiatasi a
Parigi dopo lo sterminio della propria famiglia nella Francia occupata di
pochi anni prima, mette in piedi nella sala cinematografica che gestisce la
prima di un film che celebra le gesta di un eroico militare tedesco,
affinché tutta la gerarchia nazista al gran completo vi si rechi, e la si
possa far esplodere insieme al cinema stesso in un ineffabile complotto che
coinvolge l’intero mondo teutonico della celluloide dell’epoca. La cinefilia
è esplicitamente tematizzata (“Siamo in Francia, noi rispettiamo i
registi”): i film di Pabst una cinefila ebrea li mostra lo stesso, anche se
lui è tedesco: ciò che il cinema ha di universale è proprio questo
sciogliere tutte le differenze e le identità del visibile in un medesimo
godimento. Godimento che è ovviamente la cifra chiave del fare cinema di
Tarantino, l’unica semplice complicatissima sostanza che informa ognuno dei
suoi innumerevoli guizzi di regia – e così in questo film americani, indiani
ed ebrei si scambiano le parti con misurata confusione, in un medesimo
elogio della Minoranza (in senso soprattutto deleuziano). Minoranza che è,
non a caso, la dimensione in cui è incastrato, oggi, il cinema – con il
quale comunque Tarantino “marchia a fuoco” (cfr. il finale, irrivelabile) lo
spettatore rendendolo complice del suo infernale godimento pellicolare,
togliendogli l’innocenza e soprattutto qualunque illusione di “purezza”: la
resistenza di fatto coincide con questo sporcarsi le mani. Chi si illude di
essere puro, anche se imbattibile come l’”acchiappa-ebrei” tedesco Landa
(interpretato dall’incredibile rivelazione austriaca Christoph Waltz),
finisce beffato dall’essere caratterizzato con tutti i cliché possibili
delle sue “vittime” (gli ebrei).
Mai come qui Tarantino è virtuoso nel saper “cucinare” la sostanza
misteriosa del Godimento della pelle del cinema (“Sono schiavo delle
apparenze”, proclama alla fine Aldo Raine) sapendo alternare lunghi dialoghi
sapientemente stiracchiati come un elastico a scene di violenza improvvisa
montate con imprevedibilità di altri tempi (e di altre latitudini). Non ci
sono buoni né cattivi, ma solo diversi modi di avere a che fare con
quell’”essere sopra le righe” che è, in definitiva, l’esistenza – e che
Tarantino mette in scena in ogni secondo, spiazzando completamente la
situazione da un istante all’altro attraverso un leggero movimento di
macchina, un inserto che si conficca inaspettato… E’ questo “essere sopra le
righe”, tanto generico quanto carnale, a compiere il miracolo
dell’universalità; è questo il collante ideale per quella “comunità di non
appartenenti” che, a prescindere delle identità, dei ruoli e delle
circostanze geografiche, costituisce l’humus della resistenza. E questo
“essere sopra le righe”, questo essere in eccesso rispetto a quel visibile
che si è, è la definizione stessa del cinema secondo Tarantino. E non solo. |
UN PROPHETE
di Jacques Audiard
Francia 2009, 150'
Concorso
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25/30 |
Maggiorenne da poco, Malik è
condannato a sei anni di prigione. Lì dentro, non riuscirà a fare comunella
con i conterranei nordafricani, ma verrà invece più o meno costretto ad
appartenere al clan dei Corsi (di cui imparerà persino la lingua),
capeggiato da un potentissimo boss non più giovane.
Nella più ovvia delle maniere, con questo boss Malìk istituirà un complesso
rapporto di paternità putativa (sarà lui a costringerlo a uccidere per la
prima volta) e non si fa certo “spoiler” dicendo che alla fine riuscirà a
detronizzare la figura paterna. Una cornice scontata per uno sviluppo assai
abile, e impeccabile nell'intrecciare molte storie, molti rivoli narrativi,
un intricato dentro-fuori dal carcere per gestire gli affari dei Corsi ma
anche per conquistarsi una cospicua autonomia, che diventerà prestigio, che
diventerà potere. La precisione della scrittura nel documentare questa lenta
maturazione in un ambiente tanto difficile quanto simbolicamente universale
(le sue dinamiche sono quelle, amplificate, che reggono anche molti ambiti
del mondo esterno) è inaffondabile, ammirevole persino, ma innegabilmente
piuttosto pedante. Come pedante è l'aderenza fedele al punto di vista del
protagonista (con tutte le sue lacune e opacità), che non è scelta di messa
in scena, ma indice di rigidità – e se ci fossero dubbi, le maldestre
parentesi visionarie (gli anni scanditi dalle apparizioni del suo primo uomo
ucciso, un cervo che gli appare in sogno e che in seguito, quando meno se lo
sarebbe aspettato, piomba dal nulla a salvargli la vita) confermano quanto
la sua perizia narrativa lo porti a zoppicare vistosamente a livello visivo.
In definitiva, si tratta di televisione di lusso. Nulla di male, per carità:
però la decisione di costruire un grosso (anche in termini di durata) evento
cinematografico sfruttando meccanismi di narrazione seriale (perché la
complessità ramificata di prodotti come questo è lì che guardano: alla
grande serialità televisiva americana contemporanea), lascia quantomeno
perplessi. Per abile che sia, il gioco di intrecciare uno scheletro
elementare (un ragazzo che diventa uomo) con un florilegio ipertrofico di
variazioni (che è il magmatico ambiente a produrre) funziona meglio in
televisione. E funziona davvero alla grande: a cosa serve, allora, un
prodotto come Un prophète? |
VENGEANCE
di Johnnie To
Francia/Cina 2009, 108’
Concorso
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27/30 |
Johnnie To regola i conti
con Melville. I due si conoscono bene: Melville conosceva il cinema di
Johnnie To molto prima che esso esistesse, e non è lecito avere dubbi sul
fatto che il grande hongkonghese in seguito conoscesse il francese. Perché
Melville è stato “cineasta hongkonghese” prima di To; prima di lui (e prima
dei vari Kirk Wong, Tsui Hark, John Woo e compagnia bella) ha preso un
modello cinematografico (americano) e l’ha trapiantato in un territorio
straniero (francese, prima che hongkonghese).
Se mai fossero esistiti dubbi su questo parallelismo, To chiama ora il suo
protagonista Francis Costello, come quello che Alain Delon interpretava in
Le samourai del maestro
francese, e gli dà il volto di quel Delon spaesato e fuori posto che è,
oggi, Johnny Hallyday.
Che sia spaesato, è obbligatorio. Perché il suo eroe è un eroe che per una
pallottola in testa di anni prima è destinato a perdere la memoria. Il
Costello odierno gestore di ristorante si ricorda del suo passato da killer
non grazie alla sua coscienza, ma sparando per un riflesso involontario a un
piatto lanciato in aria. Ma che la sua memoria vacilli lo impariamo solo
avanti nel film, quando questo è invece tutto instradato in una direzione
ironicamente opposta: la vendetta. Opposta perché la vendetta fa di tutto
per tracciare una linea retta tra passato e presente, per consacrare la
legge secondo cui ogni azione ha una causa e una conseguenza. E l’amnesia,
ovviamente, questa linea la spezza.
Ma non c’è tempo per l’amnesia: Costello deve vendicare la morte violenta
della figlia (e della sua famiglia). Finisce così per assoldare
involontariamente i sicari gestiti dallo stesso mandate dell’omicidio che fu
fatale alla figlia. Ma ormai è una questione d’onore e loro si schiereranno
dalla sua parte, in nome di una quanto mai melvilliana amicizia virile.
L’azione sospesa in calligrafia stilistica, fu già il marchio forte
melvilliano. Ora, To esaspera questo tratto facendo vivere all’azione che
mette in scena una vera e propria sindrome amnesica. A questo fine, dà via
libera al suo intero arsenale: scene innaturalmente dilatate, contrasto tra
la precisione dell’azione inquadrata e l’arbitrarietà della traiettoria che
pone in essere (grazie al montaggio, che complica le cose senza
ingarbugliarle), gusto manierista di una coreografia seguita passo dopo
passo. Tempo che di tanto in tanto si ferma e sospende la situazione nel
gelo. L’azione si fa così automatica che diventa dimentica di sé, ridotta al
suo solo guscio splendente - proprio come Costello si ritrova sempre più
parodicamente passivo e assente, e persino regredito a una beata infanzia
innocente. Per tre o quattro volte, il film si perde nella stasi e si
ritrova appena prima di ripiombare in un nuovo efferato scontro armato.
Ma in fondo la centralità dell’amnesia è chiara sin dall’inizio, anche
quando ancora lo spettatore non sa che Costello tende a perdere la memoria:
quando i personaggi visitano il luogo del massacro iniziale in cui morì la
ragazza, sullo schermo vediamo una serie di flashback di nessuno in
particolare di come le cose erano andate quel giorno. Ovvero: se memoria ha
da essere, che sia memoria di nessuno. Che sia l’automatismo impersonale,
che è appunto l’oggetto di questa grandissima elegia che fa quadrare i conti
tra gli opposti incompatibili di azione e contemplazione, memoria (=
vendetta) e oblio. Come già Melville, e come ora To. |
LOS ABRAZOS ROTOS
di Pedro Almodovar
Spagna 2009, 129’
Concorso
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27/30 |
Un regista che visse due
volte. Non solo Mateo Blanco, cineasta diventato Harry Caine dopo
l’incidente che lo ha reso cieco (!). Ma, probabilmente, lo stesso
Almodovar, che qui ritorna quanto mai esplicitamente sulla sua filmografia e
gli dà un senso, di fatto nuovo. Che si trova solo stando al suo gioco e
dunque senza fermarsi alla generica accusa di “fare sempre le stesse cose” –
cosa, per Almodovar, vera da quando ha cominciato a fare film.
Il film che nel lungo flashback Harry Caine racconta di aver realizzato una
quindicina di anni prima, quando ancora era Mateo Blanco, è
inequivocabilmente Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Sono gli anni in
cui Mateo/Pedro diceva agli scenografi “Il decor lo voglio grafico, ma
vivo”. Ed è da qui che si dipartono i fili di un intreccio che coinvolge
convulsamente passato, presente, futuro, corna, figli nascosti, gelosie,
segreti, colpi di scena e quant’altro. E naturalmente, il piacere di seguire
l’arbitrarietà della contorsione e dell’intricarsi perverso e artificioso
(come artificioso è il decor) di tutti questi fili non è affatto cosa nuova:
è ciò a cui Almodovar ci ha sempre abituato. Ma c’è qualcosa oltre a questo?
C’è qualcosa di nuovo dietro a questo infinito riproporsi del medesimo
universo?
Sì. Qualcosa di nuovo, per cui vale la pena farsi strada tra questo magma
romanzesco, c’è. E come si fa a darne conto senza rovinare il piacere di
questa scoperta a chi vede il film per la prima volta (o a chi ci ritorna,
affascinato e curioso)? Si potrebbe darne qualche indizio, lasciato a una
vaghezza che starà alla visione approfondire, dato che come sempre in
Almodovar il piacere della visione si crede “piacere della passione” per
scoprirsi, invece, strada facendo, “piacere dell’interpretazione”.
Innanzitutto questo: se Harry ridiventa finalmente se stesso alla fine
(questo segreto di pulcinella, almeno, lo si può rivelare), cioè Mateo, è
perché ritorna su ciò che è già fatto, su ciò che è già compiuto. Così come
Almodovar ritorna al ghiaccio-fuoco delle passioni verissime e fintissime
del suo cinema precedente, e gli dà una strana aria, né ghiaccio né fuoco.
Il ritorno, quindi, tematizzato come tale, è la prima cosa a cui prestare
attenzione in questo groviglio narrativo: ritornare a ciò che è già
pietrificato nel passato, per poterlo salvare, redimere.
Secondo indizio: in questo perfetto architettarsi narrativo, c’è un
flashback, all’inizio, che sbuca fuori dalla coerenza del racconto, uno
squilibrio strutturale che stride con la calcolatissima perizia
drammaturgica del tutto. È la morte del padre del personaggio di Penelope
Cruz. Il punto, è proprio questo: l’autorità del padre, che fuor di metafora
è l’autorità del racconto stesso, della narrazione in quanto tale, viene
prima minata e poi restaurata. Il padre, è l’altro filo a cui fare
attenzione.
Terzo indizio: il conflitto tra la scrittura e la visione. È il filo più
importante, e quello che dà senso agli altri due (a cominciare dal fatto che
corrisponde perfettamente al conflitto padri/figli). Ed è anche ciò che li
risolve, perché colloca la visione come scrittura ripetuta, o meglio ancora
come scrittura salvata dalla propria condanna a perdere il proprio oggetto
(che è qui, fra l’altro, Penelope Cruz).
Conciliare finalmente l’inconciliabile: la scrittura e la visione, rispetto
a cui finalmente Almodovar trova la quadratura del cerchio, lasciando alla
visione il compito semplice e divino di esporre in forma disattivata
l’oscillazione (generata dalla scrittura) tra ghiaccio e fuoco, artificio ed
emozione, colori caldi e scenografie finte, tutti poli che ora non si
alternano più come una doccia scozzese ma fluttuano entrambi in una
affascinante e melmosa terra di nessuno. Ma conciliare scrittura e visione
non può farlo da solo un regista cieco. Servono altri occhi (indovinate di
chi saranno, nel film, questi occhi). E come Almodovar ritorna in maniera
praticamente autobiografica sul proprio freddo accademismo cercando altri
occhi che possano salvarlo, la critica può “essere” questi occhi salvatori
solo dichiarando in prima persona a propria volta il proprio pedante
accademismo. Affinché siano altri occhi a salvare questo eccesso di
scrittura: quelli dello spettatore, chiamato a servirsi come meglio crede (o
crede di credere) di questi indizi.
E così il cerchio si chiude. Perché, come dice l’ultima battuta del film (e
non è uno spoiler), i film si devono pur finire. |
SITO UFFICIALE |
62.mo festival di
cannes
Cannes, 13 - 24 Maggio 2009
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