festival DI CANNES

 

16/27:05:2007

CANNES

di Marco GROSOLI

 

Per la sessantesima edizione, Thierry Fremaux ha messo in piedi una selezione sulla carta assai interessante. Accanto a un buon numero di grossi nomi “obbligati” (Tarantino, i Coen, Van Sant…), sono stati scelti (con un coraggio e una lungimiranza che negli ultimi tempi si erano vosti solo nella Venezia di Muller) parecchi esponenti di quel “sottobosco” autoriale in cui sta chi non è certo uno sconosciuto ma si ferma un po’ prima della “stardom d’essai”, eventualmente in cerca di consacrazione: i vari Tarr, Reygadas, Kim Ki-Duk, Lee Chang-Dong, Seidl, Kawase… Molta attesa dunque per questo Concorso 2007. E le prime conferme non hanno tardato ad arrivare.

 

IN CONCORSO

MY BLUEBERRY NIGHTS

di Won Kar-Way

Hong Kong 2007, 111'

 


Ha aperto la kermesse My Blueberry Nights di Wong Kar-Wai, esperimento del grande esteta cinese in terra statunitense. Lo sappiamo già: molti storceranno il naso ribadendo la propria (ovvia) preferenza per il Wong dei primi film, di cui per qualche ragione credono di detenere il marchio “DOC”. Si lamenterà, insomma, che Wong si sta ripetendo, ed è anche vero, ma il punto è che solo ora si ripete Wong comincia a diventare interessante. Sono le variazioni minime quelle che contano, non la rivendicazione del proprio inutile totem autoriale. La storia è la stessa di tutti i film di Wong, come sempre frammentata in più storie tessute insieme da più voci over: la solita malinconia dell’amore impossibile e della solitudine coniugate al plurale. Jude Law e Norah Jones, entrambi camerieri, entrambi amanti non corrisposti, fanno da cornice tutt’altro che disinteressata all’usuale moltiplicarsi di vane pene d’amore. Wong, accortosi di essersi infilato in un vicolo cieco, reagisce a quest’impasse nel migliore dei modi: cacciandocisi dentro sempre più testardamente e a corpo morto, come nel buco nero che era 2046. Moltiplica i doppi, i riflessi, le corrispondenze gemellari tra i personaggi, fino a specchiarsi genialmente in quel doppio inquietante dello stile di Wong che è Las Vegas, trionfo assoluto di artificio, luci al neon, superfici troppo riflettenti, simulacri. Non poteva insomma che essere Las Vegas la meta ultima di questo bizzarro road movie (sì, proprio di questo si tratta, di un film intimista da camera deformato e stiracchiato sulla frontiera americana fino alla dissoluzione catartica), che inizia comprimendo tutto l’universo di Wong in un angusto localino (quello di Jude Law), in una boccia di vetro piena di chiavi che incarnano mille storie possibili (tutte naturalmente infelici), guardate di sbieco attraverso l’affollarsi, più claustrofobico che mai, di fuochi d’artificio figurativi, riflessi, luci al neon, discrepanze di fuoco, angolazioni strane e tutto ciò a cui ci ha abituato Wong da anni. Il suo gioco, alla fine, è quello di mostrarci che da questa compressione dello spazio, centripeta fino all’ossessione, non è immune l’estensione spaziale (centrifuga fino alla follia) sconfinata delle strade, del deserto, dei mille luoghi americani che la protagonista attraversa. Il che significa che il falso, dopo essersi sbizzarrito in tutti i modi possibili, si riconcilia col vero (vedi il personaggio di Natalie Portman, uguale e contrario alla protagonista). Ennesimo gioco di specchi che rilancia, estremizza, riscrive e riapre l’inconsolabile attaccamento all’idea di perdita che è il melodramma. L’amore e il lamento, finalmente, si specchiano fino a coincidere. 28/30

 

 

IN CONCORSO

vincitore della palma d'oro

4 months, 3 weeks and 2 days

4 luni, 3 saptamini si 2 zile

di Cristian Mungiu

Romania 2007, 113'

 


Altro film in concorso è 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni del giovane rumeno Cristian Mungiu, agghiacciante odissea di due ragazze alle prese con un difficile ma necessario aborto clandestino nella plumbea Romania pre-Ceausescu del 1987, con tutti gli immani rischi che la cosa comporta. Come molte opere della “New Wave” (o quasi) rumena degli ultimi anni (basti pensare a The Death of Mr. Lazarescu di Cristi Puiu), ci si mantiene in pericolosissimo equilibrio tra la mirabile trasparenza della messa in scena e una scaltrezza drammaturgica e produttiva sconcertante. Non si sa veramente da che parte pendere. è vero, c’è molta macchina a mano a seguire i personaggi, pochi stacchi, molti pianisequenza, molte inquadrature fisse e lunghe “neutrali”, grande attenzione al tempo “effettivo” di svolgimento della vicenda, ma il motore primo della rigorosa oggettività di questa narrazione è una gestione rigidissima, quasi marziale, delle curve e dei picchi drammatici, che si altalenano in modo quantomeno teatrale, nonostante l’antiteatralità assoluta della regia. Mungiu, insomma, sa terribilmente bene quello che fa, e sa costruire con niente una tensione che prende veramente allo stomaco. Basta uno stacco, un indugio, una focalizzazione “innocente” e automatica su un personaggio – e si arriva per davvero a tremare insieme alle sfortunate protagoniste. Tanto che (e questo è un bene) non risulta chiaro fino a che punto questo sia cinica spregiudicatezza narrativa (non certo avara di colpi bassi, come quando non si tira indietro dall’inquadrare un feto sanguinante) e fino a che punto il meccanismo sia invece scoperto, evidente, manifesto, esplicito: non per niente il film termina con la protagonista che di punto in bianco guarda verso la macchina da presa, verso di noi. Altro che cinema povero: il nome che viene da fare davanti a un cinema del genere, in modo meno paradossale di quel che sembra, è William Wyler. 28/30
 

:::  1 >> - 16 maggio :::