Per la sessantesima edizione, Thierry Fremaux ha
messo in piedi una selezione sulla carta assai interessante. Accanto a un
buon numero di grossi nomi “obbligati” (Tarantino, i Coen, Van Sant…), sono
stati scelti (con un coraggio e una lungimiranza che negli ultimi tempi si
erano vosti solo nella Venezia di Muller) parecchi esponenti di quel
“sottobosco” autoriale in cui sta chi non è certo uno sconosciuto ma si
ferma un po’ prima della “stardom d’essai”, eventualmente in cerca di
consacrazione: i vari Tarr, Reygadas, Kim Ki-Duk, Lee Chang-Dong, Seidl,
Kawase… Molta attesa dunque per questo Concorso 2007. E le prime conferme
non hanno tardato ad arrivare.
IN CONCORSO
MY
BLUEBERRY NIGHTS
di Won Kar-Way
Hong Kong 2007, 111'

Ha aperto la kermesse My Blueberry
Nights di Wong Kar-Wai, esperimento del grande esteta cinese
in terra statunitense. Lo sappiamo già: molti storceranno il naso ribadendo
la propria (ovvia) preferenza per il Wong dei primi film, di cui per qualche
ragione credono di detenere il marchio “DOC”. Si lamenterà, insomma, che
Wong si sta ripetendo, ed è anche vero, ma il punto è che solo ora si ripete
Wong comincia a diventare interessante. Sono le variazioni minime quelle che
contano, non la rivendicazione del proprio inutile totem autoriale. La
storia è la stessa di tutti i film di Wong, come sempre frammentata in più
storie tessute insieme da più voci over: la solita malinconia
dell’amore impossibile e della solitudine coniugate al plurale. Jude Law e
Norah Jones, entrambi camerieri, entrambi amanti non corrisposti, fanno da
cornice tutt’altro che disinteressata all’usuale moltiplicarsi di vane pene
d’amore. Wong, accortosi di essersi infilato in un vicolo cieco, reagisce a
quest’impasse nel migliore dei modi: cacciandocisi dentro sempre più
testardamente e a corpo morto, come nel buco nero che era 2046. Moltiplica i
doppi, i riflessi, le corrispondenze gemellari tra i personaggi, fino a
specchiarsi genialmente in quel doppio inquietante dello stile di Wong che è
Las Vegas, trionfo assoluto di artificio, luci al neon, superfici troppo
riflettenti, simulacri. Non poteva insomma che essere Las Vegas la meta
ultima di questo bizzarro road movie (sì, proprio di questo si
tratta, di un film intimista da camera deformato e stiracchiato sulla
frontiera americana fino alla dissoluzione catartica), che inizia
comprimendo tutto l’universo di Wong in un angusto localino (quello di Jude
Law), in una boccia di vetro piena di chiavi che incarnano mille storie
possibili (tutte naturalmente infelici), guardate di sbieco attraverso
l’affollarsi, più claustrofobico che mai, di fuochi d’artificio figurativi,
riflessi, luci al neon, discrepanze di fuoco, angolazioni strane e tutto ciò
a cui ci ha abituato Wong da anni. Il suo gioco, alla fine, è quello di
mostrarci che da questa compressione dello spazio, centripeta fino
all’ossessione, non è immune l’estensione spaziale (centrifuga fino alla
follia) sconfinata delle strade, del deserto, dei mille luoghi americani che
la protagonista attraversa. Il che significa che il falso, dopo essersi
sbizzarrito in tutti i modi possibili, si riconcilia col vero (vedi il
personaggio di Natalie Portman, uguale e contrario alla protagonista).
Ennesimo gioco di specchi che rilancia, estremizza, riscrive e riapre
l’inconsolabile attaccamento all’idea di perdita che è il melodramma.
L’amore e il lamento, finalmente, si specchiano fino a coincidere.
28/30
IN CONCORSO
vincitore della palma d'oro
4
months, 3 weeks and 2 days
4 luni,
3 saptamini si 2 zile
di Cristian Mungiu
Romania 2007, 113'

Altro film in concorso è 4 mesi, 3
settimane e 2 giorni del giovane rumeno Cristian Mungiu,
agghiacciante odissea di due ragazze alle prese con un difficile ma
necessario aborto clandestino nella plumbea Romania pre-Ceausescu del 1987,
con tutti gli immani rischi che la cosa comporta. Come molte opere della
“New Wave” (o quasi) rumena degli ultimi anni (basti pensare a The
Death of Mr. Lazarescu di Cristi Puiu), ci si mantiene in
pericolosissimo equilibrio tra la mirabile trasparenza della messa in scena
e una scaltrezza drammaturgica e produttiva sconcertante. Non si sa
veramente da che parte pendere. è
vero, c’è molta macchina a mano a seguire i personaggi, pochi stacchi, molti
pianisequenza, molte inquadrature fisse e lunghe “neutrali”, grande
attenzione al tempo “effettivo” di svolgimento della vicenda, ma il motore
primo della rigorosa oggettività di questa narrazione è una gestione
rigidissima, quasi marziale, delle curve e dei picchi drammatici, che si
altalenano in modo quantomeno teatrale, nonostante l’antiteatralità assoluta
della regia. Mungiu, insomma, sa terribilmente bene quello che fa, e sa
costruire con niente una tensione che prende veramente allo stomaco. Basta
uno stacco, un indugio, una focalizzazione “innocente” e automatica su un
personaggio – e si arriva per davvero a tremare insieme alle sfortunate
protagoniste. Tanto che (e questo è un bene) non risulta chiaro fino a che
punto questo sia cinica spregiudicatezza narrativa (non certo avara di colpi
bassi, come quando non si tira indietro dall’inquadrare un feto sanguinante)
e fino a che punto il meccanismo sia invece scoperto, evidente, manifesto,
esplicito: non per niente il film termina con la protagonista che di punto
in bianco guarda verso la macchina da presa, verso di noi. Altro che cinema
povero: il nome che viene da fare davanti a un cinema del genere, in modo
meno paradossale di quel che sembra, è William Wyler. 28/30
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- 16 maggio ::: |