iv ed. biografilm festival
international celebration of lives

Bologna, 11 - 15 Giugno 2008

 

di Chiara ARMENTANO

Omaggio a Edo Bertoglio>>

Dio Pop: The Fabulous World of Andy Warhol

 

L’idea di svelare scenari e altarini della vita esagerata di Warhol – divinità assoluta del Pop statunitense – e di chi ha orbitato intorno al suo firmamento, non è questione nuova agli ideatori del Biograf. Sergio Fanti, curatore di questa sezione del festival, sottolinea più volte il tentativo di proseguire un percorso già iniziato durante le scorse edizioni, avendo mostrato opere incentrate su artisti underground quali Jack Smith, una delle tante muse di Andy, o Marie Menken, il cui salotto era luogo di ritrovo per artisti e film-makers. Il Biograf 2008 volge la passione per un periodo tanto prolifico per le arti e il cinema ad unico manifesto programmatico di un anno che scandisce un quarantennio esatto da quegli esordi. Il sessantotto aveva magicamente esaurito ogni seguente tentativo di rivolta giovanile, suggellandone al tempo stesso la più pura essenza. Guardando questi film è facile rendersene conto. Niente di ciò che oggi può sembrare “eccessivo”, “fuori dagli schemi” o semplicemente “anticonformista”, conserva quella stessa aura di autenticità, di feroce contestazione in grado di stridere contro i modelli patinati di appena un decennio prima. E questo non vale solo in riferimento alle arti visive – di cui tutti sanno, dalle lattine Campbell alle Marilyn seriali a Elvis, per citarne alcuni – ma a tutte le multiformi performances che in questa fabbrica di sogni e incubi potevano muoversi sincronicamente sullo sfondo della Big Apple.


L’interesse dei curatori va a focalizzarsi sul periodo della cosiddetta “SILVER FACTORY”, i primi 5-6 anni (dal ’63 al ’69), distinti per il gusto eccessivo e la novità assoluta di una crew di artisti eclettici aperti a ogni tipo di sperimentazione. È in quel luogo a metà tra un laboratorio e un set porno che nascono alcuni tra i più grandi artisti del rinnovamento, tra gli altri anche Jean-Michel Basquiat, e tempo dopo Keith Haring. 
Sono anni duri ma pieni, quelli di New York tra Cinquanta e Sessanta. Come fa notare Edo Bertoglio, intervenuto a presentare il suo documentario, sono anni in cui vivere a New York era più che sentirsi al centro di tutto: significava poter “decidere” su quel centro, vivere in un luogo dove parlare e agire erano davvero una cosa sola, e dove le conseguenze erano già subito tendenza. Erano anche gli anni delle droghe e del sesso, ma non si sapeva ancora cosa fosse l’Aids. Unendo opere di quel periodo con film girati più di recente, lo spirito dell’iniziativa fa riflettere su cosa abbia rappresentato la Factory in quegli anni, considerando al contempo quanto sia rimasto oggi di quei fasti, in termini di eredità culturale ed esperienziale. Che fine hanno fatto quelle stesse persone, cosa conservano di allora e cosa odiano, cosa rifarebbero e cosa vorrebbero non fosse mai accaduto. La mente va a Brigid Berlin, una delle poche sopravvissute, si direbbe in ottima forma rispetto ad allora. La grassona tutta ciccia e logorrea è diventata una rispettabile signora, rugosa ma slanciata e attenta alla sua dieta, che vive coi suoi cani in un loft iper-kitch di Manhattan.    
Ma pochi come la Berlin mantengono quella forma e soprattutto quell’autoironia a tratti un po’ macabra. In realtà la maggior parte di questa gente è scomparsa. Fa pensare l’incipit del film di Edo Bertoglio, Face Addict, in cui la sua ex-compagna Maripol e lui stesso, ricordano una quantità di personaggi morti attraverso migliaia di scatti e volti diversi. L’amarezza per un destino interrotto troppo presto prende il sopravvento. E lo stesso Walter Stering, che ricorda gli anni della sua dipendenza, del buio e del dolore, ma anche dell’estro giovanile mai abbandonato, ammette che quanto era allora un’arte povera, urbana e “pop-ular” in ogni senso possibile, è oggi in una parola “business”, e basta. Niente si fa per niente, ogni cosa ha il suo prezzo, il proprio listino, un unico valore di scambio. E come dargli torto.

 

Pie in The Sky: The Brigid Berlin Story
di Vincent Fremont, Shelly Dunn Fremont
Stati Uniti 2000, 75'

 

Pop Lives! Warhol

Brigid “Polk” Berlin è una delle donne più in vista della gang warholiana. Alta e molto grassa, la Berlin è una delle ispiratrici più importanti per Andy che la chiama tutti i giorni, si diverte a riprenderla nelle sue pose da venere maledetta, ascoltando quella voce sinuosa e accattivante capace di infinite modulazioni. Nonostante le apparenze, Brigid nasce in una ricchissima famiglia di New York: i genitori la abituano ad avere tutto, le impongono una ferrea educazione fatta di perfezione e successo. Sebbene il bel viso e gli occhi azzurri sorridano alla mdp, il corpo allargato di Brigid testimonia la sua più grande nevrosi: il cibo è quanto le permette di sopravvivere, quanto riesce a narcotizzarla dai doveri familiari. Ciò di cui ha bisogno per staccarsi dall’odiosa realizzazione upper class. Case di cura e cliniche per dimagrire non servono a nulla. Più Brigid va avanti e più sembra chiaro che la sua bulimia è una scusa volta a sfogare la frustrazione per genitori assenti e una vita vuota. Non è un caso se una delle sue gag più famose la vedeva alzare la cornetta e chiamare “dal vivo” i suoi genitori. Tutta New York sapeva quanto accadeva in casa Berlin, i conflitti e i litigi, ma soprattutto tutto il mondo la osservava nuda e completamente fatta nei film in cui recitava chiedendo droga ai suoi compagni.     
Le foto della  giovane Brigid si alternano a filmini di famiglia, spezzoni di film e spettacoli della Factory e immagini della signora imbiancata che è diventata. I suoi genitori sono morti, i fratelli non le rivolgono la parola, e ciò che rimane sono solo ricordi e i dolci, l’unico vero amore della sua vita.

27/30

AWARD PRESENTATION TO ANDY WARHOL

di Jonas Mekas
Stati Uniti 1964, 12'

 

Pop Lives! Warhol

Jonas Mekas, padrino del cinema underground americano, fu uno dei pochi (se non l’unico) cineasta in quel periodo ad avere il coraggio di mostrare i film di Warhol. Nel 1963 Mekas, che scriveva sul “Village Voice” e su giornali come “Film Culture”, decise di registrare la cerimonia in cui, per la stessa rivista, viene dato a Andy un premio simbolico, il cosiddetto “Premio Andy Warhol”. Il corto – dura appena 12 minuti – documenta esattamente questi momenti, mostrando come il discusso premio non fosse altro che un cesto di verdura che l’artista avrà cura di distribuire tra i partecipanti al rito. La camera è quasi fissa, e l’impatto immediato col film è simile a quello di un quadro animato, un tableaux vivant immobile quanto le espressioni statiche delle facce-fulcro della Factory.

26/30

SUPERSTAR IN A HOUSEDRESS

THE LIFE AND THE LEGEND OF JACKIE CURTIS

di Craig Highberger

Stati Uniti 2003, 95'

 

Pop Lives! Warhol

John Holden, in arte Jackie Curtis, è ancora una star nel firmamento della Factory. Nato nella New York del secondo dopoguerra, Jack(ie) può considerarsi un’icona del travestitismo, idolo di una precoce gioventù stretta nelle maglie di gender, figura eclettica, camaleontica, vitale e rigogliosa come ognuna delle anime votate a Warhol. Seguendo il leitmotiv del Festival, l’immagine dell’artista viene fuori da un puzzle di interviste, fotografie, filmati di repertorio, registrazioni. Ne viene fuori un ritratto significativo, anche grazie alle descrizioni di chi lo ha amato. Con Holly Woodlawn e Candy Darling Jackie costituì il trio emblematico dei cambiamenti tran-s-“generici” in atto nei laborativi creativi della città. Un terzetto compatto, controparte ideale delle dive glamour di Hollywood, simboli kitch di una sessualità capovolta eppure ancora seducente, di un modo eccessivo ed enfatizzato degno dei migliori drammi off e off-off Broadway. Essere se stessi, ironizzando sulla realtà di una condizione “altra”, permette alle tre dive di affermarsi come tali, e di dichiarare per la prima volta all’America, ancora troppo puritana di allora, qualcosa di unico e mai visto. Diversamente da Candy e Holly, Jackie non è una “drag” e basta, ma piuttosto entrambe le cose insieme, a volte uomo a volte donna. I suoi riferimenti sono le icone luccicanti della Hollywood anni Trenta e Quaranta, e in nome di quei miti che il suo “mito” contiene un nuovo superamento. Il primo in grado di oltrepassare i confini del “divus” tout court, per trasformarsi in maschera permanente, una sorta di caricatura di se stesso che annulli il già labile confine tra personaggio e realtà agìta. E in fondo questo era anche quanto Andy voleva ottenere con la sua Pop-life. Attore, poeta, Jackie scrisse numerose commedie, recitò in alcuni film, tra cui il Women in Revolt di Paul Morrissey che la consacrò star del travestitismo, inneggiando alla liberazione femminile.

28/30

CIAO! MANHATTAN

di John Palmer, Davis Weisman
Stati Uniti 1972, 77'

 

Pop Lives! Warhol

Altro ritratto di una musa warholiana, bruciata ancora prima di Curtis. Edie Sedgwick arriva al centro della Factory per la sua risuonante e fulminea bellezza. Completamente diversa dall’aura ribelle e fuori dagli schemi di Jackie, Edie è più vicina alle riviste glamour e al look chic di allora: fa la modella per svariate riviste, "Life" e "Vogue", fino a quando l’incontro con Andy non la consacra madrina assoluta delle sue opere in pellicola. Recita in Chelsea Girl, Kitchen e svariati altri film. Le si attribuisce una storia con Andy e dopo anche con Bob Dylan.

Ciao! Manhattan nasce come progetto nel ’67, con l’intento di immortalare la diva e il suo mondo, tra incursioni surreali e ritratti effettivi della sua vita. Nei fatti, il film faticò a trovare forma compiuta per alcuni intoppi tra cui la scomparsa della stessa Sedgwick, e l’arresto di uno dei protagonisti, Paul America, per traffico di sostanze. L’assenza di Edie, inaspettata, durò circa tre anni, durante i quali non si sa bene cosa accadde. Tornò nella natìa California e tentò di disintossicarsi, si dice anche sottoponendosi a sedute di elettro-shock, e al suo rientro il film iniziale subì non pochi cambiamenti. Diviso in due parti, da un lato le immagini della New York warholiana restituiscono un languido b/n, dall’altro esse rappresentano il ricordo di Susan (Edie, cioè se stessa) che si trova in California nel tentativo di disintossicarsi. Il film ambisce a una visionarietà che, forse, raggiunge più verosimilmente nel momento in cui è la stessa realtà delle cose a confondersi con la fiction e a compiere il gesto che, da ultimo, tenta di raggiungere l’essenza di Edie. Figlia di una ricchissima famiglia di Santa Barbara, Edie viene abusata sin da piccola, suo fratello si suicida a 26 anni, e ognuno dei componenti della sua famiglia porta i segni di disturbi psichiatrici. La dipendenza dalle droghe di Susan/Edie spiega molte cose, compreso lo stato di confusione che conduce la ragazza a mostrare meno personalità delle altre “dive” warholiane. Muore tre mesi dopo le riprese.

27/30

THE PINK FLOYD & SYD BARRETT STORY
di John Edginton
Regno Unito 2001, 49'

 

focus su syd barrett

Syd Barrett, prima stella del gruppo che portò la psichedelia in musica, fu anche il primo frontman ad essere estromesso per la sua metamorfosi psichica. Il documentario di Edginton tenta di far luce sulla storia del più promettente cantante della fine dei Sixties, talentuoso, intelligente, pieno di vita e allo stesso tempo sperimentatore, innovatore, maledetta testa calda. Nato a Cambridge nel ’46, Roger “Syd” dimostra talento e volontà di sfondare e quando arriva nella Londra effervescente di quegli anni i riconoscimenti giungono immediati. Dagli spettacoli all’UFO, all’arruolamento con l’etichetta EMI, il gruppo si fa riconoscere grazie a lui, che scrive i testi e compone spettacoli di luci e suoni (light shows) mai visti prima. Ma la parabola di Syd si spegne in fretta, bruciata dal consumo di Lsd che assorbì quella linfa grintosa d’un tempo. Il documentario tenta di ricostruire la storia e le opinioni dei componenti del gruppo, in che modo vissero il suo cambiamento, lasciando intravedere come tutto fosse accaduto quasi per caso, senza una reale consapevolezza. Lo descrivono all’improvviso con occhi aggressivi e assenti, un’espressione vuota stampata sul viso che ne causerà la lenta ma inesorabile estromissione dal gruppo. In “Vegetable Man” Syd parla di se stesso, tenta di rappresentare la rinascita della gioventù sessantesca sotto l’ala di nuovi dèi, nuove abitudini, nuovi abiti e fattezze, proprio come succedeva ai membri della Factory warholiana. Soccombere alle sostanze era un po’ il leitmotiv di allora, lasciarsi andare fino alla fine. I sottotitoli totalmente sgrammaticati – per un errore della produzione – sembrano uno scherzo del destino per un uomo la cui unica grammatica di vita era scandita dal puro non-sense creativo.

25/30

 

iv ed. biografilm festival
international celebration of lives

Bologna, 11 - 15 Giugno 2008