iv ed. biografilm festival
international celebration of lives

Bologna, 11 - 15 Giugno 2008

 

di Valentina VELLUCCI

Commento

Focus on Peter Whitehead


“No, non credo proprio. La mia prima passione non è il cinema. Amo allevare falconi, mi piace scrivere…mi piace l’egittologia…non metto il cinema al primo posto”. E questa è una risposta che certo non ci si aspetta da quello che è ormai considerato l’inventore del videoclip, Peter Whitehead.
La sua presenza sul palco mette in soggezione: trasmette allo stesso tempo austerità ed energia, fermezza ed entusiasmo nel vedere una sala così gremita da togliere il respiro. I suoi capelli sono irrealmente bianchi, la voce ferma e scandisce chiaramente le parole, in modo tale che l’auditorium non possa fraintenderlo. Quello che dice vuole che sia chiaro e ben recepito: e non vuole ripeterlo due volte.
“Non credevo di essere neanche portato a fare film.” Così Whitehead inizia a raccontare del suo primo “ingaggio”cinematografico: il suo primo lavoro fu per la Nuffield Foundation. Gli fu richiesto di girare un documentario scientifico: e Whitehead girò THE PERCEPTION OF LIFE. Il risultato non piacque molto ai docenti, che tagliarono anche parecchi pezzi musicali della pellicola, ritenendola inadatta ai loro scopi. L’esordiente regista infatti aveva creato qualcosa di assolutamente impensabile per l’epoca: un film girato con una cinepresa che agisce come telescopio, un documentario scientifico e musicale allo stesso tempo. Whitehead pensò allora di non essere molto tagliato per il cinema e abbandonò per un po’ il campo. Finché un suo amico, qualche tempo dopo, non lo avvisò che il suo THE PERCEPTION OF LIFE era proiettato proprio al teatro vicino casa sua. “Allora pensai che forse un po’ ero portato e così girai, un anno dopo, Wholly Communion, per completare quello che avevo iniziato”.
Dopo aver visto THE PERCEPTION OF LIFE effettivamente si può intuire perché non sia stato di molto gradimento per la Nuffield Foundation: assistere all’opera di Whitehead è come appoggiare l’occhio sullo schermo cinematografico e guardare il film dall’interno verso l’esterno. È difficile spiegare come, ma l’uso della macchina è talmente condizionante da obbligare a guardare “da dentro” il film…Sarà l’uso del colore, o la coordinazione fra movimento della macchina e musica.. fatto sta che THE PERCEPTION OF LIFE è l’inizio di un nuovo modo di vedere cinematograficamente le cose.
“Quando andai al Royal Albert Hall per filmare l’International Poetry Incarnation avevo portato con me solo 40 minuti di pellicola. Mi accorsi subito che erano davvero troppo pochi”. Così Whitehead ha raccontato gli albori di una carriera in continuo crescendo: “Il poeta che mi piacque di più fu senz’altro Gregory Corso. Tutti portavano poesie sul Vietnam, invece lui portò qualcosa che parlava della mutazione dello spirito. Mi piacque davvero molto”.
Davanti alla sua cinepresa tutti sembrano confessarsi: poeti, musicisti, dolly girls…città intere si svestono di fronte al suo nuovo modo di guardare al mondo. Dove era Whitehead, lì l’immagine diventava storia. Ha filmato Rolling Stones, Led Zeppelin, Velvet Underground & Nico, i Pink Floyd di Syd Barrett… e ancora, Whitehead fu l’unico presente all’occupazione della Columbia University di New York pochi mesi dopo la morte di Martin Luther King: dalla sua esperienza sul campo nascerà l’ipnotico THE FALL. Senz’altro il suo capolavoro. Un film di una intensità tale da lasciare basiti, che trasporta lo spettatore dentro i locali della Columbia, al cospetto di Robert Kennedy, Arthur Miller e molti altri ancora . Una vera e propria esperienza catartica di fronte allo schermo. Se l’impressione più scontata è “Mi sembra di essere lì”, ciò che in realtà traspare è il trasporto con cui Whitehead riesce a veicolare valori di un tempo che non ci appartiene più. Il suo genio è quello di restituirci sogni che non siamo più in grado di desiderare.
Dai suoi lavori si consacrano le leggende. Anticipando di gran lunga SHINE A LIGHT di Scorsese (per la cui realizzazione il regista si è spesso consultato con Whitehead e di cui ha utilizzato molti materiali), Whitehead getta le basi per il cosìdetto rockumentary e consegna alla storia i Rolling Stones. “CHARLIE IS MY DARLING: THE RARE ROLLING STONES ON TOUR è un film elettrico, a metà fra il culto immaginifico e il post-moderno. Le inquadrature di Whitehead entrano dentro la bocca di Mick Jagger, fino a esplorarne ogni singola variazione, ogni smorfia. Fra Berlino e Belfast, i Rolling Stones furono consegnati alla leggenda grazie alle inquadrature oniriche di Whitehead.
Inquadrature che si ripetono anche nel LED ZEPPELIN: LIVE AT ROYAL ALBERT HALL del 1970, un rockumentary che per ben 30 minuti entra dentro l’assolo di batteria di John Bonham. I Led Zeppelin sul palco sono ripresi in modo tale assomigliare a creature mitiche più che a esseri fatti in carne ed ossa. E sembra davvero di essere lì sotto al palco ad aspettare il prossimo pezzo del gruppo di Jimmy Page.
Dopo le esplosioni di colore e le zoomate nei video realizzati su Jimi Hendrix, il modo di riprendere il rock non è stato più lo stesso.
“Cosa salverebbe dei suoi lavori?”
“Sinceramente, non credo salverei nulla di quello che ho filmato. Non mi fido del mezzo cinematografico”. Sono proprio queste le parole di Whitehead riferendosi ai suoi capolavori. Non si sarebbe mai aspettato che qualcuno organizzasse dei festival per rivedere i suoi film, né tanto meno che alcuni studenti di cinema esaminassero le sue pellicole. Eppure è così. Whitehead è involontariamente diventato una istituzione in un campo che non rientra nemmeno fra le sue maggiori passioni.
Persino il mito della “Swinging London” viene abbattuto dal regista che per primo l’aveva raccontato in TONITE LET’S ALL MAKE LOVE LONDON (1970).
“Sono estremamente annoiato dal mito della Swinging London. Persino nel mio titolo lo sottolineo. Il titolo è TONITE e non TONIGHT: è un titolo americano, non inglese. Il mio era un ironico commento alla Swingng London”.
L’allevatore di falconi spiega che in realtà Londra era solo un satellite americano. La vera rivoluzione era in America. Tutto quello che diventava famoso a Londra doveva prima passare per l’America. Londra era solo un satellite. “Il mito dei Sixties, della Swinging London era solo un mito creato dagli americani per far apparire gli inglesi ancora più stupidi. Era stato un articolo del Times a inventare la Swinging London. Gli Americani comprarono tutto quello che c’era da comprare a Londra : anche i miti”.
La rivoluzione che viene raccontata in TONITE LET’S ALL MAKE LOVE LONDON è “una rivoluzione in ritardo di 30 anni”, come spiega Whitehead. La vera rivoluzione era in America, con la guerra del Vietnam, i movimenti pacifisti. A Londra le dolly girls rappresentavano una liberazione femminista che in America era già avvenuta tre decenni prima. Se portare una minigonna a Londra era simbolo di ribellione, il vero rinnovamento culturale non passava di certo per quella via. La Londra colorata e trasgressiva venduta dai media, Whitehead la racconta attraverso la scelta del colore nero, vero spirito della controcultura londinese in continuo conflitto a causa dei rapidi mutamenti sociali. La rima cromatica della nera e sgargiante Swinging London viene completata con la scelta di Syd Barrett e dei suoi Pink Floyd. Whitehead aveva infatti scelto i Pink Floyd per scrutare la vera anima della London’s counterculture. “Syd possedeva una impenetrabilità di fronte alla cinepresa che mi affascinava”. Una impenetrabilità che Whitehead ha ritrovato solo molti anni dopo in un altro anti-eroe musicale: Pete Doherty, sul quale sta girando un documentario.
Whitehead è molto critico nei confronti dell’imperialismo culturale made in USA. Se questo è evidente nella sua pellicola sulla Swinging London dei Sixties, la sua critica si acuisce ancora di più quando si parla di attualità. “I miei film non sarebbero così apprezzati se non avessi un così ottimo sponsor in America: G. W. Bush.”- racconta ironicamente Whitehead - “Il fascismo mediatico che ormai impera nei nostri media impedisce qualsiasi forma di critica alla realtà esistente. L’ho già detto: non mi fido, a differenza di altri, del mezzo cinematografico”. La sua diffidenza nei confronti del mezzo cinematografico e l’ammissione dell’esistenza di un fascismo mediatico che fa da muro di gomma nei confronti dell’esercizio della libera espressione, scuote la platea. Non si sentiva da tempo, soprattutto in Italia, un uomo in grado di dare il giusto nome alle cose e ai fenomeni che avvengono attorno a noi. Un gesto semplice eppure raro ai nostri tempi.
“Non vedo l’ora di tornare a casa mia. Pensate che l’idea di promuovere i miei film non è stata neanche mia. È stato un gruppo di miei amici a organizzare tutto. A me piace stare da solo. Ho trascorso 25 anni nel deserto. Sono una persona introversa. Passo il 99% del mio tempo da solo. Sono contento quando sono da solo. Ero contento nel deserto e sono contento quando sono solo con i miei falconi. Sto bene con loro, perché i miei falconi sono il simbolo dello stupore del pellegrino alla continua ricerca del suo segreto”.
 

 

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Bologna, 11 - 15 Giugno 2008