Focus on Peter Whitehead
“No, non credo proprio. La mia prima passione non è il cinema. Amo allevare
falconi, mi piace scrivere…mi piace l’egittologia…non metto il cinema al
primo posto”. E questa è una risposta che certo non ci si aspetta da quello
che è ormai considerato l’inventore del videoclip, Peter Whitehead.
La sua presenza sul palco mette in soggezione: trasmette allo stesso tempo
austerità ed energia, fermezza ed entusiasmo nel vedere una sala così
gremita da togliere il respiro. I suoi capelli sono irrealmente bianchi, la
voce ferma e scandisce chiaramente le parole, in modo tale che l’auditorium
non possa fraintenderlo. Quello che dice vuole che sia chiaro e ben
recepito: e non vuole ripeterlo due volte.
“Non credevo di essere neanche portato a fare film.” Così Whitehead inizia a
raccontare del suo primo “ingaggio”cinematografico: il suo primo lavoro fu
per la Nuffield Foundation. Gli fu richiesto di girare un documentario
scientifico: e Whitehead girò THE PERCEPTION OF LIFE. Il risultato non
piacque molto ai docenti, che tagliarono anche parecchi pezzi musicali della
pellicola, ritenendola inadatta ai loro scopi. L’esordiente regista infatti
aveva creato qualcosa di assolutamente impensabile per l’epoca: un film
girato con una cinepresa che agisce come telescopio, un documentario
scientifico e musicale allo stesso tempo. Whitehead pensò allora di non
essere molto tagliato per il cinema e abbandonò per un po’ il campo. Finché
un suo amico, qualche tempo dopo, non lo avvisò che il suo THE PERCEPTION OF
LIFE era proiettato proprio al teatro vicino casa sua. “Allora pensai che
forse un po’ ero portato e così girai, un anno dopo,
Wholly Communion, per
completare quello che avevo iniziato”.
Dopo aver visto THE PERCEPTION OF LIFE effettivamente si può intuire perché
non sia stato di molto gradimento per la Nuffield Foundation: assistere
all’opera di Whitehead è come appoggiare l’occhio sullo schermo
cinematografico e guardare il film dall’interno verso l’esterno. È difficile
spiegare come, ma l’uso della macchina è talmente condizionante da obbligare
a guardare “da dentro” il film…Sarà l’uso del colore, o la coordinazione fra
movimento della macchina e musica.. fatto sta che THE PERCEPTION OF LIFE è
l’inizio di un nuovo modo di vedere cinematograficamente le cose.
“Quando andai al Royal Albert Hall per filmare l’International Poetry
Incarnation avevo portato con me solo 40 minuti di pellicola. Mi accorsi
subito che erano davvero troppo pochi”. Così Whitehead ha raccontato gli
albori di una carriera in continuo crescendo: “Il poeta che mi piacque di
più fu senz’altro Gregory Corso. Tutti portavano poesie sul Vietnam, invece
lui portò qualcosa che parlava della mutazione dello spirito. Mi piacque
davvero molto”.
Davanti alla sua cinepresa tutti sembrano confessarsi: poeti, musicisti,
dolly girls…città intere si svestono di fronte al suo nuovo modo di guardare
al mondo. Dove era Whitehead, lì l’immagine diventava storia. Ha filmato
Rolling Stones, Led Zeppelin, Velvet Underground & Nico, i Pink Floyd di Syd
Barrett… e ancora, Whitehead fu l’unico presente all’occupazione della
Columbia University di New York pochi mesi dopo la morte di Martin Luther
King: dalla sua esperienza sul campo nascerà l’ipnotico THE FALL. Senz’altro
il suo capolavoro. Un film di una intensità tale da lasciare basiti, che
trasporta lo spettatore dentro i locali della Columbia, al cospetto di
Robert Kennedy, Arthur Miller e molti altri ancora . Una vera e propria
esperienza catartica di fronte allo schermo. Se l’impressione più scontata è
“Mi sembra di essere lì”, ciò che in realtà traspare è il trasporto con cui
Whitehead riesce a veicolare valori di un tempo che non ci appartiene più.
Il suo genio è quello di restituirci sogni che non siamo più in grado di
desiderare.
Dai suoi lavori si consacrano le leggende. Anticipando di gran lunga SHINE A
LIGHT di Scorsese (per la cui realizzazione il regista si è spesso
consultato con Whitehead e di cui ha utilizzato molti materiali), Whitehead
getta le basi per il cosìdetto rockumentary e consegna alla storia i Rolling
Stones. “CHARLIE IS MY DARLING: THE RARE ROLLING STONES ON TOUR è un film
elettrico, a metà fra il culto immaginifico e il post-moderno. Le
inquadrature di Whitehead entrano dentro la bocca di Mick Jagger, fino a
esplorarne ogni singola variazione, ogni smorfia. Fra Berlino e Belfast, i
Rolling Stones furono consegnati alla leggenda grazie alle inquadrature
oniriche di Whitehead.
Inquadrature che si ripetono anche nel LED ZEPPELIN: LIVE AT ROYAL ALBERT
HALL del 1970, un rockumentary che per ben 30 minuti entra dentro l’assolo
di batteria di John Bonham. I Led Zeppelin sul palco sono ripresi in modo
tale assomigliare a creature mitiche più che a esseri fatti in carne ed
ossa. E sembra davvero di essere lì sotto al palco ad aspettare il prossimo
pezzo del gruppo di Jimmy Page.
Dopo le esplosioni di colore e le zoomate nei video realizzati su Jimi
Hendrix, il modo di riprendere il rock non è stato più lo stesso.
“Cosa salverebbe dei suoi lavori?”
“Sinceramente, non credo salverei nulla di quello che ho filmato. Non mi
fido del mezzo cinematografico”. Sono proprio queste le parole di Whitehead
riferendosi ai suoi capolavori. Non si sarebbe mai aspettato che qualcuno
organizzasse dei festival per rivedere i suoi film, né tanto meno che alcuni
studenti di cinema esaminassero le sue pellicole. Eppure è così. Whitehead è
involontariamente diventato una istituzione in un campo che non rientra
nemmeno fra le sue maggiori passioni.
Persino il mito della “Swinging London” viene abbattuto dal regista che per
primo l’aveva raccontato in TONITE LET’S ALL MAKE LOVE LONDON (1970).
“Sono estremamente annoiato dal mito della Swinging London. Persino nel mio
titolo lo sottolineo. Il titolo è TONITE e non TONIGHT: è un titolo
americano, non inglese. Il mio era un ironico commento alla Swingng London”.
L’allevatore di falconi spiega che in realtà Londra era solo un satellite
americano. La vera rivoluzione era in America. Tutto quello che diventava
famoso a Londra doveva prima passare per l’America. Londra era solo un
satellite. “Il mito dei Sixties, della Swinging London era solo un mito
creato dagli americani per far apparire gli inglesi ancora più stupidi. Era
stato un articolo del Times a inventare la Swinging London. Gli Americani
comprarono tutto quello che c’era da comprare a Londra : anche i miti”.
La rivoluzione che viene raccontata in TONITE LET’S ALL MAKE LOVE LONDON è
“una rivoluzione in ritardo di 30 anni”, come spiega Whitehead. La vera
rivoluzione era in America, con la guerra del Vietnam, i movimenti
pacifisti. A Londra le dolly girls rappresentavano una liberazione
femminista che in America era già avvenuta tre decenni prima. Se portare una
minigonna a Londra era simbolo di ribellione, il vero rinnovamento culturale
non passava di certo per quella via. La Londra colorata e trasgressiva
venduta dai media, Whitehead la racconta attraverso la scelta del colore
nero, vero spirito della controcultura londinese in continuo conflitto a
causa dei rapidi mutamenti sociali. La rima cromatica della nera e
sgargiante Swinging London viene completata con la scelta di Syd Barrett e
dei suoi Pink Floyd. Whitehead aveva infatti scelto i Pink Floyd per
scrutare la vera anima della London’s counterculture. “Syd possedeva una
impenetrabilità di fronte alla cinepresa che mi affascinava”. Una
impenetrabilità che Whitehead ha ritrovato solo molti anni dopo in un altro
anti-eroe musicale: Pete Doherty, sul quale sta girando un documentario.
Whitehead è molto critico nei confronti dell’imperialismo culturale made in
USA. Se questo è evidente nella sua pellicola sulla Swinging London dei
Sixties, la sua critica si acuisce ancora di più quando si parla di
attualità. “I miei film non sarebbero così apprezzati se non avessi un così
ottimo sponsor in America: G. W. Bush.”- racconta ironicamente Whitehead -
“Il fascismo mediatico che ormai impera nei nostri media impedisce qualsiasi
forma di critica alla realtà esistente. L’ho già detto: non mi fido, a
differenza di altri, del mezzo cinematografico”. La sua diffidenza nei
confronti del mezzo cinematografico e l’ammissione dell’esistenza di un
fascismo mediatico che fa da muro di gomma nei confronti dell’esercizio
della libera espressione, scuote la platea. Non si sentiva da tempo,
soprattutto in Italia, un uomo in grado di dare il giusto nome alle cose e
ai fenomeni che avvengono attorno a noi. Un gesto semplice eppure raro ai
nostri tempi.
“Non vedo l’ora di tornare a casa mia. Pensate che l’idea di promuovere i
miei film non è stata neanche mia. È stato un gruppo di miei amici a
organizzare tutto. A me piace stare da solo. Ho trascorso 25 anni nel
deserto. Sono una persona introversa. Passo il 99% del mio tempo da solo.
Sono contento quando sono da solo. Ero contento nel deserto e sono contento
quando sono solo con i miei falconi. Sto bene con loro, perché i miei
falconi sono il simbolo dello stupore del pellegrino alla continua ricerca
del suo segreto”.
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